Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27499 del 02/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 02/12/2020, (ud. 07/10/2020, dep. 02/12/2020), n.27499

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. FILOCAMO Fulvio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4575-2018 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

G.E.A.F., M.L., elettivamente

domiciliati in ROMA V.LE MAZZINI 13, presso lo studio dell’avvocato

CALAMANI MARIA CRISTINA, che li rappresenta e difende unitamente

agli avvocati BIDOGGIA ELENIO, ODDO GIOVANNA MARIA CARLA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 4132/2017 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata il 17/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

07/10/2020 dal Consigliere Dott. FILOCAMO FULVIO.

 

Fatto

RITENUTO

Che:

In data 13 febbraio 2015, decedeva G.L. lasciando quali eredi il coniuge M.L. e l’unico figlio G.E.A.F., come da testamento pubblico ricevuto in data 30 luglio 2012 dal Notaio Z.S., registrato con verbale del medesimo Notaio.

In data 12 maggio 2015 venivano compiute le operazioni di inventario dell’eredità relitta dal G.L., come risultava dal verbale in pari data a rogito Notaio Z.S., che procedeva “a descrivere i beni immobili ed i beni mobili di proprietà del defunto”. Per quanto riguardava i beni mobili, veniva indicato un attivo di Euro 19.515.892,85 composto da titoli, obbligazioni e liquidità.

In data 15 maggio 2015, veniva presentava la dichiarazione di successione (registrata al Vol. 9990, n. 10603) – successivamente integrata con due ulteriori dichiarazioni in data 3 luglio 2015 e in data 26 ottobre 2015 – ove veniva allegata copia autentica dell’inventario della eredità relitta da G.L. redatto in forma notarile ai sensi degli artt. 769 c.p.c. e ss..

In data 4 agosto 2015, l’Agenzia delle Entrate notificava a M.L. e G.E.A.F. l’avviso di liquidazione dell’imposta e irrogazione delle sanzioni n. (OMISSIS) con il quale veniva liquidata l’imposta di successione.

Con separati ricorsi proposti alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, i contribuenti impugnavano entrambi gli avvisi di liquidazione, chiedendone il parziale annullamento per violazione del D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 9, avendo l’Agenzia ricompreso presuntivamente nell’attivo ereditario denaro, gioielli e mobilia per un importo di Euro 1.827.541,89, nonostante l’esistenza di inventario redatto a norma degli artt. 769 c.p.c. e ss..

L’Agenzia delle Entrate si costituiva in giudizio in entrambi i giudizi chiedendo preliminarmente la riunione dei ricorsi e, nel merito, il rigetto dei medesimi, dal momento che mancava un inventario analitico conforme alla normativa tributaria e civilistica, idonea a vincere la presunzione di cui alla disposizione di legge citata.

Con la sentenza n. 2732 del 2016, la Commissione Tributaria Provinciale rigettava i ricorsi riuniti, ritenendo incompleto l’inventario ove non risultava alcun bene che avrebbe potuto arredare l’abitazione (“anche se di proprietà di terzi”), a fronte di un asse ereditario superiore a venti milioni di Euro.

Avverso la decisione, gli eredi G. proponevano appello dinanzi la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, chiedendone la riforma e, in conseguenza, l’annullamento parziale degli avvisi di accertamento.

I contribuenti rilevavano, da un lato, la conformità dell’inventario (allegato alla denuncia di successione) al modello di cui all’art. 775 c.p.c. e, dall’altro, come difettasse il presupposto dell’appartenenza dei beni al patrimonio del defunto, non essendo al momento del decesso il Dott. G. proprietario di alcun immobile urbano. Deducevano, inoltre, che il defunto non possedeva “alcun monile di metallo prezioso, nè deteneva denaro contante di sorta presso la propria dimora, non essendo più autosufficiente per infermità prolungata ed avendo all’uopo conferito procura generale alla moglie”.

L’Ufficio si costituiva in giudizio, ribadendo quanto dedotto nel precedente grado di giudizio e chiedendo il rigetto del gravame.

Con la sentenza n. 4132 del 2017, l’adita Commissione accoglieva l’appello dei contribuenti, dando atto dell’esistenza di un inventario notarile. Evidenziava che nell’eredità erano ricompresi solo due terreni quali beni immobili e che gli eventuali mobili presenti all’interno della casa in cui dimorava il de cuius erano fiscalmente irrilevanti, stante la presunzione legale a favore del proprietario dell’immobile in tema di pignoramento di beni mobili ex artt. 513 e 621 c.p.c. L’onere probatorio, posto a carico dell’Ufficio, non avrebbe trovato alcun riscontro e non poteva essere “onere dei contribuenti dimostrare la carenza di titolarità del de cuius di beni mobili posti ad uso o ad ornamento di abitazione di proprietà di terzi”.

Avverso questa decisione, l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.

I contribuenti si sono costituiti con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo di ricorso, si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, assumendo che i contribuenti abbiano chiesto l’annullamento parziale dell’atto impugnato, mentre la Commissione tributaria regionale lo avrebbe annullato integralmente.

1.1 II primo motivo è infondato. Si può ritenere che vi sia stato – almeno in apparenza – una decisione ultrapetita, avendo la CTR – nella redazione del dispositivo – annullato “gli avvisi di liquidazione emessi dall’Ufficio”, rispetto alla domanda relativa agli “importi rideterminati in aumento dell’imposta di successione dovuta sulla quota ereditaria presunta”; senonchè, come correttamente ricordato dai controricorrenti, non sussiste il vizio di ultra-petizione denunciato poichè “la portata precettiva di una sentenza va individuata tenendo conto non solo del dispositivo, ma anche della motivazione, quando il primo, contenga comunque una decisione che, pur di contenuto incompleto e indeterminato, si presti ad essere integrata dalla seconda” (Cass. Sez. 1, n. 19074 del 2015). Nel caso in esame, l’accoglimento dei ricorsi originari dei ricorrenti (con conseguente annullamento degli atti impugnati) deve essere riferito alle somme ed alle relative parti degli atti impugnati, così come contestate dai contribuenti. La motivazione, infatti, fa esclusivamente riferimento alla maggiore imposta derivante dall’applicazione della presunzione di cui al D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 9, senza in alcun modo riferirsi all’imposta di successione in sè.

2. Con un secondo motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 9 e dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con conseguente asserita erronea interpretazione dell’art. 9, comma 2, cit.. L’errore sarebbe nell’intendere che la norma, la quale dispone una presunzione, possa operare solo in funzione del possesso di beni immobili.

La disposizione citata, invece, avrebbe inteso introdurre una presunzione in base alla quale si può ritenere che dell’eredità possano far parte denaro, gioielli e mobilia per un importo pari al 10% dell’asse ereditario, indipendentemente dalla titolarità o meno di proprietà o altro diritto reale su un immobile adibito ad abitazione. La presunzione sarebbe superabile, considerando importi, eventualmente inferiori al 10%, se rilevati con “inventario analitico redatto a norma degli artt. 769 c.p.c. e ss.” La violazione della norma, così come interpretata, si sarebbe riverberata anche sulle regole generali in ordine alla ripartizione dell’onere della prova. La disposizione di cui al D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 9, comma 2, introdurrebbe una presunzione legale sulla consistenza dell’attivo ereditario che potrebbe essere superata esclusivamente mediante produzione di inventario analitico conforme alla normativa tributaria e civilistica, dal quale risulti l’esistenza di denaro, gioielli e mobilia per un importo diverso rispetto a quello presunto. La prova avrebbe dovuto essere fornita dai contribuenti esclusivamente presentando un inventario che attestasse la non esistenza di tali beni. La Commissione Tributaria Regionale, quindi, non avrebbe verificato se l’inventario fosse completo, errando nel considerarlo quale prova contraria richiesta per vincere la relativa presunzione legale.

2.2 I secondo motivo non può trovare accoglimento, tenuto conto che, secondo l’indirizzo espresso da questa Corte, che si condivide: “In tema di imposta sulle successioni, la presunzione posta dal D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, art. 9, comma 2, secondo il quale “si considerano compresi nell’attivo ereditario denaro, gioielli e mobilia per un importo pari al dieci per cento del valore globale netto imponibile dell’asse ereditario anche se non dichiarati o dichiarati per un importo minore, salvo che da inventario analitico… non ne risulti l’esistenza per un importo diverso”, può essere vinta solo se l’inventario ivi previsto sia redatto in conformità agli artt. 769 c.p.c. e ss., e cioè se esso risponda ai requisiti di validità formale e sostanziale fissati dal codice. Ciò in quanto, atteso che per l’applicazione dell’imposta presupposto indefettibile resta sempre l’appartenenza dei beni al patrimonio del defunto, la norma del D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 9, comma 2, con la presunzione da essa istituita, va correlata a denaro, gioielli e mobilia che risultino di diretta pertinenza del defunto”. (Cass., Sez. 5, n. 5974 del 2007).

Nel caso in esame l’Agenzia non contesta specificatamente la regolarità formale dell’inventario (che registra beni mobili quali titoli, obbligazioni e liquidità pari a 19.515.892,85 Euro) ma l’incompletezza dello stesso che non avrebbe dato atto dell’assenza di “gioielli, denari o mobilia”, facendo riferimento ad una pronuncia (Cass. Sez. 1, n. 474 del 1973) la quale si riferisce al R.D. n. 3270 del 1923, art. 31, comma 1 (abrogato dal D.P.R. n. 637 del 1972) e, più in particolare agli inventari cd. “di tutela”, laddove siano comunque violate le relative formalità.

Deve concludersi che la presunzione D.Lgs. n. 346 del 1990, ex art. 9 non poteva essere applicata al caso in esame stante la presenza di un inventario notarile (che riportava beni mobili per 19.515.893,85 Euro) sul quale l’Ufficio non ha mosso alcuna critica specifica nella forma e nel merito, se non quella che non avrebbe dato conto (come fosse stato indispensabile) dell’assenza di gioielli e mobilia. Affermazione questa che troverebbe fondamento nella risalente pronuncia sopra riportata, ma che risulta inapplicabile al caso concreto.

3. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte soccombente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 10.000 per compensi, oltre spese forfetarie ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 7 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2020

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