Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27466 del 30/10/2018

Cassazione civile sez. III, 30/10/2018, (ud. 17/07/2018, dep. 30/10/2018), n.27466

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

T.S., elettivamente domiciliato in ROMA, P.ZA COLA

DI RIENZO 92, presso lo studio dell’avvocato NARDONE ELISABETTA,

rappresentato e difeso dall’avvocato SERRA ANGELO giusta procura

speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

G.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ITALO CARLO

FALBO 22, presso lo studio dell’avvocato COLUCCI ANGELO,

rappresentato e difeso dall’avvocato DE GIORGIO MARIO giusta procura

speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 284/2016 della CORTE D’APPELLO SEZ. DIST. di

TARANTO, depositata il 28/07/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

17/07/2018 dal Consigliere Dott. POSITANO GABRIELE.

Fatto

RILEVATO

Che:

con ricorso del 5 ottobre 2011 davanti al Tribunale di Taranto, Sezione Distaccata di Martina Franca, T.S. esponeva che in data 1 maggio 1987 aveva preso in locazione da L.V., con tre distinti contratti, altrettanti locali per il canone complessivo di Lire 600.000 mensili, pretendendo la sottoscrizione di un unico contratto con decorrenza 1 gennaio 1999 per l’importo complessivo di Lire 2300.000, successivamente e progressivamente aumentato ad Euro 1428,64 a partire dal mese di febbraio 2010. Lamentava che la pattuizione contenuta nel contratto unico doveva considerarsi nulla ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 79 perchè attribuiva al locatore un canone più elevato rispetto a quello dovuto. Pertanto, chiedeva condannarsi G.V., quale usufruttuaria dei locali in questione per donazione del L., deceduto nel (OMISSIS), alla restituzione delle somme percepite indebitamente, oltre al deposito cauzionale versato nel 1968. La G. eccepiva la legittimità dell’operazione commerciale poichè la proroga del contratto del 1999 nei 12 anni successivi aveva determinato un vantaggio per il conduttore;

il Tribunale di Taranto, con sentenza del 23 febbraio 2016, dichiarava la nullità, sia del contratto di risoluzione consensuale del 31 dicembre 1998, che di quello successivo, unico, del 1 gennaio 1999 in quanto il rapporto inerente i tre precedenti contratti del 1987 era già rinnovato, per mancanza di disdetta, sino al 30 aprile 2005 e non ricorreva l’ipotesi di novazione del rapporto. Conseguentemente determinava il canone mensile in relazione ai diversi periodi e condannava la G. al pagamento, a titolo di ripetizione dell’indebito, di Euro 70.200;

avverso tale decisione proponeva appello la G. e resisteva T.. La Corte d’Appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, con sentenza del 28 luglio 2016 accoglieva l’appello e, in riforma della sentenza gravata, rigettava la domanda di Sebastiano T. di dichiarazione di nullità del contratto del 1 gennaio 1999, con riferimento all’entità del canone e conseguentemente eliminava la condanna di G. alla restituzione delle somme percepite. Regolamentava le spese di lite e di consulenza tecnica;

avverso tale decisione T.S. propone ricorso per cassazione che illustra con memoria e resiste con controricorso G.V..

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo lamenta la violazione dell’art. 434 c.p.c., come modificato dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, in relazione al tiro art. 360 c.p.c., n. 3 e la conseguente improponibilità dell’appello. In particolare, la G. non menziona le parti della sentenza che intende impugnare limitandosi a contestare la parte decisoria e non anche la parte motivazionale. Ai fini dell’ammissibilità occorre circoscrivere l’ambito del giudizio di gravame con riferimento anche ai passaggi argomentativi della sentenza impugnata in modo che il giudice possa avere immediata contezza delle ragioni senza dispersive ricerche. In sostanza non è ravvisabile alcun progetto alternativo alla decisione gravata;

il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza ex art. 366 c.p.c., n. 6 poichè le censure sono astratte e fondate su una valutazione teorica del contenuto dell’art. 434 c.p.c. mentre non vi è alcun riferimento, richiesto ai fini della ammissibilità del ricorso, sia al contenuto concreto dell’atto di appello, sia alle argomentazioni della sentenza del Tribunale. Elementi, entrambi, indispensabili al fine di consentire alla Corte di legittimità di operare una valutazione in ordine al rispetto della citata disposizione processuale;

peraltro, la censura è destituita di fondamento perchè l’art. 434 c.p.c. come interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte non richiede affatto che l’appellante prospetti un progetto alternativo di sentenza”. Al contrario, le Sezioni Unite hanno affermato che gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Sez. U -, Sentenza n. 27199 del 16/11/2017, Rv. 645991 – 01). Profili questi, sostanzialmente posti a fondamento della decisione di rigetto dell’eccezione di inammissibilità dell’appello adottata dalla Corte territoriale;

con il secondo motivo deduce la violazione della L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 79, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. In particolare, sulla base delle risultanze processuali e delle deposizioni testimoniali era emerso, come rilevato dal Tribunale, che attraverso la conclusione dell’unico contratto non vi era stata alcuna reale modifica del contenuto negoziale dei tre precedenti negozi, se non con riferimento alla misura del canone e la nuova decorrenza della durata del contratto, con la conseguenza che avrebbe dovuto affermarsi la nullità dello stesso ai sensi del citato art. 79;

il motivo è inammissibile per difetto di specificità poichè non coglie la ratio decidendi della Corte territoriale la quale ha evidenziato che, alla data del 31 dicembre 1998, T. aveva già maturato il diritto alla rinnovazione dei tre contratti del 1987 per mancanza di disdetta. Pertanto le parti, nel decidere di risolvere i predetti contratti, stabilivano di rinunziare alla rinnovazione del contratto. Tale decisione è legittima e non viola la citata L. n. 392 del 1978, art. 79 e rende inutile la verifica sull’ipotesi di novazione, poichè, in definitiva, i precedenti contratti erano oramai estinti;

in ogni caso è inammissibile per difetto di autosufficienza, poichè non trascrivere il contenuto del contratto al fine di verificare la correttezza della tesi del ricorrente, secondo cui non vi sarebbe stata che una semplice prosecuzione del rapporto negoziale tra i tre contratti del 1987 e l’unico contratto di locazione del 1999;

il motivo è, altresì, inammissibile poichè si tratta di una valutazione di merito, quella relativa alla circostanza se, come evidenziato dallo stesso ricorrente, sulla base della documentazione in atti e, in particolare delle dichiarazioni dei testi escussi, è emersa l’assenza di profili di novità tra la regolamentazione negoziale precedente e quella successiva. Ciò in quanto si richiede al giudice di legittimità di rivalutare il materiale probatorio al fine di verificare la correttezza della tesi sostenuta dalla Corte territoriale;

ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza. Infine, va dato atto – mancando ogni discrezionalità al riguardo (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra molte altre: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione e per il caso di reiezione integrale, in rito o nel merito.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 7.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta della Corte Suprema di Cassazione, il 17 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018

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