Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27496 del 28/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 28/10/2019, (ud. 28/03/2019, dep. 28/10/2019), n.27496

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Presidente –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3968-2015 proposto da:

B.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SABOTINO 2,

presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO ZAZA, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

INTESA SANPAOLO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore domiciliata ope legis presso la Cancelleria della Corte di

Cassazione, rappresentata e difesa dall’Avvocato GAETANO RIZZO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8867/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 03/02/2014 R.G.N. 992/2007.

Fatto

RILEVATO

che:

1. la Corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda con la quale B.G., ex dipendente di Intesa San Paolo IMI s.p.a., in possesso della qualifica di quadro 1 livello, aveva chiesto la condanna della società datrice di lavoro al risarcimento del danno patito in conseguenza dell’assegnazione a mansioni inferiori alla qualifica rivestita;

1.1. la statuizione di rigetto è stata fondata sul mancato assolvimento da parte della B. dell’onere, sulla stessa gravante, di dimostrare il dedotto danno alla professionalità conseguente all’inadempimento datoriale;

2. per la cassazione della decisione ha proposto ricorso B.G. sulla base di due motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso; entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. con il primo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 111 Cost., commi 1 e 6, nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa pronunzia su fatti del giudizio, oggetto di discussione tra le parti, rappresentati dalla domanda di accertamento dell’avvenuta dequalificazione, dal precedente giudicato tra le parti e dal curriculum personale della lavoratrice. Sotto il primo profilo ci si duole del fatto che la Corte di merito abbia statuito solo sulla domanda di risarcimento del danno da dequalificazione e non sulla domanda di accertamento della avvenuta dequalificazione professionale. Sotto il secondo profilo si assume che il giudice di appello non ha tenuto conto della circostanza che nel ricorso di primo grado era stata allegata e prodotta la sentenza del Tribunale di Napoli n. 5201/2003, resa in altro giudizio tra le stesse parti e passata in giudicato, la quale aveva dichiarato l’avvenuta dequalificazione professionale della lavoratrice e condannato la società datrice alla reintegra ed al risarcimento del danno in relazione al periodo 18.9.2000/21.3.2001; ci si duole, inoltre, della mancata considerazione del curriculum professionale della B.;

2. con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 2103 c.c. e art. 96 disp. att. c.p.c., degli artt. 1175, 1176 e 1375 c.c., dell’art. 1362c.c., degli artt. 2697 e 2727 c.c.. Si censura la sentenza impugnata per avere, in contrasto con le emergenze in atti ed anche con la sentenza richiamata quale precedente inter partes, ritenuto che gli elementi acquisiti non consentissero di effettuare alcuna valutazione concreta in ordine alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa dalla lavoratrice appellata, ed agli aspetti peculiari della specifica professionalità colpita;

3. il primo motivo di ricorso è inammissibile per difetto di interesse ad impugnare. La Corte di merito ha mostrato di condividere la impostazione in diritto del primo giudice (dando atto della conformità della stessa alla giurisprudenza di legittimità) il quale, sulla base della presunzione di effettivo svolgimento di compiti corrispondenti a un livello di professionalità e a un grado di qualificazione superiori a quelli connotanti le mansioni di successiva assegnazione, aveva ritenuto che fosse onere della datrice di lavoro, onere in concreto non assolto, provare che le mansioni svolte in precedenza non fossero più qualificanti rispetto alle successive assegnate alla B.; il giudice di appello ha, quindi, osservato che stante la distinzione concettuale tra fatto illecito (contrattuale) e danno (evento danno) all’inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro non consegue, di regola, in via automatica, un pregiudizio nella sfera del lavoratore il quale, pertanto, è tenuto alla relativa allegazione e dimostrazione; nel caso concreto, premesso che la perdita lamentata non atteneva al profilo economico-retributivo “incontestatamente immutato” ma al depauperamento o mancato incremento delle capacità o conoscenze professionali maturate nella fase pregressa del rapporto, ha ritenuto che gli atti del giudizio di primo grado non consentivano di effettuare alcuna valutazione concreta in ordine alla qualità e quantità della pregressa esperienza lavorativa ed alla specifica professionalità colpita; in conseguenza, la domanda risarcitoria – sorretta da criteri differenti (rispetto alla domanda di accertamento dell’inadempimento datoriale) in punto di distribuzione degli oneri di allegazione e prova – facenti essenzialmente capo al lavoratore – doveva essere respinta;

3.1. alla stregua delle ragioni che sostengono la decisione, impugnata è da escludere che ricorra il vizio di cui all’art. 112 c.p.c., configurabile quando sia omessa qualsiasi decisione su un capo di domanda, per tale intendendosi ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene all’attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica sulla quale debba essere emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto (Cass. n. 18797 del 2018, Cass. n. 28308 del 2017, Cass. n. 7653 del 2012). La domanda di accertamento della dequalificazione alla base della pretesa risarcitoria della lavoratrice è stata, infatti, espressamente esaminata e riconosciuta fondata (v. sentenza, pag. 5, secondo capoverso). La formale statuizione di (totale) rigetto della originaria domanda, adottata in dispositivo, scaturisce dall’essere l’accertamento dell’inadempimento datoriale finalizzato e funzionale esclusivamente al risarcimento del danno (v. conclusioni di primo grado riprodotte nel ricorso per cassazione, pag. 4) non avendo, peraltro, la B. neppure dedotto l’esistenza di un interesse autonomo (rispetto alla richiesta risarcitoria) ad una formale declaratoria di accertamento della dequalificazione, interesse positivamente escluso dalle medesime allegazioni della lavoratrice relative alla avvenuta cessazione dal servizio alla data del 31.12.2003 e dalle stesse conclusioni formulate sopra richiamate e la cui carenza è destinata a riflettersi sull’ammissibilità della censura articolata con il motivo in esame;

3.2. parimenti da respingere è la censura di omesso esame di fatti decisivi, oggetto di discussione, per la dirimente considerazione che gli stessi non sono evocati nel rispetto della prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, indispensabile anche al fine dell’imprescindibile vaglio di decisività degli stessi; non risulta, infatti, integralmente trascritto il contenuto della a sentenza del Tribunale di Napoli 7.10.2003, il cui accertamento, tra l’altro, concerneva, secondo quanto allegato dalla odierna ricorrente, un periodo diverso da quello in oggetto, così come manca del tutto la trascrizione del contenuto del curriculum asseritamente non preso in considerazione dal giudice di merito;

4. il secondo motivo di ricorso è inammissibile per una pluralità di profili. In primo luogo, la deduzione di violazione di norme di diritto non è articolata con modalità idonee alla valida censura della decisione, non risultando incentrata sulla verifica della correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva delle norme, nè sulla sussunzione del fatto accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa, e non risultando neppure specificate le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente assunte in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, come prescritto (Cass. n. 16038 del 2013, Cass. n. 3010 del 2012, Cass. n. 24756 del 2007, Cass. n. 12984 del 2006). In secondo luogo, le argomentazioni svolte in tema di onere probatorio in caso di allegazione da parte del lavoratore dell’inadempimento datoriale per violazione del disposto dell’art. 2103 c.c. non investono la ratio decidendi alla base della statuizione di rigetto, fondata sulla netta distinzione, sotto il profilo della distribuzione degli oneri di allegazione e di prova a carico del datore di lavoro e della lavoratrice, tra accertamento dell’inadempimento datoriale e accertamento della esistenza di un danno risarcibile e, quindi, sull’affermazione, corretta in diritto, della inconfigurabilità di un danno in re ipsa conseguente al mero demansionamento (v. tra le più recenti: Cass. n. 21 del 2019 e Cass. n. 25743 del 2018) con onere a carico della lavoratrice, onere in concreto ritenuto non assolto (v. sentenza, dal 1 capoverso di pag. 3 all’ultimo capoverso di pagina 5);

4.1. infine, sono da respingere le deduzioni intese a censurare la sentenza impugnata sotto il profilo del mancato accertamento in via presuntiva del danno alla professionalità alla luce della giurisprudenza di questa Corte secondo la quale spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi ulteriormente soggiungere che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio – illogicità e contraddittorietà nella specie non sussistenti (v. in particolare sentenza pag. 5, secondo capoverso) – restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (Cass. n. 8023 del 2009);

5. al rigetto del ricorso segue il regolamento, secondo soccombenza, delle spese di lite;

6. sussistono i presupposti per l’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 28 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2019

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