Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27489 del 28/10/2019

Cassazione civile sez. II, 28/10/2019, (ud. 25/09/2019, dep. 28/10/2019), n.27489

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27578/2015 proposto da:

Z.L.A., elettivamente domiciliato in ROMA,

CIRCONVALLAZIONE TRIONFALE 145, presso lo studio dell’avvocato

STEFANO COLELLA, rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNI

GIUSEPPE PAGLIARULO;

– ricorrente –

contro

T.L.C.D.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 592/2015 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 03/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

25/09/2019 dal Consigliere Dott. LUIGI GIOVANNI LOMBARDO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – T.L.C.D. convenne in giudizio A.A.E. e Z.S.C., chiedendo l’annullamento, ex art. 428 c.c., del contratto di compravendita stipulato in data 30/7/2002, col quale la propria genitrice C.M.L., essendo in stato di incapacità di intendere e di volere, aveva trasferito ai convenuti la proprietà di un immobile urbano sito in (OMISSIS) per il prezzo di Euro 11.720,00.

Nella resistenza dei convenuti, il Tribunale di Lecce, dopo aver esperito consulenza tecnica, rigettò la domanda per difetto di prova dello stato di incapacità della venditrice.

2. – Sul gravame proposto dalla T., la Corte di Appello di Lecce dispose nuova C.T.U. e, sulla base delle sue risultanze, ritenendo provati gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 428 c.c., accolse la domanda attorea, disponendo l’annullamento del detto contratto di compravendita e la condanna dei convenuti al pagamento delle spese dei due gradi del giudizio.

3. – Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione Z.L.A., quale erede degli originari convenuti (nel frattempo deceduti), sulla base di tre motivi.

L’attrice, ritualmente intimata, non ha svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Col primo motivo (proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3), si lamenta, da un lato, che la Corte territoriale non avrebbe considerato che l’attrice non aveva fornito la prova di avere accettato l’eredità della madre C.M.L. e, dall’altro, che la stessa Corte sarebbe incorsa in errore nell’aver ritenuto provato lo stato di incapacità di intendere e di volere della C. al momento della stipulazione del contratto, che era avvenuta con rogito notarile.

Il motivo, nei due profili nei quali si articola, non può trovare accoglimento.

1.1. – E’ infondato il primo profilo col quale si deduce che l’attrice non avrebbe fornito la prova di avere accettato l’eredità della madre C.M.L..

Premesso che la questione relativa all’avvenuta accettazione della eredità – attenendo alla titolarità del rapporto controverso dedotto in giudizio – ha natura di mera difesa, come tale proponibile in ogni stato e fase del giudizio (Cass., Sez. Un., n. 2951/2016; Sez. 2 n. 20721/2018), va tuttavia rilevato che fin dall’atto di citazione introduttivo l’attrice ebbe a dichiarare di agire “in quanto figlia ed erede di C.M.L.” (v. p. 4 del ricorso ove l’atto è trascritto).

Il ricorrente non ha contestato il fatto che l’attrice sia stata chiamata all’eredità di C.M.L., ma ha solo eccepito la mancata accettazione di tale eredità.

Ora, costituisce ius receptum che il principio secondo cui, poichè l’accettazione tacita dell’eredità può desumersi dall’esplicazione di un’attività personale del chiamato incompatibile con la volontà di rinunciarvi ovvero da un comportamento tale da presupporre la volontà di accettare l’eredità secondo una valutazione obiettiva condotta alla stregua del comune modo di agire di una persona normale, essa è implicita nell’esperimento, da parte del chiamato, di azioni giudiziarie, che – perchè intese alla rivendica o alla difesa della proprietà o al risarcimento dei danni per la mancata disponibilità di beni ereditari – non rientrino negli atti conservativi e di gestione dei beni ereditari consentiti dall’art. 460 c.c., sicchè, trattandosi di azioni che travalicano il semplice mantenimento dello stato di fatto quale esistente al momento dell’apertura della successione, il chiamato non avrebbe diritto di proporle e, proponendole, dimostra di avere accettato la qualità di erede (Cass., Sez. 2, n. 14499 del 06/06/2018; Sez. 3, n. 16814 del 26/06/2018).

Deve ritenersi pertanto che l’esperimento, da parte della T., di un’azione non rientrante tra gli atti conservativi e di gestione dei beni ereditari ex art. 460 c.c., abbia costituto accettazione tacita della eredità.

1.2. – Non può trovare accoglimento neppure il secondo profilo della censura, col quale si deduce l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel ritenere provato lo stato di incapacità di intendere e di volere della C. al momento della stipulazione dell’atto impugnato.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, al fine dell’invalidità del negozio per incapacità naturale non è necessaria la prova che il soggetto, nel momento del compimento dell’atto, versava in uno stato patologico tale da far venir meno, in modo totale e assoluto, le sue facoltà psichiche, essendo sufficiente accertare che tali facoltà erano perturbate al punto da impedire al soggetto una seria valutazione del contenuto e degli effetti del negozio, e quindi il formarsi di una volontà cosciente. La prova dell’incapacità naturale può essere data con ogni mezzo o in base a indizi e presunzioni, che anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità, e il giudice è libero di utilizzare, ai fini del proprio convincimento, anche le prove raccolte in un giudizio intercorso tra le stesse parti o tra altre. L’apprezzamento di tale prova costituisce giudizio riservato al giudice di merito che sfugge al sindacato di legittimità se sorretto da congrue argomentazioni, esenti da vizi logici e da errori di diritto (Cass., Sez. 2, n. 4539 del 28/03/2002; nello stesso senso, Sez. 2, n. 13659 del 30/05/2017; Sez. 2, n. 4316 del 04/03/2016; Sez. 2, n. 17130 del 09/08/2011; Sez. 3, n. 1770 del 08/02/2012).

Con riferimento al caso in cui il contratto sia stato stipulato dinanzi al notaio con le forme dell’atto pubblico, questa Suprema Corte ha ancora statuito che l’atto pubblico redatto dal notaio fa fede fino a querela di falso soltanto relativamente alla provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l’ha formato, alle dichiarazioni al medesimo rese ed agli altri fatti dal medesimo compiuti, non estendendosi tale efficacia probatoria anche ai giudizi valutativi eventualmente espressi, tra i quali va compreso quello relativo al possesso, da parte di uno dei contraenti, della capacità di intendere e di volere (Cass., Sez. 2, n. 3787 del 09/03/2012; Sez. 2, n. 9649 del 27/04/2006).

Nella specie, la Corte territoriale ha esposto le ragioni per cui ha condiviso l’esito della seconda consulenza tecnica, richiamando le diagnosi della A.S.L. risalenti agli anni precedenti alla stipula del contratto impugnato e, tra le altre, quella del 17/12/2001 nella quale alla C. fu diagnosticata una “demenza senile grave”.

La motivazione della sentenza impugnata sul punto, che ha concluso per la sussistenza della prova dello stato di incapacità di intendere e di volere, è esente da vizi logici e giuridici e rimane, perciò, insindacabile in sede di legittimità.

2. – Col secondo motivo, si deduce la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto (ex art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (ex art. 360 c.p.c., n. 5), per avere la Corte di Appello per un verso ritenuto non necessario l’elemento del “grave pregiudizio” richiesto dall’art. 428 c.c., comma 1, ai fini dell’annullamento dell’atto e, per altro verso, ritenuto provata la malafede degli acquirenti senza previamente acquisire le prove testimoniali contrarie dedotte dai convenuti.

Anche questo motivo si articola in due profili, entrambi non meritevoli di accoglimento.

2.1. – Infondata è la pretesa del ricorrente secondo cui, ai fini dell’annullamento del contratto di compravendita impugnato, sarebbe necessario accertare il “grave pregiudizio” richiesto dall’art. 428 c.c., comma 1.

Come si evince dal testo dell’art. 428 c.c., il requisito del “grave pregiudizio” assume rilievo autonomo unicamente con riguardo all’azione di annullamento degli atti unilaterali (comma 1); tale requisito, invece, non rileva direttamente per l’azione di annullamento dei contratti (comma 2), essendo a tal fine richiesta la “mala fede” dell’altro contraente, mentre il pregiudizio o il pericolo di pregiudizio – ove sussistano – rilevano solo come indici rivelatori della mala fede.

Sul punto, va ribadito il principio già affermato da questa Suprema Corte, secondo cui, ai fini dell’annullamento del contratto concluso da un soggetto in stato d’incapacità naturale, è sufficiente la malafede dell’altro contraente, senza che sia richiesto un grave pregiudizio per l’incapace; laddove, in concreto, tale pregiudizio si sia verificato, esso tuttavia ben può costituire un sintomo rivelatore di detta malafede (Cass., Sez. 2, n. 17583 del 09/08/2007; Sez. 2, n. 4677 del 26/02/2009; Sez. 2, n. 9007 del 11/09/1998; Sez. 2, n. 7403 del 14/05/2003).

Esattamente, dunque, la Corte territoriale non ha accertato la sussistenza del grave pregiudizio ed ha accertato, invece, la sussistenza della mala fede degli acquirenti (p. 7 della sentenza impugnata).

2.2. – Quanto alla doglianza circa la mancata ammissione delle prove testimoniali dedotte al fine di provare la insussistenza della malafede degli acquirenti, il motivo è inammissibile per difetto di specificità.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio, il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci la mancata ammissione di una prova testimoniale da parte del giudice di merito ha l’onere di indicare specificamente le circostanze che formavano oggetto della prova, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività delle prove, che – per il principio di autosufficienza del ricorso – la Corte di cassazione dev’essere in grado di compiere solo sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (Cass., Sez. Un., n. 28336 del 22/12/2011; Sez. Un., n. 1988 del 24/02/1998; Sez. 2, n. 9748 del 23/04/2010; Sez. 3, n. 24221 del 17/11/2009).

Nella specie, il ricorrente ha omesso di trascrivere i capitoli di prova, non ponendo così questa Corte in grado di valutare la decisività della prova per testi di cui ha lamentato la mancata assunzione e, quindi, la sussistenza del dedotto vizio di legittimità. Non rimane, pertanto, che rilevare l’inammissibilità della censura.

3. – Col terzo motivo, si deduce la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto (ex art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la Corte di Appello rigettato la domanda di restituzione del prezzo della vendita proposta in subordine dai convenuti.

Anche questo motivo non può trovare accoglimento.

Secondo quanto accertato dalla Corte territoriale, fu A.A.E., e non il di lei marito Z.S., a pagare alla venditrice C. Maria il prezzo dell’immobile venduto. Solo la A., perciò, era legittimata a chiedere la restituzione della somma, come in effetti chiese nel giudizio di primo grado.

Respinta la domanda di annullamento del contratto all’esito del giudizio di primo grado e proposto appello da parte della T. (quale erede della C.), solo Z.S. si costituì con comparsa di risposta per resistere al gravame. A.A.E., invece, rimase contumace.

La domanda di restituzione del prezzo, inizialmente proposta dalla A., non fu perciò riproposta dalla medesima nel giudizio di appello. Nè la domanda poteva essere utilmente riproposta dallo Z., che non era a ciò legittimato.

In definitiva, la domanda di restituzione, non essendo stata riproposta in appello da chi era legittimato, deve intendersi essere stata rinunciata (art. 346 c.p.c.).

Risulta, perciò, conforme a diritto il mancato accoglimento della domanda da parte della Corte territoriale.

4. – Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Nulla va statuito sulle spese, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.

5. – Parte ricorrente è tenuta a versare – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (applicabile ratione temporis, essendo stato il ricorso proposto dopo il 30 gennaio 2013) – un ulteriore importo a titolo contributo unificato pari a quello dovuto per la proposizione dell’impugnazione.

PQM

La Corte Suprema di Cassazione

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2019

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