Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27471 del 20/11/2017


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Civile Ord. Sez. L Num. 27471 Anno 2017
Presidente: NAPOLETANO GIUSEPPE
Relatore: BLASUTTO DANIELA

ORDINANZA

sul ricorso 26015-2012 proposto da:
BELVISI GIOVANNI C.F. BLVGNN47E23Z352C, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA FILIPPO CORRIDONI 25, presso
lo studio dell’avvocato MARCO DE FAZI, rappresentato
e difeso dagli avvocati RENATO AMBROSIO, STEFANO
BERTONE, giusta delega in atti;
– ricorrente contro
2017
3298

MINISTERO DELLA SALUTE C.F. 80184430587, in persona
del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso
dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui
Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI
PORTOGHESI 12;

Data pubblicazione: 20/11/2017

- controri corrente –

avverso la sentenza n. 570/2012 della CORTE D’APPELLO

di TORINO, depositata il 17/05/2012 R.G.N. 647/2011.

R.G. 26015/2012

RILEVATO
che con sentenza n. 570/12 la Corte di appello di Torino ha confermato la pronuncia di
primo grado che aveva rigettato la domanda proposta da Belvisi Giovanni nei confronti dei
Ministero della Salute, diretta a ottenere l’indennizzo di cui alla L. n. 210/92;
che il ricorrente aveva dedotto di essere affetto da ”epatopatia cronica HCV correlata”,
contratta a seguito delle trasfusioni subite nel corso di un ricovero ospedaliero, e che la

che la Corte territoriale ha respinto le censure mosse alla sentenza di primo grado,
osservando che l’epatopatia contratta dal Belvisi non poteva porsi in relazione causale con
l’unica trasfusione di sangue annotata nella cartella clinica relativa al ricovero ospedaliero
subito dal ricorrente nel periodo 28.12.78-18.1.1979 presso l’ospedale Molinette di Torino,
in quanto:
– la Commissione medica ospedaliera, nel verbale della seduta del 13 maggio 2005, aveva
rilevato che le indagini biologiche sui donatori eseguite dal Centro trasfusionale competente
avevano permesso di riscontrarli “HCV negativi”;
– a identiche conclusioni era pervenuto l’Ufficio medico-legale del Ministero, la cui relazione
del 3 ottobre 2006 attestava che i donatori coinvolti erano stati in seguito ricontrollati e
risultati negativi per HCV, rispettivamente nel 1996 e nel 2006;
– a fronte di tali risultanze, ed in particolare della cartella clinica che attestava la trasfusione
di un solo flacone di sangue avvenuta il giorno 3 gennaio 1979, documento che aveva
efficacia probatoria privilegiata, alcuna rilevanza poteva attribuirsi alla dichiarazione
sottoscritta dalla sorella del ricorrente, la quale nell’ottobre 2008, a distanza di molto tempo
dal ricovero, aveva riferito che il Belviso subì la trasfusione di almeno due sacche di plasma;
– anche il C.t.u. nominato in primo grado aveva riferito che “…quella della pluralità di
trasfusioni è una mera ipotesi, alla quale si è fatto cenno in quanto tale possibilità era stata
prospettata nel ricorso introduttivo ed era contemplata nel quesito peritale”, concludendo
che, “sulla base degli elementi tecnico scientifici desumibili dagli atti di causa, non è
possibile dire in merito alla maggiore o minore attendibilità di tale ipotesi”;
che avverso tale sentenza Belvisi Giovanni ha proposto ricorso affidato a tre motivi, cui
resiste il Ministero della Salute con controricorso;
CONSIDERATO
che il ricorso denuncia, con i primi due motivi, error in iudicando

(artt. 115,116 416 e 437

c.p.c. e 2697 c.c.) per violazione del diritto di difesa in relazione alla mancata ammissione
della prova testimoniale, dedotta per dimostrare l’esistenza di plurime trasfusioni e
l’assenza di altri fattori di rischio; il terzo motivo censura la sentenza per vizio 401
cl .

relativa domanda amministrativa era stata respinta per insussistenza del nesso causale;

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motivazione su fatti decisivi per il giudizio e violazione di legge (artt. 40 e 41 c.p. e artt.
2700, 2727 e 2729 c.c.) in tema di nesso di causalità;
che il ricorso, i cui motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto tra loro
connessi, è infondato per le ragioni che seguono:
1.

l’indennizzo ai soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni ed

emoderivati, di cui alla legge n. 210 del 1992, ha natura non risarcitoria, ma assistenziale in
senso lato, riconducibile agli artt. 2 e 32 Cost. e alle prestazioni poste a carico dello Stato in
ragione del dovere di solidarietà sociale (ex plurimis, Cass. 6799 del 2002);

all’indennizzo previsto in favore di coloro che presentino danni irreversibili derivanti da
epatiti post-trasfusionali dall’art. 1, comma terzo, della legge 25 febbraio 1992,n. 210, la
prova a carico dell’interessato ha ad oggetto l’effettuazione della terapia trasfusionale, il
verificarsi dei danni anzidetti e il nesso causale tra i primi e la seconda, da valutarsi secondo
un criterio di ragionevole probabilità scientifica (cfr. Cass. 753 del 2005);
3. se è vero che l’art. 1, comma 3, della legge 25 febbraio 1992, n. 210, che appunto
contempla un’indennità in favore dei soggetti emotrasfusi per danni irreversibili da epatiti
post-trasfusionali, a seguito della sentenza additiva della Corte costituzionale n. 28 del
2009, deve essere interpretato in modo costituzionalmente orientato e dunque alla luce del
nuovo significato che l’enunciato normativo ha assunto in forza della predetta declaratoria di
illegittimità costituzionale, nonché di altra precedente recata dalla sentenza n. 476 del 2002
(Cass. n. 9148 del 2013), occorre pur sempre che sia allegato dall’interessato il fatto
generatore del danno e che in giudizio risulti provato il nesso, secondo un criterio di
ragionevole probabilità scientifica, tra la terapia trasfusionale e il danno epatico;
4. le Sezioni Unite (in particolare sentenze n. 576 e 581 del 2008) hanno inquadrato il
problema della conoscenza del virus e dei test rivelatori nell’ambito della c.d. causalità
adeguata o regolarità causale. Per pervenire ad una causalità giuridicamente rilevante
all’interno delle serie causali determinate ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p., hanno dato rilievo
solo a quelle cause che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiono del
tutto inverosimili, ma si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il
principio della regolarità causale. Con la conseguenza, che ciascuno è responsabile soltanto
delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente
prevedibili al momento nel quale ha agito. Prevedibilità, effettuata con giudizio ex ante, e
prevedibilità obiettiva, individuata in astratto e non in concreto, non con il metro di
valutazione della conoscenza dell’uomo medio, ma con quello delle migliori conoscenze
scientifiche del momento; divenendo così rilevante, non la prevedibilità da parte dell’agente,
ma la prevedibilità secondo le regole scientifiche (v. pure Cass. n. 3216 del 2016);

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2. la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che, ai fini del sorgere del diritto

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5. in tale contesto, grava sul Ministero un obbligo di controllo, di direttive e di vigilanza in
materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di
emoderivati), anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in
materia sanitaria, affinché sia utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori
conformi agli standard di esclusione di rischi;
6. la Corte di appello ha riferito – a seguito dell’accertamento di fatto che le compete – che
la cartella clinica comprovava un’unica trasfusione e che, all’esito dei dovuti controlli previsti
per legge, i donatori erano risultati sani, anche a distanza di tempo dalle donazioni

obblighi normativi esistenti al tempo dell’intervento e relativi alle trasfusioni di sangue, quali
quelli concernenti la identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza,
c.d. tracciabilità del sangue (cfr. Sez. Un. nn. 577 e 582 del 2008); non vi erano quindi
elementi per ritenere, secondo l’evidenziato criterio probabilistico, che fosse stato utilizzato
sangue infetto;
7. anche le censure che involgono il mancato esercizio dei poteri istruttori sono infondate; è
ben vero che, nel rito del lavoro, la necessità di assicurare un’effettiva tutela del diritto di
difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui
all’art. 111, secondo comma, Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU, comporta l’attribuzione
di una maggiore rilevanza allo scopo del processo – costituito dalla tendente finalizzazione
ad una decisione di merito – che impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere
il diritto di difesa della parte

(cfr. Cass. n. 18410 del 2013); tale principio rileva

significativamente in tema di acquisizione probatoria, traducendosi nel dovere del giudice di
pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito
– da qualunque parte processuale provenga – con una valutazione non atomistica ma globale
nel quadro di una indagine unitaria ed organica, suscettibile di sindacato, in sede di
legittimità, per vizi di motivazione e, ove ne ricorrano gli estremi, per scorretta applicazione
delle norme riguardanti l’acquisizione della prova (cfr. Cass. n. 21909 del 2013); tuttavia, la
maggiore pregnanza del dovere del giudice di pronunciare nel merito della causa sulla base
del materiale probatorio ritualmente acquisito non interferisce direttamente sulle regole che
presiedono all’esercizio del potere istruttorio d’ufficio (artt. 421 e 437 c.p.c.);
8. l’esercizio di tale potere presuppone la ricorrenza di alcune circostanze: l’insussistenza di
colpevole inerzia della parte interessata, con conseguente preclusione per inottemperanza
ad oneri procedurali; l’opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente
delineato dalle parti; l’indispensabilità dell’iniziativa ufficiosa, volta non a superare gli effetti
inerenti ad una tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza probatoria totale sui
fatti costitutivi della domanda, ma solo a colmare eventuali lacune delle risultanze di causa
(Cass. n. 5878 del 2011; n. 154 del 2006);

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effettuate; se ne desume – in difetto di contrarie risultanze- che erano stati rispettati gli

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9. nel caso di specie, il rigetto delle istanze istruttorie è basato sul rilievo che non vi erano
elementi atti ad accreditare un plausibile dubbio circa gli esiti delle indagini eseguite sui
donatori e sul sangue utilizzato per la trasfusione, da ritenere eseguita (in difetto di
contrarie emergenze processuali) in corretto adempimento di quanto prescritto dalla
normativa all’epoca vigente in tema di verifiche e controlli in materia di emotrasfusioni;
10.

né è fondata la censura secondo cui il Giudice di merito avrebbe dovuto approfondire la

circostanza, dedotta dal ricorrente, secondo cui vi sarebbero state altre trasfusioni, oltre
quella attestata nella cartella clinica in atti;

fatto corretta applicazione della giurisprudenza di questa Corte secondo cui le attestazioni
contenute in una cartella clinica, redatta da un’azienda ospedaliera pubblica, o da un ente
convenzionato con il servizio sanitario pubblico, hanno natura di certificazione
amministrativa, cui è applicabile lo speciale regime di cui agli artt. 2699 e segg. c.c., per
quanto attiene alle trascrizioni delle attività espletate nel corso di una terapia o di un
intervento, restando, invece, non coperte da fede privilegiata le valutazioni, le diagnosi o,
comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essa espresse (Cass. n.25568 del
2011 e n. 7201 del 2003); poiché l’esecuzione di una trasfusione attiene ad attività
espletate nel corso di una terapia o di un intervento e non riguarda valutazioni o diagnosi,
correttamente è stato attribuito valore probatorio privilegiato – fino a querela di falso – a tali
risultanze;
12. se è vero che il disposto dell’art. 2700 c.c., secondo cui l’atto pubblico fa piena prova,
fino a querela di falso, dei fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua
presenza o da lui compiuti, non preclude l’indagine su circostanze o fatti che nel medesimo
atto non risultino né positivamente né negativamente acquisiti (Cass. 25811 del 2013),
l’attestazione nella cartella clinica di una sola somministrazione di sangue costituisce
un’attestazione positiva delle terapie e trattamenti praticati sul paziente, che esclude la
possibilità di un fatto diverso, ossia la presenza di un numero diverso di trasfusioni;
13. infine, il vizio di motivazione di cui all’art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c. deve emergere
direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa,
inammissibile in sede di legittimità (Cass. n. 24434 del 2016 , n. 14267 del 2006). Il ricorso
in esame sollecita, nella forma apparente della denuncia di error in iudicando, un riesame
dei fatti, inammissibile in questa sede, mentre le censure per vizi di motivazione non
vertono su errori di logica giuridica, ma denunciano un’errata valutazione del materiale
probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti, con l’inammissibile intento di
sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del
merito (v. pure Cass. n. 27197 del 2011 e n. 24679 del 2013);

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11. la Corte di appello, nell’attribuire valore probatorio privilegiato a tale documento, ha

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14. quanto all’onere delle spese, alla fattispecie è applicabile l’art. 152 disp. att. c.p.c., nel
testo modificato dall’art. 42, comma 11 del d.l. n. 269 del 2003, convertito nella legge n.
326 del 2003, secondo cui “L’interessato che, con riferimento all’anno precedente a quello di
instaurazione del giudizio, si trova nelle condizioni indicate nel presente articolo formula
apposita dichiarazione sostitutiva di certificazione nelle conclusioni dell’atto introduttivo e si
impegna a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti
di reddito verificatesi nell’anno precedente”. Tale norma si interpreta nel senso che l’onere
autocertificativo imposto alla parte ricorrente deve essere assolto con il ricorso introduttivo

reiterazione, anche nelle fasi successive, valendo, fino all’esito definitivo del processo,
l’impegno di comunicare le variazioni reddituali eventualmente rilevanti che facciano venire
meno le condizioni di esonero (cfr. ex plurimis, Cass. n. 10875 del 2009; Cass. n. 17197 del
2010; Cass. nn. 13367 e 16284 del 2011);
15. nel caso in esame, i Giudici di merito di primo e secondo grado hanno compensato tra le
parti le spese di lite e l’odierno ricorrente non allega, nel ricorso per cassazione, di avere
provveduto al suddetto onere autocertificativo nel ricorso di primo grado; pertanto, difetta
uno dei presupposti per l’esonero dal pagamento delle spese di cui all’art. 152 disp. att.
c.p.c. e resta assorbita ogni ulteriore verifica riguardante la sussistenza del requisito
reddituale; ne consegue che il ricorrente va condannato al pagamento delle spese nei
confronti del Ministero della Salute, in applicazione della regola della soccombenza;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in
1.500,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso nella Adunanza camerale del 18 luglio 2017

del giudizio di primo grado ed esplica la sua efficacia, senza necessità di ulteriore

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