Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27478 del 28/10/2019

Cassazione civile sez. II, 28/10/2019, (ud. 02/07/2019, dep. 28/10/2019), n.27478

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22809-2015 proposto da:

P.G., in qualità di titolare della omonima impresa edile,

rappresentato e difeso dall’Avvocato ISABELLA MARIA STOPPANI ed

elettivamente domiciliato presso il suo studio, in ROMA, VIA BRENTA

2/A;

– ricorrente –

contro

A.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1608/2014 della CORTE d’APPELLO di BOLOGNA,

depositata in data 1/07/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

02/07/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione, notificato in data 9.1.2001, A.A. conveniva avanti al Tribunale di Rimini P.G., quale titolare di omonima impresa individuale, esponendo quanto segue: essa attrice aveva concluso con il P. un primo contratto preliminare di compravendita in data (OMISSIS), con il quale si era impegnata ad acquistare dal promittente venditore un appartamento in (OMISSIS), al prezzo di Lire 260 milioni; l’appartamento faceva parte di un edificio costruito dal P. nell’ambito di un piano di edilizia popolare e per il quale era prevista dalla normativa vigente l’erogazione di contributi da parte della Regione Emilia Romagna in favore dei singoli acquirenti che rispondessero ai prescritti requisiti, con detrazione del relativo importo dal prezzo di vendita. Tale primo contratto era seguito da altro, del (OMISSIS), con il quale i contraenti fissavano il reale prezzo di vendita in Lire 350 milioni, nonostante il prezzo massimo dovuto alla natura dell’immobile non potesse superare l’importo di Lire 316.809.677. Il contratto definitivo, recante l’indicazione del prezzo simulato, era concluso il (OMISSIS) e l’attrice versava al P. la somma di Lire 350 milioni, dalla quale il venditore detraeva l’importo di Lire 40 milioni in attesa di conoscere l’effettivo ammontare del contributo.

L’attrice aveva appreso in seguito che il contributo regionale a lei dovuto, per l’acquisto dell’immobile, ammontava a Lire 48.691.568, regolarmente erogati dalla Regione al P., il quale si era rifiutato di pagarle la somma residua di Lire 8.691.568, accampando l’esistenza di crediti per oltre Lire 10 milioni per interessi maturati a seguito del ritardo nella stipulazione del rogito e per la consegna di materiali di arredo extra capitolato. Chiedeva, quindi, di accertare la simulazione del prezzo di vendita dell’immobile e la condanna del P. a pagarle l’importo di Lire 8.691.568, oltre interessi legali.

Si costituiva in giudizio P.G. chiedendo il rigetto della domanda. Assumeva che al momento della conclusione del contratto non fosse ancora noto l’importo esatto del contributo regionale e che egli aveva ugualmente detratto dal prezzo un importo forfettario, così anticipando parte del contributo all’acquirente; deduceva di vantare un credito di Lire 10.806.590 per interessi compensativi sul prezzo di vendita, ex art. 1499 c.c., maturati nel periodo tra la data prevista del rogito (30.5.1998) e quella effettiva ((OMISSIS)) e per il corrispettivo di materiale extra installato nell’appartamento dell’attrice, come da fattura (OMISSIS) del (OMISSIS); affermava di vantare un ulteriore credito di Lire 6 milioni quale compenso per il mandato svolto per far ottenere all’attrice il contributo regionale. Chiedeva in via riconvenzionale di accertare l’esistenza del proprio credito di Lire 16.806.590 e di porlo in compensazione con il credito vantato dall’attrice, con la condanna dell’ A. al pagamento della differenza di Lire 8.115.022.

Espletata CTU e prova per testi, il Tribunale di Rimini, con sentenza n. 824/2008, depositata in data 17.6.2008, dichiarava la simulazione del prezzo di vendita dell’immobile dichiarato nel contratto di vendita del 4.8.1988, precisando che il prezzo effettivo era stato di Lire 350.000.000; condannava il convenuto a pagare all’attrice la somma di Lire 8.691.568 (pari a Euro 4.488,82), oltre interessi legali e rigettava la domanda riconvenzionale del P. condannandolo alle spese di lite.

Il P. appellava la pronuncia di rigetto della domanda riconvenzionale, ribadendo l’esistenza del proprio credito.

Resisteva all’appello l’ A., chiedendo, con gravame incidentale, la condanna dell’appellante a rifonderle le spese della CTP, che quantificava in Euro 550,80, oltre al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c..

Con sentenza n. 1608/2014, depositata in data 1.7.2014, la Corte d’Appello di Bologna condannava il P. a rifondere all’appellata le spese di CTP che liquidava in Euro 550,80, confermando nel resto la sentenza appellata e rigettando l’appello principale del P., che condannava alle spese di lite del grado.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione P.G. sulla base di tre motivi; l’intimata A.A. non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione o falsa applicazione della L. n. 179 del 1992, segnatamente l’art. 7, ex art. 360 c.p.c., n. 3”, là dove la sentenza impugnata, condividendo l’assunto del Tribunale, riteneva che scaturisse dalla legge citata l’obbligo del costruttore di richiedere il contributo, quando invece la normativa prevede che il destinatario sia l’acquirente, il quale può richiederlo solo dopo aver firmato il contratto preliminare, se in possesso dei requisiti richiesti, come specificato nella Delib. regionale n. 438 del 1996.

1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 1709 c.c. – Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.ex art. 360 c.p.c., n. 3”, in ragione della censurata violazione della presunzione di onerosità del mandato. Il ricorrente rileva di essersi occupato di tutta la complessa e onerosa attività volta a far ottenere alla richiedente il contributo regionale e di avere provato per testi l’affidamento dell’incarico, non essendo stata provata dall’attrice acquirente la gratuità dello stesso. La sentenza violerebbe le citate norme, affermando l’interesse diretto dell’imprenditore a far conseguire agli acquirenti contributi senza i quali è dubbio che potesse vendere gli appartamenti da lui costruiti.

2. – In considerazione della loro stretta connessione logico-giuridica, i due motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente.

2.1. – Essi non sono fondati.

2.2. – La Corte di merito (premesso che la presunzione di onerosità del mandato, oltre che tramite la prova di un patto espresso di gratuità, può essere superata anche quando il carattere gratuito possa essere desunto dal circostanze in cui il rapportp è stato stipulato, nonchè dal comportamento delle parti prima e dopo lo svolgimento della prestazione) ha rilevato come, nella specie, fosse corretta e condivisibile la decisione del Tribunale che aveva valorizzato il contenuto degli accordi contrattuali nel profilo della valutazione della condotta dei contraenti, riconoscendo rilevanza al silenzio da loro serbato in ordine alla attività svolta o da svolgere dal P., promittente venditore, ma prima ancora, costruttore degli immobili per far ottenere ai clienti i contributi, costituenti un evidente incentivo agli acquisti immobiliari. Non dovendosi, peraltro trascurare il contesto nel quale era insorto il rapporto controverso, che vedeva un interesse diretto dell’imprenditore a far conseguire agli acquirenti i contributi senza i quali era dubbio che potesse vendere gli appartamenti da lui costruiti; ed essendo dunque ragionevole ritenere che l’attività diretta a far riconoscere alla compratrice il diritto alla erogazione del finanziamento fosse stata svolta spontaneamente dal P., senza alcuna pretesa di onerosità. Laddove (sempre secondo la Corte di merito) non contrasta con tale conclusione la deposizione resa dalla teste (F.) che aveva riferito di accordi tra le parti sulle spese sostenute dal venditore nell’espletamento delle formalità per l’ottenimento dei contributi – spese, nella specie, prima ancora che non documentate nemmeno richieste – ma non anche sul compenso oggetto della domanda (v. sentenza impugnata, pagine 10 e seg.).

2.3. – Con riguardo al primo motivo, dal contesto di tale motivazione, adeguata e coerente, non è dato riscontrare alcuna violazione della L. n. 179 del 1992, art. 7 (che individua i destinatari dei contributo e non già le modalità della richiesta erogazione ed i soggetti a ciò tenuti); non essendo stato peraltro lamentato, rispetto alla deliberazione del Consiglio regionale n. 438 del 1996, alcun vulnus connotato dalla necessaria specificità (Cass. n. 24773 del 2018).

Invero, le censure svolte dal ricorrente riguardano più specificamente la valutazione condotta dal giudicante del quadro probatorio acquisito. Relativamente a ciò, è tuttavia consolidato il principio secondo cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016). Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, per cui è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013).

2.4. – Con riguardo al secondo motivo, vale il consolidato principio di diritto secondo cui la presunzione di onerosità del mandato, stabilita iuris tantum dall’art. 1709 c.c., può essere superata dalla prova della sua gratuità, desumibile anche dalle circostanze del rapporto, come la qualità del mandatario, le relazioni che intercedono fra questi e il mandante, il contegno delle parti, anteriore e successivo allo svolgimento delle prestazioni (Cass. n. 14682 del 2014; cfr. Cass. n. 17384 del 2018). Dovendosi, altresì, ribadire che l’accertamento della volontà dei contraenti di attribuire al mandato natura gratuita si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità soltanto nel caso in cui la motivazione risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l’iter logico seguito dal giudice (Cass. n. 14682 del 2018, cit.).

Nel caso in esame, come già detto, la Corte d’appello ha fornito adeguata giustificazione delle ragioni per le quali ha ritenuto che il mandato, nelle intenzioni delle parti, dovesse avere carattere gratuito (sentenza impugnata, pagina 10).

3. – Con il terzo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2028 e 2032 c.c.ex art. 360 c.p.c., n. 3 perchè, anche in via subordinata rispetto ai precedenti motivi, è pacifica la ratifica dell’interessata, Sig.ra A., che ha approfittato dei benefici; l’affermazione in sentenza circa la spontaneità dell’attività svolta dal ricorrente che escluderebbe il mandato costituisce la fattispecie della negotiorum gestio, onerosa ove ci sia la ratifica”.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

3.2. – In primo luogo, va rilevato che i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel giudizio d’appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito (nella specie, la dedotta configurabilità di una negotiorum gestio), tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (Cass. n. 907 del 2018).

3.3. – In secondo luogo, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni (che nella specie non si ravvisano) intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie (Cass. n. 11501 del 2006; cfr. Cass. n. 24298 del 2016; Cass. 2831 del 2009).

4. – Il ricorso va, pertanto, rigettato. Nulla per le spese, in ragione del mancato svolgimento di attività difensiva da parte della intimata. Va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 2 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2019

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