Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27524 del 30/12/2016


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Cassazione civile, sez. II, 30/12/2016, (ud. 15/11/2016, dep.30/12/2016),  n. 27524

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7523-2013 proposto da:

D.V.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

TEVERE 44, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO DI GIOVANNI, che

la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

D.V.B. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA

DANTE 12, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO TRANI, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4012/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 20/07/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/11/2016 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1 Con atto 9.5.01 D.V.A., assumendo di essere proprietaria esclusiva, in virtù di divisione del 15.2.92, di un cortile antistante la sua abitazione in (OMISSIS), convenne davanti al Tribunale di Latina D.V.B., proprietaria di un immobile confinante, per ottenerne la condanna alla rimozione di alcuni vasi con piante ornamentali collocati su detto cortile e per far dichiarare l’inesistenza di diritti o servitù a favore della convenuta con ingiunzione ad astenersi da ulteriori turbative o molestie.

D.V.B. contestò la domanda, deducendo che l’area cortilizia era comune in virtù dello stesso titolo richiamato dall’attrice.

2 Con sentenza del 20.2.03 il Tribunale pontino respinse la domanda, ritenendo la natura comune ed indivisa dell’area cortilizia, ma la Corte d’Appello di Roma, accogliendo l’impugnazione dell’attrice, ribaltò l’esito della lite e condannò D.V.B. alla rimozione dei vasi, a liberare il cortile e ad astenersi da qualsiasi turbativa del legittimo possesso da parte di A..

Per giungere a tale soluzione la Corte romana considerò una perizia stragiudiziale prodotta in primo grado dall’attrice, unitamente ad un documento prodotto in secondo grado, la dichiarazione rilasciata dallo stesso notaio che aveva ricevuto l’atto divisionale del 1992, dai quali desumeva che a servizio dello stabile di cui alla (OMISSIS) vi erano due distinti cortili, uno dei quali soltanto era rimasto in comune, mentre l’altro, era di proprietà esclusiva dell’attrice, costituendo parte integrante della particella catastale contrassegnante l’immobile alla medesima attribuito.

3 La decisione venne impugnata per cassazione da D.V.B. per violazione di legge e vizio di motivazione e questa Corte Suprema, con sentenza n. 5440/2010, ha accolto il ricorso negando valenza probatoria al documento che aveva spiegato rilevanza decisiva agli effetti del ribaltamento della decisione di merito, cioè la dichiarazione postuma del notaio rogante; ha quindi invitato il giudice di rinvio ad una più attenta rivalutazione della eventuale rilevanza probatoria dell’elemento residuale, cioè la perizia stragiudiziale (contenente riferimenti a dati catastali non provenienti da entrambe le parti in lite), atteso che la sentenza impugnata, senza analitica disamina del titolo di provenienza, si era limitata a dare atto che in quell’elaborato, comunque costituente atto di parte, redatto in assenza di contraddittorio, la situazione rappresentata era convergente alla tesi dell’attrice.

4 All’esito del giudizio di rinvio, la Corte territoriale di Roma, con sentenza 20.7.2012, ha respinto l’appello di D.V.A. confermando così l’originario rigetto della domanda sulla base delle seguenti argomentazioni:

– la precisa individuazione del bene assegnato ad D.V.A. in sede di divisione (locale al piano terra) e la indicazione del cortile come uno dei confini escludeva rilevanza probatoria ad elementi contrari di provenienza non consensuale, come le indicazioni desumibili dalla perizia stragiudiziale e i dati catastali;

– di conseguenza, rimaneva priva di supporto la tesi della attrice fondata sulla proprietà esclusiva del cortile in contestazione distinto da quello menzionato nell’atto di divisione, perchè se le parti condividenti avessero inteso dividere lo spazio scoperto in due cortili, oggetto di distinte attribuzioni, lo avrebbero previsto, mentre invece mancavano espresse indicazioni in tal senso;

– il riferimento testuale ad “un locale” rendeva palese che l’assegnazione ad A. riguardava un ambiente chiuso e coperto, senza alcun riferimento ad eventuali aree scoperte di pertinenza diretta e esclusiva del terraneo;

– la chiarezza della situazione sul piano petitorio emergente anche dalle planimetrie e fotografie in atti rendeva superflua la consulenza tecnica ed ogni altra attività istruttoria.

5 Anche questa decisione è stata impugnata per cassazione, ma da D.V.A., con due motivi a cui resiste con controricorso D.V.B..

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1- Con il primo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2, per non essersi la Corte territoriale uniformata a quanto statuito dalla Corte di Cassazione scartando radicalmente la perizia stragiudiziale, cioè proprio l’elemento probatorio che avrebbe dovuto necessariamente sottoporre a disamina per valutarne la rilevanza probatoria.

Il motivo è infondato perchè mostra di non cogliere esattamente l’indagine affidata nel caso di specie al giudice di rinvio, equivocandone i relativi poteri.

I limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384 c.p.c., comma 1, al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua “potestas iudicandi”, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione “ex novo” dei fatti già acquisiti, nonchè la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità (v. Sez. 1, Sentenza n. 17790 del 07/08/2014 Rv. 632551; Sez. L, Sentenza n. 13719 del 14/06/2006 Rv. 590355; Sez. L, Sentenza n. 6707 del 06/04/2004 Rv. 571860).

E’ stato altresì affermato nel caso di cassazione per vizi della motivazione, la sentenza rescindente – indicando i punti specifici di carenza o di contraddittorietà della motivazione – non limita il potere del giudice di rinvio all’esame dei soli punti indicati, da considerarsi come isolati dal restante materiale probatorio, ma conserva al giudice stesso tutte le facoltà che gli competevano originariamente quale giudice di merito, relative ai poteri di indagine e di valutazione della prova, nell’ambito dello specifico capo della sentenza di annullamento. In quest’ultima ipotesi, poi, il giudice di rinvio, nel rinnovare il giudizio, è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente od implicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, in sede di esame della coerenza del discorso giustificativo, evitando di fondare la decisione sugli stessi elementi del provvedimento annullato, ritenuti illogici, e con necessità, a seconda dei casi, di eliminare le contraddizioni e sopperire ai difetti argomentativi riscontrati (Sez. L, Sentenza n. 13719 del 14/06/2006 Rv. 590355).

Nel caso in esame – in cui la cassazione è stata disposta in accoglimento di un ricorso proposto sia per violazione di legge che per vizi di motivazione – la Corte Suprema, dopo avere accertato la violazione di legge espungendo la prova ritenuta anomala (la dichiarazione postuma del notaio rogante l’atto divisionale), aveva richiesto al giudice di rinvio di valutare “l’eventuale” rilevanza probatoria della perizia di parte (“di tale residuo elemento”) il che, ovviamente, non escludeva affatto, in base agli esposti principi giurisprudenziali, la possibilità per il giudice di rinvio di pervenire ad una valutazione di totale irrilevanza probatoria del documento – di parte, si badi bene – qualora lo avesse ritenuto superato dal rilievo decisivo assunto da altro documento proveniente, questa volta – da entrambe le parti. Del resto proprio la Corte Suprema aveva addebitato al giudice del merito un chiaro difetto di attività, per avere dato peso ad un atto di parte, redatto in assenza di contraddittorio (cioè la perizia stragiudiziale), “senza analitica disamina in relazione al titolo di provenienza delle proprietà delle contendenti”.

Pertanto, l’aver desunto – da parte del giudice di rinvio – l’irrilevanza degli elementi contrari di provenienza non consensuale (come le indicazioni desumibili dalla perizia di parte) all’esito di quella ragionata disamina dell’atto di divisione anche sotto il profilo ermeneutico (colmando così una chiara lacuna del precedente giudizio riscontrata dalla Corte di Cassazione) costituisce una ratio decidendi del tutto in linea con i principi di diritto che regolano i poteri del giudice di rinvio e pertanto la censura non coglie nel segno.

2 Con il secondo motivo si lamenta, ex art. 360 c.p.c., n. 5, l’insufficienza e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Ad avviso della ricorrente, la Corte era chiamata a chiarire il contenuto dell’atto di divisione, trattandosi in particolare di stabilire se il confine della porzione dell’attrice si collocava in corrispondenza dei muri del locale o al di la di una piccola area scoperta antistante il locale medesimo. Contesta la ricostruzione fatta dalla Corte d’Appello rilevando la natura pertinenziale dell’area scoperta e dunque la non necessità di una individuazione specifica. Secondo la ricorrente si trattava di stabilire dove si estende la sua proprietà e dove comincia la proprietà comune analogamente a quanto avviene nell’azione di regolamento di confini, di cui invoca il relativo regime probatorio. Rileva che il cortile comune menzionato nell’atto tra i confini non formava oggetto di divisione perchè appartenente anche ad estranei mentre invece era compreso nella divisione l’area scoperta di cui si discute.

La Corte d’Appello avrebbe erroneamente accorpato tale area scoperta al cortile comune trattando entrambi come una cosa sola e sottraendo una porzione immobiliare dal compendio di proprietà delle parti e tra queste diviso. Rimprovera infine alla Corte di rinvio di avere obliterato gli unici elementi rilevanti per dirimere la lite, contenuti nella perizia di parte di cui riporta il contenuto.

Questa censura è in parte inammissibile e in parte infondata.

2.1 E’ inammissibile nella parte in cui (pag. 8) introduce per la prima volta una questione di diritto implicante inevitabili accertamenti in fatto non devoluta ai giudici di merito (la tematica afferente all’azione di regolamento di confini e alla libertà a cui è ispirato il relativo regime probatorio).

Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, qualora una determinata questione giuridica che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata nè indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, il ricorrente che riproponga la questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (tra le varie, v. sez. 1, Sentenza n. 25546 del 30/11/2006 Rv. 593077; Sez. 3, Sentenza n. 15422 del 22/07/2005 Rv. 584872 Sez. 3, Sentenza n. 5070 del 03/03/2009 Rv. 606945).

La ricorrente non offre tali necessarie indicazioni.

2.2 Ciò chiarito, ritiene il Collegio opportuno ricordare, in considerazione del vizio dedotto, il costante orientamento di questa Corte, anche a sezioni unite secondo cui la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (v. tra le tante, Sez. 3, Sentenza n. 17477 del 09/08/2007 Rv. 598953; Sez. U, Sentenza n. 13045 del 27/12/1997 Rv. 511208; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014 Rv. 629382).

Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha dato conto del proprio convincimento sulla natura comune del cortile in contestazione, e sulla inesistenza della previsione di due aree scoperte, attraverso l’interpretazione dell’atto di divisione del 1992, individuando esattamente la natura del bene assegnato alla condividente D.V.A. e valorizzando la espressa menzione del cortile tra i confini del cespite; ha poi escluso, per mancanza di espresse indicazioni nell’atto, l’ipotizzabilità della previsione di un secondo cortile destinato a pertinenza del terraneo attribuito ad A. e, quindi compreso nella sua quota.

Trattasi, come si vede, di un percorso argomentativo del tutto lineare e privo di vizi logici, che esprime con chiarezza il procedimento ermeneutico seguito (valorizzazione della volontà dei condividenti alla stregua della descrizione dei cespiti assegnati e dei confini e significativo silenzio su altri elementi che invece, se sussistenti, avrebbero dovuto essere senz’altro riportati nell’atto).

Detto ragionamento si sottrae alla critica della ricorrente che tende in sostanza ad una alternativa interpretazione del contenuto dell’atto divisionale del 1992 (non consentita nel giudizio di cassazione), senza però neppure denunziare – come invece sarebbe stato necessario – la violazione, da parte della Corte di rinvio, dei precisi canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. c.c..

In conclusione, il ricorso va respinto con addebito di ulteriori spese alla parte soccombente.

Considerato inoltre che il ricorso per cassazione è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è stato rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 2.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 15 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2016

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