Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27513 del 28/10/2019

Cassazione civile sez. II, 28/10/2019, (ud. 14/05/2019, dep. 28/10/2019), n.27513

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17024/2015 proposto da:

R.S., elettivamente domiciliato in ROMA C/O DI MAJO, VIA

AVEZZANA 6, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE OLIVERIO,

rappresentato e difeso dall’avvocato UGO SCIRE’;

– ricorrente –

contro

RI.AN., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LAZIO 20-C,

presso lo studio dell’avvocato MASSIMO FRANCESCO DOTTO, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

G.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 775/2014 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 09/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/05/2019 dal Consigliere Dott. ANTONINO SCALISI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Ri.An., nel luglio del 2001, chiedeva ed otteneva da Tribunale di Firenze, nei confronti della Interedil s.r.l., decreto ingiuntivo per il pagamento di Lire 35.400.000, oltre interessi e spese del procedimento monitorio. Nel ricorso per D.I. il Ri. aveva esposto che le Interedil, in subappalto, gli aveva affidato l’esecuzione di lavori per la installazione di alcuni infissi e di carpenteria metallica, e che, dopo l’ultimazione delle opere, aveva emesso la fattura n. (OMISSIS) in data (OMISSIS) per Lire 35.400.000 (IVA compresa) non pagata, nonostante numerosi solleciti.

La Interedil srl. proponeva opposizione, avverso tale decreto, sostenendo l’inadempimento del Ri. per non avere, questi, ultimato i lavori nel termine stabilito, per non averli eseguiti a regola d’arte e chiedeva che fosse dichiarata la risoluzione del contratto per inadempimento del subappaltatore e che questi venisse condannato al risarcimento dei danni, nonchè alla restituzione della somma indebitamente percepita e di cui alla fattura n. (OMISSIS).

Il Ri. si costituiva, contestando il fondamento dell’opposizione e rilevando che i problemi evidenziatisi erano dovuti ai lavori eseguiti dalla Interedil.

Il Tribunale di Firenze, con sentenza n. 1339/06, previa C.T.U., accoglieva l’opposizione della Interedil s.r.l. e revocava il decreto ingiuntivo opposto; inoltre, dichiarava risolto il contratto sottoscritto dalle parti in data 12/02/2001 e condannava il Ri. al pagamento in favore della società opponente dell’importo di Lire 10.329.678 con rivalutazione monetaria ed interessi legali; le spese di lite venivano poste a carico del Ri..

Il Tribunale argomentava come segue: – per l’ultimazione dei lavori (installazione di infissi, copertura del vano ascensore, realizzazione di una pensilina) era stata pattuita la data del 26/02/2001, giorno fissato per la inaugurazione dei locali presso l’Ospedale di (OMISSIS), doveva ritenersi che si trattasse di termine essenziale, ex art. 1457 c.c., in quanto la Interedil, a sua volta, aveva ricevuto in appalto i lavori dalla committente generale Alisea e doveva a questa rispondere in ordine alla data di ultimazione delle opere; era chiaro che l’utilità economica del subappalto concluso con la ditta Ri. appariva legata al rispetto di tale scadenza, circostanza di cui Ri. fu messo al corrente”-, – siccome la Interedil, dopo la scadenza del termine, aveva più volte sollecitato il completamento dei lavori, in tal modo, inequivocabilmente, aveva manifestato un persistente interesse all’adempimento “con ciò di fatto rinunciando all’effetto risolutivo prodottosi a seguito dello spirare del suddetto termine essenziale”, la C.T.U. aveva permesso di accertare che gli infissi realizzati dal Ri. per i locali della mensa dell’Ospedale di (OMISSIS) presentavano gravi difetti (vi era “assoluta mancanza di sigillatura” fra gli infissi e gli alloggiamenti murari, sicchè rimaneva uno spazio di alcuni centimetri attraverso il quale filtrava l’acqua piovana; i “fuori squadra” rientravano nelle “normali tolleranze” ed ai problemi poteva ovviarsi con accorgimenti del tutto comuni “sigillature e coprifilo”, – doveva, pertanto, essere risolto il contratto di subappalto concluso dalle parti per l’installazione degli infissi presso l’Ospedale di (OMISSIS); – doveva essere accolta la domanda risarcitoria avanzata dalla opponente Interedil alla quale doveva essere riconosciuto, come da C.T.U., il complessivo importo di Lire 10.329.678 oltre rivalutazione monetaria ed interessi.

Avverso tale sentenza proponeva appello Ri.An., per diversi motivi, censurando le conclusioni cui era pervenuto il Giudice di primo grado. Eccepiva tra l’altro che per l’eliminazione dei vizi era occorso un esborso di Lire 10.329.678, per cui, considerando tale importo come il minor valore dell’opera, residuava, comunque, un credito per Lire 25.070.322 verso la Interedil, la quale aveva trattenuto gli infissi e le altre opere di carpenteria metallica percependo il corrispettivo dalla Committente Alisea S.p.A.. Il Ri. chiedeva che, previa sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza, venissero accolte le sue domande.

Si costituivano in giudizio la Interedil s.r.l. in liquidazione e R.S. nelle qualità attribuitagli nella citazione in appello, chiedendo il rigetto del gravame. Gli appellati contestavano, infatti, il fondamento di tutti i motivi di gravame, e rilevavano che R.S. era privo di legittimazione passiva in quanto il richiamo all’art. 2495 c.c., era del tutto “improprio”.

La Corte di Appello di Firenze, con sentenza non definitiva n. 240/13 in data 30/01 – 12/02/2013, dichiarava inammissibile la domanda proposta da Ri.An. nei confronti di R.S. nella qualità di liquidatore della Interedil s.r.l.; 2) dichiarava che con la cancellazione dal Registro delle imprese la Interedil aveva perso personalità giuridica; compensava le spese fra l’appellante e R.S., quale ex liquidatore della Interedil. Con separata ordinanza veniva disposta la integrazione del contraddittorio nei confronti di G.M., altro socio della Interedil. Ciò in quanto dal bilancio finale di liquidazione di tale società era emerso che il G. era titolare del 66% delle quote ed il R. del 34%, ed in quanto si discuteva in causa anche delle somme al pagamento delle quali il Ri. era stato condannato al pagamento in favore della società poi estinta. Alla integrazione del contraddittorio nei confronti del G. provvedeva Ri.An., con atto notificato in data 05/04/2013.

Il G. rimaneva contumace.

Successivamente, la Corte di Appello di Firenze, con sentenza n. 775 del 2014 accoglieva l’appello e in riforma della sentenza impugnata escludeva la risoluzione del contratto di appalto e ogni condanna del Ri. al pagamento di somme, revocava il decreto ingiuntivo e condannava R.S. e G.M. al pagamento a favore di Ri. della somma di Euro 6.045,21 oltre interessi. Compensava in ragione di un terzo le spese del giudizio di secondo grado e poneva a carico degli appellati la restante parte. Secondo la Corte distrettuale ingiustificata era la pronunciata risoluzione del contratto di appalto considerato che il Tribunale aveva da un verso riconosciuto che i vizi avrebbero potuto essere eliminati e per altro ha ritenuto grave l’inadempimento del Ri.. Piuttosto, la sussistenza dei vizi avrebbe dovuto comportare una riduzione del prezzo concordato quale corrispettivo dell’appalto riducendolo di quella somma necessaria alla eliminazione dei vizi.

La cassazione di questa sentenza è stata chiesta da R.S. con ricorso affidato a cinque motivi, anche se il motivo secondo e terzo è stato inserito in una stessa rubrica. Ri.An. ha resistito con controricorso. G.M. in questa fase è rimasto intimato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo R.S. lamenta violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione all’art. 1453 c.c. e art. 1668 c.c., comma 2, nonchè art. 1218 c.c., e art. 1176 c.c., comma 2. Avrebbe errato la Corte distrettuale secondo il ricorrente nella parte in cui ha escluso la gravità dell’inadempimento che, invece, il Tribunale aveva posto a fondamento della risoluzione del contratto, perchè non avrebbe considerato che l’inadempimento imputabile a Ri. era non solo grave, in punto di valutazione tecnica, ma di tale difformità che sarebbe traducibile più ad un mancato o ineseguito adempimento che quella di inesatto adempimento.

1.1.- Il motivo è infondato.

Giova richiamare il costante orientamento di questa Corte per il quale la valutazione che il giudice è chiamato a compiere in merito alla gravità dell’inadempimento è incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivata, ove abbia effettuato una comparazione in merito al comportamento complessivo delle parti, al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi ed all’oggettiva entità degli inadempimenti (tenuto conto non solo dell’elemento cronologico, ma anche e soprattutto degli apporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e della incidenza di queste sulla funzione economico-sociale del contratto), si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte e della conseguente alterazione del sinallagma contrattuale (cfr. Cass. n. 13840/2010). In tal senso anche di recente si è ribadita la insindacabilità del giudizio espresso al riguardo dal giudice di merito, laddove supportato da adeguata e congrua motivazione (cfr. Cass. n. 18320/2015), specificandosi che il giudice, per valutare la gravità, deve tener conto di un criterio oggettivo, avuto riguardo all’interesse del creditore all’adempimento della prestazione attraverso la verifica che l’inadempimento abbia inciso in misura apprezzabile nell’economia complessiva del rapporto (in astratto, per la sua entità, e, in concreto, in relazione al pregiudizio effettivamente causato all’altro contraente), sì da dar luogo ad uno squilibrio sensibile del sinallagma contrattuale, nonchè di eventuali elementi di carattere soggettivo, consistenti nel comportamento di entrambe le parti (come un atteggiamento incolpevole o una tempestiva riparazione, ad opera dell’una, un reciproco inadempimento o una protratta tolleranza dell’altra), che possano, in relazione alla particolarità del caso, attenuarne l’intensità (così Cass. n. 22346/2014).

Orbene, attenendosi a tali principi, deve escludersi che la valutazione compiuta dalla Corte di merito si connoti come illogica ovvero priva di razionalità. Piuttosto, la sentenza impugnata, ha ritenuto, sulla scorta di quanto accertato dallo stesso CTU, di dover attribuire efficacia esimente, pur in presenza di vizi dell’opera, alla circostanza che la spesa necessaria ad eliminare i vizi riscontrati e a rendere l’opera a regola d’arte, rispetto al prezzo pattuito, era tale da non giustificare un giudizio di gravità dell’inadempimento.

Trattasi, evidentemente, di accertamento in fatto, esclusivamente, riservato al giudice di merito, ed insindacabile in questa sede, e che in quanto adeguatamente supportato da una motivazione esente da mende logiche, denotano l’infondatezza del motivo proposto.

2.- Con il secondo motivo il ricorrente lamenta: a) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3);

b) con seguente nullità della sentenza o del procedimento in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Secondo il ricorrente la Corte distrettuale nel ritenere inesistenti i presupposti per la pronuncia di risoluzione del contratto di appalto non avrebbe correttamente valutato le risultanze della CTU.

2.1.- Il motivo è infondato sotto entrambi i problemi, pur tenendo conto che il secondo profilo e indicato quale conseguenza del primo.

Giova ricordare che il compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza – nonchè di individuare le fonti del proprio convincimento scegliendo tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti – spetta in via esclusiva al giudice del merito; di conseguenza la deduzione con il ricorso per Cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove, non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, restando escluso che le censure concernenti il difetto di motivazione possano risolversi nella richiesta alla Corte di legittimità di una interpretazione delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito.

Senza dire che, nel caso concreto, la Corte distrettuale, secondo il ricorrente, non avrebbe valutato correttamente la relazione del CTU non considerando che la CTU non è una prova ma un supporto contributivo per la valutazione di quanto è stato già assunto in corso di causa o per accertare fatti rilevabili solo attraverso specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche. Come ritenuto dalla costante giurisprudenza di legittimità, è nel potere discrezionale del giudice disattendere le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio, senza dover disporre un’ulteriore perizia, purchè disponga di elementi istruttori e di cognizioni proprie, integrati da presunzioni e da nozioni di comune esperienza sufficienti a dar conto della decisione adottata e addirittura “detta decisione può essere censurata in sede di legittimità solo ove la soluzione scelta non risulti sufficientemente motivata”.

Nel caso specifico, la Corte ha ampiamente chiarito le ragioni per le quali ha ritenuto che la sussistenza dei vizi dell’opera non era tale da giustificare un giudizio di gravità dell’inadempimento del Ri.. Come ha avito modo di chiarire la Corte distrettuale “(….) In effetti la sentenza oltre che immotivata in punto di risoluzione (manca qualsiasi argomentazione circa la gravità dell’inadempimento), è illogica in quanto il primo giudice, risolvendo il contratto ex art. 1668 c.c., comma 2, ha, da un lato, mostrato di ritenere l’opera “del tutto inadatta alla sua destinazione”, per poi, dall’altro lato, riconoscere alla committente Interedil, a titolo di risarcimento del danno, la somma di Lire 6.129.750 – IVA pari al costo occorrente per eliminare i vizi e completare le parti mancanti. Tuttavia, il fatto che con una simile spesa sia stato possibile rendere le opere a regola d’arte, considerato quello che era il prezzo pattuito (Lire 35.400.000), mostra chiaramente che l’opera non era del tutto inadatta alla sua destinazione. E’ contraddittorio affermare i presupposti per la risoluzione ed al contempo affermare che sono sufficienti interventi contenuti, per eliminare i vizi. Inoltre è sbagliato qualificare tale costo come voce di danno anzichè come minor valore dell’opera che determina il diritto del committente ad una riduzione del prezzo (come reso evidente dalli art. 1668 c.c., comma 1) (…)”.

3.- Il ricorrente lamenta ancora:

a) con il terzo motivo (contrassegnato come quarto) la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2495 e 2697 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Avrebbe errato la Corte distrettuale nel condannare R.S. in solido con G.M. la somma di Euro. 6.045, 21 senza che il Ri. (creditore) avesse dimostrato che R.S. avesse percepito alcuna somma dalla società estinta in ragione del bilancio finale della stessa società;

b) Con il quarto motivo (contrassegnato come quinto), la violazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Secondo il ricorrente, la Corte di Appello non solo avrebbe pronunciato la sentenza in assenza di prove dell’avvenuta riscossione ma altresì in dispregio delle risultanze probatorie relative alle percentuali di possesso delle quote societarie da parte degli ex soci della società Interdil srl.

3.1. – I motivi che per la loro innegabile connessione vanno esaminati congiuntamente sono infondati.

Giova premettere che la sorte dei debiti sociali della società estinta per cancellazione è prevista normativamente dall’art. 2495 c.c., il quale prevede che i creditori possono agire nei confronti dei soci della dissolta società di capitali e/o di persone sino alla concorrenza di quanto questi ultimi abbiano riscosso in base al bilancio finale di liquidazione. E’ prevista, inoltre, anche la possibilità di agire (da intendersi, però, per risarcimento dei danni) nei confronti del liquidatore, se il mancato pagamento del debito sociale è dipeso da colpa di costui. E, come è stato già detto da questa Corte (sent. 22 giugno 2017, n. 15474), è a carico dei creditori la prova che i soci abbiano percepito delle somme secondo il bilancio finale di liquidazione perchè, “E’ evidente che la percezione della quota dell’attivo sociale assurga ad elemento della fattispecie costitutiva del diritto azionato dal creditore nei confronti del socio: sicchè, in base alla regola generale posta dall’art. 2697 c.c., tale circostanza deve essere dimostrata da chi faccia valere il diritto in giudizio”.

Ora, nel caso specifico, la Corte distrettuale ha osservato correttamente questi principi e ha chiarito che i due soci ( R. e G.) erano condannati in solido a pagare la somma di Euro 6.045,21 pari a quella dai soci, riscossa sulla base del bilancio finale di liquidazione, come da copia di tale bilancio prodotta da Ri. stesso nel primo grado del giudizio. Pertanto, la sentenza impugnata non ha commesso alcun errore ed ha correttamente osservato la normativa di cui all’art. 2493 c.c., comma 2, avendo dato atto che secondo il bilancio finale di liquidazione della società Interdil i soci avrebbe percepito la somma pari a quella cui sono stati condannati a corrispondere al sig. Ri..

3.2. – Corretta è, altresì, la condanna in solido dei due soci senza la specificazione del quantum attribuito a ciascun socio perchè tanto riguarda il profilo interno della solidarietà. Come è stato già detto da questa Corte (Cass. n. 18406/2009) in materia di obbligazione solidale, ciascun debitore può agire in regresso nei confronti dell’altro a condizione che l’importo azionato non ecceda la parte di pertinenza del condebitore nei confronti del quale l’azione viene esercitata; ne consegue che, ove tale limite venga rispettato, l’azione di regresso può essere esercitata anche congiuntamente da più debitori che abbiano pagato l’intero debito, senza che il convenuto possa opporre che uno di costoro ha pagato meno di quanto dovuto, poichè la ripartizione della somma cumulativamente azionata attiene ai rapporti interni tra condebitori.

In definitiva, il ricorso va rigettato e il ricorrente in ragione del principio di soccombenza va condannato al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che vengono liquidate con il dispositivo Si dà atto che sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato a carico dei ricorrenti.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, dichiara assorbito il ricorso incidentale, condanna la ricorrente a rimborsare alla parte controricorrente principale le spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 2.500,00 di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% del compenso ed accessori, come per legge; dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile di questa Corte di Cassazione, il 14 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2019

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