Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27521 del 19/12/2011

Cassazione civile sez. II, 19/12/2011, (ud. 22/11/2011, dep. 19/12/2011), n.27521

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – rel. est. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Fondazione ecclesiastica Istituto Marchesi Teresa, Girino e Lippo

Gerini, in persona del Presidente don D.P.O.,

rappresentato e difeso per procura a margine del ricorso

dall’Avvocato RESTIVO Diego, elettivamente domiciliato presso il suo

studio in Roma, piazzale Clodio n. 12;

– ricorrente –

contro

G.M. e D.B.A.M., residenti in (OMISSIS),

rappresentati e difesi per procura a margine del controricorso

dall’Avvocato STEFANO Stefano, elettivamente domiciliati presso il

suo studio in Roma, via Casilina n. 1804;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 848 della Corte di appello di Roma, depositata

il 23 febbraio 2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22

novembre 2011 dal consigliere relatore Dott. Mario Bertuzzi;

udite le difese svolte dall’Avv. Diego Restivo per la ricorrente e

dall’Avv. Stefano Stefano per i controricorrenti;

udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. SGROI Vittorio, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione del 1995, la Fondazione ecclesiastica Istituto Marchesi Teresa, Girino e Lippo Gerini, premesso di essere proprietaria di un terreno in Fiumicino e che esso era occupato senza titolo da G.M. e D.B.A.M., che vi avevano edificato abusivamente una costruzione, chiese al Tribunale di Roma la condanna dei convenuti al rilascio del terreno ed alla demolizione dei manufatti illegittimamente costruiti.

Le controparti si opposero alla pretesa proponendo domanda riconvenzionale di acquisto della proprietà dell’immobile per intervenuto usucapione.

Espletata l’istruttoria mediante prove orali, l’acquisizione di documenti ed una consulenza tecnica d’ufficio, il Tribunale, in accoglimento della domanda della Fondazione, condannò i convenuti al rilascio del terreno ed alla demolizione dei manufatti in esso realizzati.

Interposto appello, con sentenza n. 848 del 23 febbraio 2005 la Corte di appello di Roma riformò la pronuncia di primo grado dichiarando G.M. proprietario per intervenuta usucapione del terreno rivendicato. In particolare, il giudice di secondo grado ritenne fondata la domanda riconvenzionale di usucapione sulla base del rilievo che le prove raccolte avevano dimostrato il possesso ventennale del bene da parte del convenuto, considerato anche il possesso esercitato sullo stesso dalla madre, S.R., sua dante causa, che aveva iniziato ad occupare il bene fin dal 1950 in forza di un contratto di affitto agrario ma che poi, nella seconda parte degli anni ’50, edificando su di esso una casa di circa 50 mq, aveva manifestato in modo non equivoco la volontà di comportarsi come proprietaria in via esclusiva, a nulla rilevando in contrario l’intervenuta proroga del contratto agrario stipulato in forma orale dal 1 gennaio al 31 dicembre 1956.

Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 14 marzo 2006, ricorre la Fondazione ecclesiastica Istituto Marchesi Teresa, Girino e Lippo Gerini, affidandosi a quattro motivi.

Resistono con controricorso G.M. e D.B.A. M..

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo di ricorso denunzia nullità dei giudizi di primo e di secondo grado per violazione e falsa applicazione degli artt. 102, 161 e 354 cod. proc. civ. e art. 1158 cod. civ., sostenendo che la Corte di appello non avrebbe potuto decidere sulla domanda di usucapione atteso che essa non era stata proposta nei confronti di tutto i titolari del bene, tenuto conto che dalla relazione del consulente tecnico d’ufficio risultava che, in forza di un atto di divisione del 1948, l’immobile per cui è causa apparteneva, per 21/125, a D.G.d.I., persona mai evocata in giudizio. Il giudice di secondo grado, dato atto della mancata integrità del contraddittorio, avrebbe pertanto dovuto dichiarare la nullità del giudizio di primo grado e rimettere la causa dinanzi al Tribunale per la chiamata in causa della litisconsorte necessaria.

Il mezzo è infondato.

Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che il difetto di integrità del contraddittorio, non essendo un’eccezione in senso stretto, può essere dedotto per la prima volta anche nel giudizio di legittimità, nel quale può tuttavia essere dichiarato soltanto a condizione che la prova di esso emerga dagli atti, con la precisazione che deve trattarsi di prova univoca, nel senso che ciò che deve emergere dagli atti è l’effettiva circostanza in forza della quale può stabilirsi che il giudizio di merito non si è svolto nei confronti di tutte le parti e che, per l’effetto, la sentenza appare inutilter data (Cass. n. 4764 del 2005;

Cass. n. 11415 del 2003). Nel caso particolare tale prova, nel senso sopra precisato, non può dirsi invece raggiunta, atteso che la circostanza che il bene sia intestato, per una quota, anche ad altro soggetto, rimasto estraneo al giudizio, è interamente dedotta da un mero richiamo alle indicazioni contenute nell’elaborato depositato dal consulente tecnico d’ufficio, laddove la parte avrebbe dovuto dimostrarla sulla base degli atti di provenienza. A ciò si aggiunga che l’indicazione fatta sul punto dal consulente tecnico è tratta da un atto risalente al 1948, che, per la sua stessa collocazione temporale, non può rappresentare un indice sicuro per stabilire che la contitolarità esistesse anche al momento della proposizione della domanda (1995).

Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1141, 1158 e 2697 cod. civ., censurando la sentenza impugnata per avere accolto la domanda riconvenzionale del G. sulla base del rilievo che la sua dante causa, S. R., che originariamente era mera detentrice del terreno, occupandolo in virtù di un contratto di affitto, avesse poi compiuto atti di interversione del possesso, nonostante che, in realtà, tali circostanze ed il loro valore giuridico fossero stato oggetto di eccezioni o allegazioni da parte dei convenuti soltanto in sede di appello, essendosi essi limitati, nella loro comparsa di costituzione in primo grado, a dedurre che il bene de quo era stato sempre occupato dalla loro famiglia fin dal 1924. Così decidendo, la Corte di merito avrebbe violato il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e il divieto di proporre domande nuove in appello. Il motivo è infondato.

La tesi sostenuta nel ricorso, secondo cui i convenuti nell’allegare soltanto con l’atto di appello fatti di interversione del possesso da parte della loro originaria dante causa, S.R., avrebbero modificato in modo non consentito la loro domanda, non è condivisibile, potendosi ad essa facilmente controbattere che tanto nel primo che nel secondo grado la domanda da essi formulata in via riconvenzionale è rimasta ferma nella richiesta di usucapione, mentre gli elementi di novità introdotti nel giudizio di appello hanno riguardato soltanto le modalità di fatto relative all’acquisto del possesso. Nel caso di specie, pertanto, va ravvisato non già un mutamento della domanda, non consentito in appello, ma una mera precisazione della domanda originaria quanto alle circostanze acquisitive del possesso, pienamente ammessa. Nè va sottaciuto che, per giurisprudenza costante di questa Corte, il diritto di proprietà, rientrando nella categoria dei diritti autodeterminati, si caratterizza per il suo contenuto e non anche per il suo titolo di acquisto, con l’effetto che l’allegazione nel giudizio di appello di un diverso fatto costitutivo della proprietà integra una mera emendatio libelli, non vietata dall’art. 345 cod. proc. civ.. A fortiori, pertanto, in un giudizio avente oggetto al domanda di accertamento della proprietà per usucapione, non può essere colpita dalla sanzione della inammissibilità la mera specificazione in appello di nuove modalità di acquisto del possesso.

Il terzo motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1141, 1158 e 2697 cod. civ. e artt. 112, 345, 115 e 116 cod. proc. civ., ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, censurando la sentenza impugnata per avere affermato che la dante causa del convenuto, S.R., in forza dell’edificazione dell’immobile sul terreno da lei affittato, avesse mutato lo stato di detenzione in quello di possesso. La valutazione così operata dal giudice territoriale è errata in quanto l’interversione del possesso è atto che, rivelando la volontà del detentore di comportarsi d’ora in poi come proprietario, deve essere rivolto espressamente nei confronti del titolare del bene, laddove l’edificazione rappresentava null’altro che un inadempimento posto in essere dal detentore. In ogni caso, la decisione è sbagliata e la motivazione viziata per avere la Corte svalutato indebitamente la circostanza che nel 1956, cioè dopo che la costruzione della casa era già iniziata, la S. aveva prorogato il contratto di affitto agrario, così riconoscendo espressamente l’altrui proprietà del concedente. La Corte romana avrebbe inoltre dato rilievo, ai fini della dimostrazione del possesso, a circostanze di per sè non univoche o irrilevanti, quale il fatto che il terreno fosse recintato e chiuso con un cancello, che l’immobile fosse stato per lungo tempo locato a terzi e che per la costruzione fosse stata presentata istanza di sanatoria.

Anche questo motivo è infondato.

Va premesso al riguardo che l’accertamento della sussistenza in concreto di atti capaci di provocare l’interversione del possesso, vale a dire il mutamento dello stato di fatto della detenzione in possesso, costituisce un’indagine di fatto, rimessa alla esclusiva competenza del giudice di merito, sicchè, nel giudizio di legittimità, questa Corte non può prendere direttamente in esame la condotta della parte, al fine di stabilire se il comportamento dedotto abbia o meno integrato la fattispecie della interversione, ma può solo valutare se l’accertamento sul punto compiuto dal giudice di merito sia sufficientemente e logicamente motivato e sia rispondente ai criteri legali che qualificano, dal punto di vista giuridico, il fenomeno della interversione (Cass. n. 4404 del 2006;

Cass. n. 12007 del 2004).

Tanto precisato, si osserva che la Corte di appello ha ravvisato nel caso di specie l’interversione del possesso nel fatto che sul terreno in oggetto, della superficie di circa 450 mq., detenuto a titolo di affitto, fosse stata edificata una costruzione con destinazione abitativa di circa 50 mq., affermando che il fatto di edificare costituisce esercizio di una facoltà inerente al diritto di proprietà, con l’effetto che essa manifesta, anche verso l’esterno, mediante una condotta riconoscibile da parte di tutti e quindi anche dal proprietario, l’intenzione di comportarsi come proprietario del bene. Tale valutazione appare sottrarsi alle critiche sollevate dalla ricorrente.

Sotto il profilo della motivazione, in quanto le ragioni poste a base dell’accertamento appaiono sufficientemente esplicitate e congrue e logicamente adeguate in ordine alla conclusione raggiunta. Sotto il profilo della violazione di diritto, avendo questa Corte già più volte chiarito che l’interversione della detenzione in possesso può avvenire anche attraverso il compimento di sole attività materiali, se esse manifestano in modo inequivocabile e riconoscibile dall’avente diritto l’intenzione del detentore di esercitare il potere sulla cosa esclusivamente nomine proprio, vantando per sè il diritto corrispondente al possesso in contrapposizione con quello del titolare della cosa (Cass. n. 5419 del 2011; Cass. n. 1296 del 2010).

Nè sembra sul punto che possa negarsi, in via generale ed astratta e salva ogni valutazione in concreto, che spetta, come rilevato, al solo giudice di merito, che l’edificazione di una casa su un terreno ricevuto in detenzione possa manifestare la volontà di comportarsi come proprietario, rappresentando essa l’estrinsecazione di una facoltà tipica del diritto dominicale. In questo senso, del resto, questa Corte risulta essersi già espressa, affermando che la costruzione di un organismo edilizio nuovo, realizzato dal detentore di un terreno su propria iniziativa, senza il consenso, quanto meno tacito, dei proprietari, i soli legittimati al compimento di attività edificatorie sul fondo, costituisce un comportamento suscettibile di manifestare pretese dominicali sul bene, trascendenti i limiti della detenzione, sia pur qualificata, incompatibili con il possesso del titolare del diritto reale, come tali idonee ad integrare gli estremi di un atto d’interversione ai sensi dell’art. 1141 cod. civ., comma 2 (Cass. n. 1296 del 2010; si vedano, inoltre, Cass. n. 12968 del 2006 e Cass. n. 1802 del 1995, quest’ultima con riferimento alla realizzazione da parte del detentore di una strada sul fondo). Infondata appare infine la censura di vizio di motivazione con riferimento alla circostanza che la dante causa dei convenuti, cui viene fatto risalire il fatto della interversione del possesso, avesse stipulato la proroga del contratto di affitto del fondo per l’anno 1956, che è atto palesemente incompatibile con la volontà di possedere. Dalla lettura della sentenza emerge infatti che la costruzione è stata realizzata nella seconda metà degli anni ’50, sicchè è da ritenere successiva alla proroga, mentre risulta sfornita di qualsiasi riferimento agli atti probatori la deduzione della ricorrente secondo cui l’inizio della costruzione sarebbe precedente all’atto di proroga in questione.

Il quarto motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1146, 1158 e 2697 cod. civ. e art. 115 cod. proc. civ. ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, lamentando che la Corte di merito abbia ritenuto verificato il presupposto del possesso ventennale del bene da parte del convenuto ammettendolo ai fini dell’elemento temporale ad unire il proprio possesso con quello di S.R., pur in mancanza di prova di essere erede o avente causa della stessa.

Sotto altro profilo la Fondazione lamenta che il giudice di secondo grado abbia ritenuto provato il possesso del G., pur non avendo lo stesso mai provato di avere esercitato sull’immobile un possesso in via esclusiva.

Il motivo è infondato.

La prima censura non ha pregio in quanto, come risulta dalla lettura della sentenza impugnata, la circostanza che S.R., originaria detentrice del bene, fosse la madre del convenuto G., che alla sua morte aveva ereditato il terreno in questione, non aveva mai formato oggetto di contestazione ed era quindi da considerarsi pacifica.

La doglianza che lamenta la mancanza di prova in ordine al possesso da parte del G. trova diretta confutazione nell’accertamento compiuto dal giudice di merito, laddove ha precisato che il convenuto aveva il possesso esclusivo delle chiavi del cancello di ingresso ed aveva, alla morte della madre, continuato ad usare del bene con le medesime modalità.

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza della parte ricorrente.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la Fondazione ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 22 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2011

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