Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27508 del 28/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 28/10/2019, (ud. 18/09/2019, dep. 28/10/2019), n.27508

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26754-2016 proposto da:

S.M., D.A., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA IV NOVEMBRE 96, presso lo studio dell’avvocato MARCO DA VILLA,

che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati PAOLO ESINI,

CARLO EMILIO ESINI, MASSIMO SERRA;

– ricorrente –

contro

BANCA GENERALI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO GRAMSCI 14,

presso lo studio dell’avvocato FEDERICO HERNANDEZ, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUCA VECCHIONI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 454/2016 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 13/05/2016 r.g.n. 1115/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/09/2019 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO CARMELO, che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso;

udito l’Avvocato FILIPPO HERNANDEZ per delega Avvocato FEDERICO

HERNANDEZ.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza in data 13 maggio 2016, la Corte d’appello di Bologna rigettava l’appello proposto da D.A. e S.M., promotori finanziari di Banca Generali s.p.a., avverso la sentenza di primo grado, che ne aveva rigettato le domande (proposte con distinti ricorsi riuniti) di condanna della società preponente al pagamento delle rispettive somme di Euro 160.812,93 e di Euro 230.053,02, entrambe a titolo di rateo FIRR, provvigioni maturate e non pagate, indennità di mancato preavviso e di fine rapporto ai sensi dell’art. 1751 c.c..

A motivo della decisione, la Corte territoriale escludeva, come già il Tribunale, la sussistenza di una giusta causa di recesso dei promotori, per inesistenza di un abuso ispettivo nei loro confronti nell’accesso negli uffici nel marzo 2010 o nella successiva relazione degli ispettori inviati dalla banca, nè dell’insensatezza della sua lettera di richiamo disciplinare del 17 giugno 2010, a seguito della non consentita applicazione estensiva della Convenzione 30 luglio 1999 tra l’allora Ambro Italia SIM (poi confluita in Banca Generali) e Cassa di Risparmio di Parma, nè delle altre ragioni allegate dai predetti a fondamento della rivendicata intollerabiità di prosecuzione del rapporto. Sicchè, essa negava loro la spettanza, in uno con il concorrente difetto dei presupposti stabiliti dall’art. 1751 c.c., delle indennità di cessazione del rapporto e di mancato preavviso.

La Corte felsinea ravvisava poi la compensazione, in senso atecnico per la comune derivazione causale delle rispettive partite di dare e avere dal medesimo rapporto di agenzia (e pertanto rilevabile d’ufficio, senza necessità di eccezione di parte, nè tanto meno di domanda riconvenzionale), del maggior credito della preponente per indennità di preavviso con quello dei promotori, a titolo di ratei FIRR e di provvigioni, pertanto non dovuti.

Con atto notificato il 14 novembre 2016, D.A. e S.M. ricorrevano per cassazione avverso tale sentenza con tre motivi, cui Banca Generali s.p.a. resisteva con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c. ed omesso esame di fatti decisivi per la controversia, per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto l’ignoranza, da parte della preponente, della prassi pluriennale di applicazione estensiva della Convenzione 30 luglio 1999 con la Cassa di Risparmio di Parma (per la segnalazione ad essa dai promotori di clienti non soltanto privati, ma anche di aziende), di cui invece da anni essa era ben a conoscenza e tollerava, nonchè di illiceità della loro condotta, evidentemente travisata, senza una congrua valutazione dei documenti prodotti (mails, reports, corrispondenza), nè della lettera di richiamo disciplinare del 17 giugno 2010.

2. Con il secondo, essi deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., per insussistenza, erroneamente ritenuta, di una giusta causa di recesso dei promotori nonostante il comportamento tenuto dalla banca nei loro confronti, in violazione degli obblighi di lealtà e buona fede, tale quanto meno da “suscitare dubbi e perplessità”.

3. Con il terzo, i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 1751 e 2697 c.c. ed omesso esame di fatti decisivi per la controversia, per l’erronea esclusione della prova, attese le circostanze documentali offerte (in particolare: portafoglio dei due promotori, ricavato dalle stesse banche dati della preponente, fatture e certificazioni) ma non adeguatamente considerate, dei requisiti di spettanza dell’indennità di fine rapporto, consistenti: nel sensibile sviluppo degli affari comportato alla preponente dai clienti procurati dai due promotori; nella permanenza dei relativi vantaggi; nella necessità di collegamento dell’indennità ad una giusta causa, anzichè ad un giustificato recesso.

4. Il primo motivo, relativo a vizi riguardanti l’erronea assunzione di ignoranza dalla preponente della prassi pluriennale di applicazione estensiva della Convenzione 30 luglio 1999 con la Cassa di Risparmio di Parma a base del recesso dei due promotori dal rapporto di agenzia, è inammissibile.

4.1. La censura di error in iudicando, soltanto formalmente rubricata, non si configura per la palese insussistenza delle violazioni di legge denunciate, da dedurre, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche di specifiche argomentazioni, motivatamente intese a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (Cass. 16 gennaio 2007, n. 828; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass., 15 gennaio 2015, n. 635).

4.2. La denuncia si pone infatti, non già nella prospettiva appropriata di confutazione in diritto, ma di contestazione in fatto. E’ noto che il vizio di violazione di legge sia integrato dalla deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e ne implichi necessariamente un problema interpretativo; e che, al contrario, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa sia esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisca alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155): per le ragioni dette insussistente.

4.3. Il mezzo si risolve allora in una sostanziale contestazione della valutazione probatoria e dell’accertamento in fatto del giudice di merito, con una sottesa sollecitazione alla rivisitazione del merito, indeferibile in sede di legittimità (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694), tanto più in considerazione del ristretto ambito devolutivo individuato dal già citato novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: essendo apparente la deduzione di una violazione di norme di legge (come detto, neppure esplicitata nè tanto meno argomentata) e mirando in realtà il motivo alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass. 4 aprile 2017, n. 8759).

Ricorre pertanto, quale ulteriore motivo di inammissibilità, l’ipotesi di cd. “doppia conforme” prevista dall’art. 348 ter c.p.c., comma 5, applicabile ratione temporis, in difetto di indicazione dalla parte ricorrente, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, delle ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrandone la diversità (Cass. 10 marzo 2014, n. 5528; Cass. 22 dicembre 2016, n. 26774).

5. Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. per insussistenza di una giusta causa di recesso dei promotori, è pure inammissibile.

5.1. L’istituto del recesso per giusta causa, previsto dall’art. 2119 c.c., comma 1 in relazione al contratto di lavoro subordinato, è, come risaputo, applicabile anche al contratto di agenzia, dovendosi tuttavia tener conto, per la valutazione della gravità della condotta, che in quest’ultimo ambito il rapporto di fiducia (in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell’attività per luoghi, tempi, modalità e mezzi, in funzione del conseguimento delle finalità aziendali) assume una maggiore intensità rispetto al rapporto di lavoro subordinato: con la conseguenza, ai fini della legittimità del recesso, della sufficienza di un fatto di minore consistenza, secondo una valutazione rimessa al giudice di merito insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente e correttamente motivata (Cass. 26 maggio 2014, n. 11728; Cass. 29 settembre 2015, n. 19300).

5.2. Deve poi essere ribadito l’obbligo del preponente, nel rapporto di agenzia ai sensi dell’art. 1749 c.c., di agire con correttezza e buona fede nei confronti dell’agente, potendo la violazione di detti obblighi contrattuali configurare, in base alla gravità delle circostanze, una giusta causa di scioglimento del rapporto, in applicazione analogica dell’art. 2119 c.c., con il consequenziale diritto dell’agente che receda all’indennità prevista dall’art. 1751 c.c. in caso di cessazione del rapporto (Cass. 12 ottobre 2007, n. 21445; Cass. 29 settembre 2015, n. 19300). Ed il recesso dell’agente per giusta causa si converte, ove si accerti l’insussistenza di quest’ultima e salvo che non emerga una sua diversa volontà, in un recesso senza preavviso, che determina la riespansione del diritto della controparte a percepire le previste indennità e all’eventuale risarcimento del danno (Cass. 30 settembre 2016, n. 19579).

5.3. Ma la censura non integra la violazione dell’art. 2119 c.c. formalmente denunciata, non rilevando qui (come ancora recentemente ritenuto da: Cass. 10 luglio 2018, n. 18170) una questione di sindacabilità, sotto il profilo della falsa interpretazione di legge, del giudizio applicativo di una norma cd. “elastica” (quale indubbiamente è la clausola generale della giusta causa), che indichi solo parametri generali e pertanto presupponga da parte del giudice un’attività di integrazione giuridica della norma, a cui sia data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico – sociale: in tal caso ben potendo il giudice di legittimità censurare la sussunzione di uno specifico comportamento nell’ambito della giusta causa, in relazione alla sua intrinseca lesività degli interessi del datore di lavoro (Cass. 18 gennaio 1999, n. 434; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10514). E ciò per la sindacabilità, da parte della Corte di cassazione, dell’attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito, a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095).

5.4. Nel caso di specie, i promotori ricorrenti censurano invece l’apprezzamento in fatto della Corte territoriale, ben consapevole dello standard integrante la nozione di giusta causa (esplicitato all’ultimo capoverso di pg. 26 della sentenza) esattamente applicato in base a congruo ragionamento argomentativo aderente alle circostanze accertate (dall’ultimo capoverso di pg. 23 al penultimo capoverso di pg. 26 della sentenza), essendo la valutazione di gravità della condotta operata insindacabile in sede di legittimità.

6. Anche il terzo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 1751 e 2697 c.c. ed omesso esame di fatti decisivi per la controversia per esclusione della prova dei requisiti di spettanza dell’indennità di fine rapporto, è inammissibile.

6.1. A parte un evidente difetto di specificità, in violazione del principio prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, per omessa trascrizione dei documenti citati a fondamento della pretesa dei promotori (Cass. 3 luglio 2010, n. 17915; Cass. 31 luglio 2012, n. 13677; Cass. 10 agosto 2017, n. 19985), non si configura nuovamente la violazione delle norme di legge denunciate, in difetto dei requisiti propri (Cass. 31 maggio 2006, n. 12984; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038), consistendo essa nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, necessariamente implicante un problema interpretativo della stessa, non mediato dalla contestata valutazione delle risultanze di causa, riservata alla tipica valutazione del giudice di merito (Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 12 ottobre 2017, n. 24054). 6.2. Neppure si configura il vizio motivo denunciato, per la preliminare constatazione di assenza della deduzione di un fatto storico: tanto meno decisivo, per la pluralità delle concorrenti circostanze prospettata, nessuna delle quali ex se decisiva (Cass. 5 luglio 2016, n. 13676; Cass. 28 maggio 2018, n. 13625).

6.3. In realtà, il mezzo involge piuttosto una contestazione della valutazione probatoria alla base dell’accertamento operato dalla Corte territoriale, adeguatamente argomentato (per le ragioni esposte dal terz’ultimo capoverso di pg. 27 al primo di pg. 29 della sentenza), insindacabile in sede di legittimità (Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 4 novembre 2013, n. 24679). Ed esso sottende un’istanza di rivalutazione critica nel merito della vicenda, eccedente l’ambito devolutivo del novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, al quale è in particolare estraneo l’esame delle risultanze istruttorie (Cass. s.u. 7 aprile 2014 n. 8053; Cass. s.u. 22 settembre 2014 n. 19881; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).

7. Dalle superiori argomentazioni discende l’inammissibilità del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime della soccombenza, senza la condanna risarcitoria richiesta dalla banca ai sensi dell’art. 96 c.p.c.., per mancata allegazione degli elementi di fatto necessari alla liquidazione, pur equitativa, del danno lamentato (Cass. s.u. 20 aprile 2004, n. 7583; Cass. 27 ottobre 2015, n. 21798).

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 7.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, ove dovuto, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 18 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2019

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