Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27512 del 28/10/2019

Cassazione civile sez. II, 28/10/2019, (ud. 09/05/2019, dep. 28/10/2019), n.27512

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 22312 – 2015 R.G. proposto da:

P.S. – c.f. (OMISSIS) – M.G. – c.f. (OMISSIS) –

P.T. – c.f. (OMISSIS) – elettivamente domiciliati in Roma, al

viale Parioli, n. 79H, presso lo studio dell’avvocato Pio Corti che

disgiuntamente e congiuntamente all’avvocato Felice Brusatori li

rappresenta e difende in virtù di procura speciale a margine del

ricorso.

– ricorrenti –

contro

CONIT s.r.l. – p.i.v.a. (OMISSIS)/c.f. (OMISSIS) – in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

Roma, alla via Attilio Regolo, n. 12/D, presso lo studio

dell’avvocato Italo Castaldi che disgiuntamente e congiuntamente

all’avvocato Giuseppe Marelli la rappresenta e difende in virtù di

procura speciale in calce al controricorso.

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 2453 dei 13.5/25.6.2014 della corte d’appello

di Milano;

udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 9

maggio 2019 dal consigliere Dott. Luigi Abete;

udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore

generale Dott. Capasso Lucio, che ha concluso per il rigetto del

ricorso principale e del ricorso incidentale;

udito l’avvocato Italo Castaldi per la controricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto notificato in data 11.1.2007 la “Conit” s.r.l. – già dichiarata fallita dal tribunale di Milano (con sentenza dei 23/27.11.2000) ed il cui concordato fallimentare, omologato con sentenza (poi definitiva) n. 161/2005, contemplante il pagamento dei chirografari al 30%, era stato acclarato di completa esecuzione con decreto dell’11.1.2006 – citava a comparire dinanzi al tribunale di Busto Arsizio P.T. e P.G..

Esponeva che in virtù di atto pubblico e di successivo atto interpretativo, siglati con il Comune di Gallarate, rispettivamente, in data 28.12.1988 ed in data 30.12.1992, aveva acquisito il diritto di superficie con riferimento a n. (OMISSIS) “boxes – auto” ed a n. (OMISSIS) “posti – auto” all’interno dell’autosilos ubicato al (OMISSIS).

Esponeva che con atto del 31.3.1989 aveva promesso di cedere e vendere ai convenuti, che avevano a loro volta promesso di acquistare, il diritto d’uso, per ottant’anni dalla consegna e per il prezzo di Lire 22.000.000, oltre i.v.a., del “box – auto” collocato al 2 piano dell’autosilos, identificato come “(OMISSIS)”.

Esponeva che, nell’ambito di pregresso giudizio nei suoi confronti promosso dai – tra gli altri – convenuti, il tribunale di Busto Arsizio con sentenza n. 1088/1994 aveva respinto la domanda di Tomaso e P.G. diretta ad ottenere il trasferimento ex art. 2932 c.c. del diritto d’uso del “box – auto” “(OMISSIS)” ed, in grado d’appello, la corte di Milano con sentenza n. 2597/1998 – poi passata in giudicato – aveva rilevato la nullità dei preliminari tutti da essa s.r.l. siglati con riferimento ai “boxes – auto” ed ai “posti – auto” all’interno dell’autosilos al (OMISSIS).

Esponeva che i convenuti, in dipendenza della nullità del preliminare stipulato il 31.3.1989, occupavano senza titolo a far data dal 15.12.1990 il “box – auto” “(OMISSIS)” nè avevano provveduto a rimborsarle le spese di gestione.

Chiedeva condannarsi i convenuti all’immediato rilascio del “box – auto” “(OMISSIS)”, al pagamento della somma di Euro 5.397,09 ovvero della diversa somma ritenuta congrua quale rimborso delle spese di gestione, al pagamento della somma di Euro 13.230,00 ovvero della diversa somma ritenuta congrua quale indennità per l’occupazione senza titolo.

Si costituivano P.T., in proprio e quale erede di P.G., nonchè P.S. e M.G., quali eredi di P.G..

Instavano per il rigetto dell’avversa domanda. In via riconvenzionale, previo accertamento della validità ed efficacia del preliminare del 31.3.1989 ovvero previa sua conversione ex art. 1424 c.c., chiedevano pronunciarsi sentenza ex art. 2932 c.c. idonea a trasferir loro il diritto di superficie relativamente al “box – auto” “(OMISSIS)”; in via riconvenzionale subordinata chiedevano condannarsi la s.r.l. attrice a restituire loro la somma di Euro 20.141,82, pari al doppio della caparra versata.

Assunta la prova per testimoni, espletata c.t.u., con sentenza n. 203/2009 l’adito tribunale, in dipendenza della nullità del preliminare del 31.3.1989, quale acclarata con sentenza n. 2597/1998 dalla corte di Milano, condannava i convenuti alla restituzione del “box – auto” “(OMISSIS)” nonchè a corrispondere all’attrice la somma di Euro 14.946,92, oltre interessi, a titolo di indennità di occupazione; condannava la società attrice a corrispondere ai convenuti la somma di Euro 10.070,91, oltre interessi.

Proponeva appello la “Conit” s.r.l..

Resistevano P.T., P.S. e M.G.; esperivano appello incidentale.

Con sentenza n. 2453 dei 13.5/25.6.2014 la corte d’appello di Milano, in parziale riforma della gravata sentenza, condannava gli appellati a corrispondere all’appellante gli interessi legali sulla somma accordata a titolo di indennità di occupazione a far data dal di della domanda introduttiva del giudizio, condannava altresì gli appellati a rimborsare all’appellante le spese del grado.

Evidenziava la corte, in ordine al motivo dell’appello incidentale con cui a censura del primo dictum era stata invocata la conversione ex art. 1424 c.c. del contratto preliminare del 31.3.1989, di cui la corte di Milano con sentenza n. 2597/1998 – passata in giudicato – aveva rilevato la nullità, che nella specie non era stato acquisito alcun elemento alla cui stregua sarebbe stato possibile affermare che la “Conit” avrebbe voluto il diverso contratto, se avesse conosciuto la causa di nullità.

Evidenziava la corte, in ordine alla contestazione concernente la condanna alla restituzione del “box – auto”, che, quantunque nel giudizio definito con la sentenza n. 2597/1998 della corte d’appello di Milano non fosse stata formulata una domanda volta all’accertamento della nullità, sicchè in quel giudizio all’accertamento della nullità si era addivenuti incidenter tantum (cfr. sentenza d’appello, pag. 4), nondimeno la condanna alla restituzione del “box – auto” “(OMISSIS)” pronunciata dal primo giudice non si poneva in contrasto con la portata del giudicato formatosi a seguito della pronuncia n. 2597/1998 della corte di Milano.

Evidenziava ulteriormente la corte che gli interessi dovuti sulle somme spettanti quale indennità per l’occupazione senza titolo competevano alla “Conit” come da sua richiesta, ovvero dalle singole scadenze.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso P.T., P.S. e M.G.; ne hanno chiesto sulla scorta di quattro motivi la cassazione con ogni conseguente statuizione in ordine alle spese.

La “Conit” ha depositato controricorso contenente ricorso incidentale articolato in un unico motivo; ha chiesto dichiararsi improcedibile, inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso ed, in accoglimento dell’esperito ricorso incidentale, ha chiesto cassarsi la sentenza n. 2453/2014 della corte d’appello di Milano con ogni susseguente statuizione anche in ordine alle spese.

La controricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti principali denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1421 e 2909 c.c. nonchè degli artt. 112,183,324 e 329 c.p.c., l’omesso esame di fatto decisivo, l’omessa, erronea e/o contraddittoria motivazione, il travisamento dei fatti.

Deducono che la corte d’appello e prima ancora il tribunale di Busto Arsizio hanno ritenuto, con riferimento al preliminare del 31.3.1989, sussistente ed operativa una nullità giammai dichiarata da alcuna pronuncia passata in giudicato, oggetto al più di accertamento incidentale con effetti circoscritti al procedimento definito dalla corte d’appello di Milano con sentenza n. 2597/1998, addotta e prospettata dalla “Conit” con tardiva memoria ex art. 183 c.p.c..

Deducono che la corte d’appello non ha valutato l’eccepita carenza di legittimazione attiva della “Conit”, nè ha vagliato la documentazione allegata e rilevante a tal proposito, siccome idonea ad individuare nella “Car Service s.a.s. di R.A. & C.” la titolare dei rapporti aventi ad oggetto i “boxes – auto” ed i “posti – auto” sia nei confronti del Comune di Gallarate sia nei confronti dei promissari acquirenti.

Deducono che la corte d’appello avrebbe dovuto viceversa, con riferimento alla domanda di rilascio esperita dalla “Conit”, rilevare quale unica preclusione da giudicato quella scaturente dal rigetto della domanda di risoluzione del preliminare esperita dalla medesima “Conit”.

Deducono che la corte d’appello avrebbe dovuto d’altro canto, in dipendenza della nullità del preliminare in data 31.3.1989, dichiarare la nullità dell’atto pubblico in data 28.12.1988 e dell’atto interpretativo in data 30.12.1992 siglati dalla “Conit” con il Comune di Gallarate.

Con il secondo motivo i ricorrenti principali denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la violazione degli artt. 1224, 2033, 2037, 2038 e 2697 nonchè degli artt. 112,116 e 346 c.p.c., l’omessa, l’illogica e la contraddittoria motivazione, la carenza di prova.

Deducono che la corte distrettuale, allorchè ha pronunciato condanna alla restituzione del “box – auto” ed alla corresponsione dell’indennità di occupazione, ha erroneamente valutato gli esiti delle prove orali e documentali, facendo “un cattivo uso del suo prudente apprezzamento sulla valutazione delle prove” (così ricorso principale, pag. 64).

Deducono al contempo che la corte distrettuale ha avallato “l’errato criterio adottato dal c.t.u. ai fini del calcolo della pretesa indennità” (così ricorso principale, pag. 65).

Deducono in particolare che la corte distrettuale ha fatto proprio l’ingiustificato ricorso – da parte del c.t.u. – ai valori di locazione del “box – auto”, ancorchè le parti avessero concordato il prezzo della fruizione del “box – auto” per la durata di ottant’anni in misura pari a lire 19.500.000 (cfr. ricorso principale, pag. 74).

Con il terzo motivo i ricorrenti principali denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione, falsa ed errata applicazione degli artt. 1422,1424 e 2932 c.c. nonchè dell’art. 112 c.p.c., l’omessa, l’illogica e la contraddittoria motivazione, il travisamento dei fatti.

Deducono che ha errato la corte territoriale a non dar seguito all’invocata – in via subordinata – conversione, sub specie di preliminare di trasferimento del diritto di superficie, del preliminare siglato in data 31.3.1989.

Deducono segnatamente che della sollecitata conversione ne sussistono i presupposti, tanto più che la reale e concreta volontà delle parti, quale manifestatasi mercè la stipula del preliminare del 31.3.1989, “conduce inevitabilmente ad affermare che il diritto che ne aveva costituito l’oggetto e che queste ultime hanno inteso trasferire è esattamente un diritto di superficie, (…) solo erroneamente qualificato diritto d’uso” (così ricorso principale, pag. 82), “il tutto coerentemente anche con gli impegni assunti dalla Conit s.r.t. col Comune di Gallarate (…) a seguito dell’atto interpretativo del 30/12/92” (così ricorso principale, pagg. 83 – 84).

Con il quarto motivo i ricorrenti principali denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., l’omessa ed erronea motivazione.

Deducono che la corte di Milano ha sostanzialmente respinto i motivi di gravame esperiti dalla “Conit”; che in dipendenza della reciproca soccombenza la corte avrebbe dovuto integralmente compensare le spese di lite.

Con l’unico motivo la ricorrente incidentale denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione ed errata applicazione degli artt. 1219,1224 e 2033 c.c., la contraddittorietà e carenza di motivazione.

Deduce che la corte milanese ha disatteso il motivo d’appello relativo al di decorrenza degli interessi sulle somme da essa ricorrente incidentale, in veste di promittente venditrice, dovute, a seguito ed in dipendenza della nullità del preliminare del 31.3.1989, in restituzione alle controparti, in veste di promissari acquirenti, e da costoro versate a titolo di caparra.

Deduce segnatamente che gli interessi sono dovuti alle controparti a decorrere non già dal di del versamento delle somme, sibbene dal dì – 24.4.2007 – della domanda riconvenzionale proposta in primo grado dalle medesime controparti, primo formale atto di messa in mora.

Deducono invero che sul terreno dell’indebito oggettivo l’accipiens di buona fede – buona fede oggetto di presunzione relativa – è tenuto al pagamento degli interessi dal giorno della domanda.

Il primo motivo del ricorso principale va respinto.

E’ fuor di dubbio che la corte d’appello di Milano con la sentenza n. 2597/1998, passata in giudicato, assunta nel giudizio intrapreso in prime cure innanzi al tribunale di Busto Arsizio (n. 656/1992 r.g.), tra gli altri, da P.T. e P.G. nei confronti della “Conit”, ebbe a rilevare la nullità del preliminare tra le medesime parti intercorso in data 31.3.1989 (cfr. sentenza d’appello in questa sede impugnata, pag. 7).

Su tale scorta risultano ineccepibili le puntualizzazioni della corte di merito (di cui alla sentenza qui impugnata), secondo cui “l’ordine di restituzione non si ravvisa in contrasto con il giudicato formatosi sulle questioni decise con la sentenza C.A. Milano n. 2597/98” (così sentenza d’appello in questa sede impugnata, pag. 5) e secondo cui “gli appellanti incidentali non potevano e non possono vantare un diritto alla detenzione ulteriore del box essendo stata comunque disconosciuta la possibilità di far valere il contratto preliminare (…) ancorchè sul fondamento di una nullità rilevata incidentalmente” (così sentenza d’appello, pag. 5).

Ineccepibili – si badi – alla luce dell’insegnamento di questa Corte di legittimità, espresso in relazione ad una fattispecie del tutto simile, a tenor del quale la rilevazione d’ufficio delle nullità negoziali – sotto qualsiasi profilo, anche diverso da quello allegato dalla parte – è sempre obbligatoria, purchè la pretesa azionata non venga rigettata in base ad una individuata “ragione più liquida”, e va intesa come indicazione alle parti di tale vizio; ed a tenor del quale la loro dichiarazione, invece, ove sia mancata un’espressa domanda della parte all’esito della suddetta indicazione officiosa, costituisce statuizione facoltativa del medesimo vizio, previo suo accertamento, nella motivazione e/o nel dispositivo della pronuncia con efficacia di giudicato in assenza di sua impugnazione (cfr. Cass. 5.2.2019, n. 3308; nell’ipotesi di cui a tal ultima pronuncia questa Corte ha ritenuto che la sentenza, emessa in altro giudizio e passata in giudicato, con la quale era stata incidentalmente dichiarata la nullità del contratto preliminare di vendita del diritto d’uso di un box auto, spiegasse i suoi effetti anche nel successivo giudizio instaurato dalla promittente alienante nei confronti dei promissari acquirenti per il rilascio del bene e per il pagamento delle spese di gestione e dell’indennità di occupazione).

Evidentemente alla luce dell’insegnamento n. 3308/2019 di questo Giudice del diritto non ha rilievo alcuno la deduzione dei principali ricorrenti secondo cui la preclusione da giudicato “esterno” sarebbe stata dalla “Conit” dedotta tardivamente con la memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, depositata il 24.5.2007 (cfr. ricorso principale, pag. 33).

Con riferimento all’asserita omessa statuizione in ordine alla prefigurata carenza di legittimazione attiva della “Conit” (cfr. punto 8) del ricorso principale, pagg. 39 – 42), si osserva quanto segue.

Da un canto, in rapporto alla condicio actionis di cui all’art. 81 c.p.c., la denuncia di omessa pronuncia non ha ragion d’essere.

Invero il vizio di omessa pronuncia è configurabile solo nel caso di mancato esame, da parte della sentenza impugnata, di questioni di merito e non già nel caso di mancato esame di eccezioni pregiudiziali di rito (cfr. Cass. 23.1.2009, n. 1701; Cass. 26.9.2013, n. 22083, secondo cui il vizio di omissione di pronuncia non è configurabile su questioni processuali; cfr. Cass. 25.1.2018, n. 1876).

D’altro canto, correlata la legittimazione de qua agitur al riscontro della titolarità in capo alla “Conit” del diritto sostanziale ad ottenere, tra l’altro, il rilascio del “box – auto” “(OMISSIS)”, la prospettazione di una quaestio siffatta similmente non si giustifica in alcun modo.

Invero con la comparsa di risposta in data 24.4.2007, con la quale ebbero – in prime cure – a costituirsi nel presente giudizio (cfr. ricorso, pagg. 10 – 12), P.T., M.G. e P.S. in via riconvenzionale ebbero a chiedere in danno della “Conit”, promittente venditrice giusta l’atto del 31.3.1989, la pronuncia di sentenza ex art. 2932 c.c. idonea a trasferir loro il diritto di superficie del “box – auto” “(OMISSIS)” (cfr. ricorso, pagg. 10 – 12), in tal guisa assumendo che controparte era senz’altro titolare del diritto di cui avevano sollecitato il coattivo trasferimento.

Con riferimento all’asserita preclusione da giudicato “esterno” scaturente dal rigetto della domanda di risoluzione del preliminare del 31.3.1989 che la “Conit” ebbe ad esperire nel giudizio definito dalla corte di Milano con la sentenza – passata in giudicato – n. 2597/1998 (cfr. punto C) del ricorso principale, pagg. 43 – 51), si osserva che sostanzialmente in quel giudizio la domanda di risoluzione ebbe a rimaner assorbita nel rilievo di nullità dei contratti preliminari.

Con riferimento ai rilievi dei principali ricorrenti di cui al punto D) del ricorso (principale) (cfr. pagg. 51 – 53), la declaratoria di nullità dell’atto pubblico in data 28.12.1988 e dell’atto interpretativo in data 30.12.1992, in (asserita) dipendenza della nullità del preliminare del 31.3.1989, avrebbe postulato, quanto meno, la presenza in giudizio del Comune di Gallarate.

Per altro verso si è anticipato che il concordato fallimentare della “Conit”, omologato con sentenza (poi definitiva) n. 161/2005, è stato acclarato di completa esecuzione con decreto dell’11.1.2006.

Cosicchè, nel solco della previsione dell’art. 120 L. Fall. (per i fallimenti dichiarati antecedentemente all’entrata in vigore della “riforma” – è il caso del fallimento della “Conit”, dichiarato dal tribunale di Milano nell’anno 2000 – il passaggio in giudicato della sentenza di omologazione del concordato segnava la chiusura della procedura fallimentare: art. 131, u.c., l.fall.), non si giustifica l’assunto dei ricorrenti principali secondo cui la “Conit” “avrebbe perso ogni diritto” (così ricorso principale, pag. 52).

Il secondo motivo del ricorso principale del pari va respinto.

Con il secondo mezzo di impugnazione P.T., P.S. e M.G. censurano innanzitutto il giudizio “di fatto” cui la corte distrettuale ha provveduto “sia in tema di restituzione del box, sia in tema di pagamento dell’indennità di occupazione” (così ricorso principale, pag. 54).

In tal guisa, in parte qua agitur, il motivo in esame si qualifica in relazione alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Del resto è propriamente il motivo di ricorso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 che concerne l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia (cfr. Cass. sez. un. 25.11.2008, n. 28054).

Ebbene, alla luce dell’insegnamento n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite di questa Corte, l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte territoriale risulta – anche in parte qua – in toto ineccepibile ed assolutamente congruo e esaustivo.

Da un lato è da escludere recisamente che taluna delle figure di “anomalia motivazionale” rilevanti alla stregua della summenzionata pronuncia delle sezioni unite – tra le quali non è annoverabile il semplice difetto di sufficienza della motivazione – possa scorgersi nelle motivazioni cui la corte di seconde cure ha – in parte qua – ancorato la sua decisione.

Dall’altro è da ritenere che la corte di seconde cure ha di certo disaminato il fatto storico dalle parti discusso, a carattere decisivo, connotante – in parte qua – la res litigiosa.

Si tenga conto che i principali ricorrenti censurano l’asserita distorta ed erronea valutazione delle risultanze di causa (“mai la Conit s.r.l. ha consegnato il bene nè mai ha (…) redatto e/o prodotto in causa alcun verbale di consegna sottoscritto da P.G. e da P.T.”: così ricorso principale, pag. 56; “i testimoni escussi erano e sono del tutto falsi ed inattendibili ed intrinsecamente inveritieri (…)”: così ricorso principale, pag. 58; “tutta la documentazione e le pretese lettere allegate alla memoria 2.7.07 di controparte (…) nulla rilevano nè affermano sul punto”: così ricorso principale, pagg. 60 – 61).

E tuttavia il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all'”anomalia motivazionale” che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892; Cass. (ord.) 26.9.2018, n. 23153).

In questi termini a nulla vale che i ricorrenti principali adducano che “hanno da sempre e sin dall’origine (…) contestato e respinto le avverse domande” (così ricorso principale, pag. 56).

Si tenga conto inoltre che, in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 116 c.p.c. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4 solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892).

Si tenga conto ancora che nel vigore del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è più configurabile il vizio di contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del medesimo art. 360 c.p.c., n. 4 (cfr. Cass. (ord.) 6.7.2015, n. 13928).

Con il secondo mezzo di impugnazione P.T., P.S. e M.G. adducono altresì che la nullità del contratto preliminare “non rende per ciò stesso illecita e illegittima la detenzione “ab origine” del bene da parte di chi l’ha ricevuto” (così ricorso principale, pag. 70) e, quali accipientes di buona fede, sarebbero stati obbligati unicamente alla restituzione del “box – auto” “(OMISSIS)”.

Ebbene al riguardo si puntualizza quanto segue.

In primo luogo il promissario acquirente di un fondo agricolo, che ne abbia conseguito la disponibilità a titolo di anticipata esecuzione di un contratto preliminare poi dichiarato nullo, in quanto detentore della cosa, è tenuto a restituire non solo il bene indebitamente goduto, ma anche le utilità “ab initio” ricavate dallo stesso (cfr. Cass. (ord.) 10.10.2013, n. 23035, ove si soggiunge che non rileva, al riguardo, la disposizione di cui all’art. 1148 c.c., la quale limita temporalmente l’obbligo restitutorio dei frutti per il possessore in buona fede con decorrenza dal giorno della domanda giudiziale; cfr. anche Cass. 22.3.2011, 6489).

In secondo luogo nel caso di occupazione illegittima di un immobile il danno subito dal proprietario è “in re ipsa”, discendendo dalla perdita della disponibilità del bene, la cui natura è normalmente fruttifera, e dalla impossibilità di conseguire l’utilità da esso ricavabile (cfr. Cass. (ord.) 6.8.2018, n. 20545).

In questo quadro per nulla si giustificano le prospettazioni dei principali ricorrenti.

Ovvero l’assunto secondo cui l’impugnato dictum è illegittimo nella parte in cui ha posto a loro carico l'”obbligo non solo di restituire il bene medesimo ma anche di pagare l’indennità di occupazione” (così ricorso principale, pag. 71) e secondo cui su di loro mai “dovrebbe gravare (…) un’obbligazione risarcitoria da comportamento illecito” (così ricorso principale, pag. 72).

Ovvero l’assunto secondo cui l’indennità di occupazione doveva essere riconosciuta non già a decorrere dalla data indicata nell’atto di citazione, coincidente con l’epoca di stipulazione del contratto preliminare, ma “soltanto a decorrere dalla richiesta fattane dalla Conit s.r.l. e dalla data successiva al deposito della sentenza (n. 2597/1998) della Corte d’Appello di Milano (28.9.98)” (così ricorso principale, pag. 77).

Si badi, a tal ultimo riguardo, che l’accertamento della nullità del contratto opera, ovviamente, sin dalla sua stipulazione, sicchè sin dal di della stipulazione (31.3.1989), in linea di principio, il danno (aquiliano) cagionato dalle promissarie acquirenti con titolo nullo era da risarcire.

Con il secondo mezzo di impugnazione P.T., P.S. e M.G. adducono inoltre che la corte di Milano ha accordato alla “Conit” un importo superiore a quello domandato (cfr. ricorso principale, pag. 74).

La riferita censura non merita seguito.

Con l’iniziale citazione del 13.12.2006 la “Conit” aveva domandato la condanna di P.T. e di P.G. al pagamento dell’indennità di occupazione altresì nella misura che sarebbe risultata congrua (cfr. ricorso principale, pag. 9); in pari tempo la quantificazione dell’indennità nell’importo di Euro 13.230,00 era riferita all’occupazione protrattasi fino al 30.9.2006 (cfr. ricorso principale, pag. 7).

Non sussiste quindi vizio di ultrapetizione (cfr. Cass. sez. lav. (ord.) 10.8.2018, n. 20707).

Con il secondo mezzo di impugnazione P.T., P.S. e M.G. adducono ancora che erroneo è il riferimento operato dal c.t.u. e recepito dalla corte di Milano “ai valori di locazione del bene” (così ricorso principale, pag. 75) ai fini del computo dell’indennità di occupazione sine titulo.

Innegabilmente l’ausiliario ha utilizzato il canone di locazione, all’uopo determinato, quale mero parametro per la quantificazione dell’indennità di occupazione, recte per la quantificazione del risarcimento del danno.

Cosicchè siffatta ragione di doglianza analogamente si risolve nella censura del giudizio “di fatto” cui ha atteso, in parte qua, la corte di Milano.

E nondimeno nel solco della pronuncia n. 8053/2014 delle sezioni unite di questa Corte – dapprima menzionata – la valutazione della corte lombarda è in toto ineccepibile e congrua.

Così come del tutto ineccepibile e congrua è da reputare, ai fini del computo del canone di locazione e dunque dell’indennità di occupazione sine titulo, la circostanza che il c.t.u. abbia calcolato anche l'”aggiornamento istat”.

A nulla vale perciò addurre, limitatamente all’aggiornamento istat, che “una tal domanda non era mai stata formulata dalla Conit s.r.l.” (così ricorso principale, pag. 77).

Il terzo motivo del ricorso principale va rigettato.

Si premette che la corte d’appello, in sede di disamina della domanda di conversione ex art. 1424 c.c., ha puntualizzato altresì che gli appellanti incidentali – iniziali convenuti – avevano addotto che nel 1997 alla “Conit” era subentrata, quale titolare dei rapporti aventi ad oggetto i “boxes – auto” ed i “posti – auto”, la “Car Service” s.a.s., sicchè l’esecuzione specifica del preliminare nei confronti della “Conit”, parte del giudizio, risultava senz’altro preclusa (cfr. sentenza d’appello in questa sede impugnata, pag. 4).

Ebbene siffatto passaggio motivazionale – integrante un’autonoma ratio decidendi – non è oggetto, col mezzo di impugnazione in disamina, di puntuale censura.

Invero i ricorrenti principali hanno genericamente addotto che i “requisiti oggettivi e soggettivi (…) (di) diverso contratto (…) nella vicenda de qua appaiono essere tutti sussistenti” (così ricorso principale, pag. 80).

D’altra parte, in tema di conversione del contratto nullo, l’accertamento dell’ipotetica volontà dei contraenti, implicando un’indagine di fatto riservata al giudice di merito, non può essere compiuto in sede di legittimità (cfr. Cass. 30.4.2012, n. 6633; Cass. 6.7.2018, n. 17905).

Cosicchè a nulla vale che i ricorrenti principali adducano che “la lettura del (…) preliminare del 31/3/89 e la ricostruzione della reale e concreta volontà delle parti in essa formalizzata conduce inevitabilmente ad affermare (…)” (così ricorso principale, pag. 82).

Il quarto motivo del ricorso principale del pari va rigettato.

Si è al cospetto, all’esito dei gradi merito, siccome riconoscono gli stessi ricorrenti principali, di una ipotesi di soccombenza reciproca (reciproca soccombenza va ravvisata sia in ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in ipotesi di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, tanto allorchè quest’ultima sia stata articolata in più capi, dei quali siano stati accolti solo alcuni, quanto nel caso in cui sia stata articolata in un unico capo e la parzialità abbia riguardato la misura meramente quantitativa del suo accoglimento: cfr. Cass. 22.2.2016, n. 3438).

Su tale scorta si rappresenta che, in tema di spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse, mentre qualora ricorra la soccombenza reciproca, è rimesso all’apprezzamento del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità, decidere quale delle parti debba essere condannata e se ed in qual misura debba farsi luogo a compensazione (cfr. Cass. 3.3.1994, n. 2124).

Si rappresenta segnatamente che la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente (cfr. Cass. 31.1.2014, n. 2149).

A nulla vale perciò addurre che la complessiva prevalente soccombenza di P.T., P.S. e M.G., ritenuta dalla corte territoriale, “è affermazione fattuale certamente errata e costituisce un evidente travisamento dei fatti” (così ricorso principale, pag. 86).

La reiezione dei motivi tutti esperiti con il ricorso principale assorbe e rende vana la disamina dell’eccezione pregiudiziale di inammissibilità del ricorso principale, siccome – si assume dalla controricorrente – tardivamente proposto (così controricorso, pag. 11).

L’unico motivo del ricorso incidentale è inammissibile.

Invero siffatto mezzo di impugnazione non è, a rigore, nè debitamente specifico nè “autosufficiente”.

Per un verso la “Conit” si è limitata ad addurre, del tutto genericamente, che aveva spiegato motivo d’appello, avverso il primo dictum, “relativo alla decorrenza degli interessi sulle somme dovute in restituzione ai ricorrenti” (così ricorso incidentale, pag. 21).

Per altro verso la “Conit” non ha provveduto a riprodurre nel corpo del motivo di ricorso il motivo di appello, onde consentire a questo Giudice di legittimità il compiuto riscontro dell’an e del quomodo della censura spiegata avverso il primo dictum (con il quale la “Conit” era stata condannata “al pagamento dell’importo di Euro 10.070,91 (oltre interessi legali dalla data del versamento) in favore dei promissari acquirenti”: così sentenza d’appello impugnata in questa sede, pag. 3).

Ovviamente rileva l’insegnamento di questa Corte a tenor del quale, ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, è necessario che il ricorrente indichi in modo “autosufficiente” – e cioè con specificazione che consenta, attraverso lo stesso ricorso, la chiara e completa cognizione dei fatti e delle argomentazioni – gli elementi trascurati dalla sentenza impugnata, nella loro materiale consistenza, nella loro pregressa deduzione in sede di merito e nella loro processuale rilevanza, intesa quale potenzialità probatoria che consenta di giungere ad una diversa decisione (cfr. Cass. sez. lav. 11.6.2004, n. 11133; cfr. altresì Cass. 20.1.2006, n. 1113, secondo cui il ricorso per cassazione – in forza del principio di cosiddetta “autosufficienza” – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito).

Si segnala in pari tempo che a nulla rileva che nelle conclusioni delle parti – che il dictum in questa sede impugnato debitamente riproduce – si dia atto che “Conit” aveva domandato, in riforma della prima statuizione, la sua condanna alla minor somma – falcidiata ex art. 135 L. Fall. – di Euro 3.021,27, “oltre gli interessi legali dalla domanda al saldo effettivo”.

Invero i requisiti di contenuto – forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di “autosufficienza” (cfr. Cass. 13.11.2018, n. 29093).

Nonostante la declaratoria di inammissibilità del ricorso incidentale non si giustifica, nè totalmente nè parzialmente, la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Invero nell'”economia” del presente giudizio la reiezione del ricorso principale ha valenza del tutto preponderante, recte esclusiva.

P.T., P.S. e M.G. vanno pertanto condannati in solido a rimborsare alla “Conit” s.r.l. le spese del presente giudizio di legittimità. La liquidazione segue come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti principali e da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis, D.P.R. cit..

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; condanna in solido i ricorrenti principali, P.T., P.S. e M.G., a rimborsare alla controricorrente, “Conit” s.r.l., le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e cassa come per legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento sia da parte dei ricorrenti principali sia da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis, cit..

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della II sez. civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 9 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2019

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