Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27466 del 20/11/2017


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Civile Ord. Sez. L Num. 27466 Anno 2017
Presidente: D’ANTONIO ENRICA
Relatore: PERINU RENATO

ORDINANZA

sul ricorso 21259-2012 proposto da:
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE C.F.
80078750587, in persona del Presidente e legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato
in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura
Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli
Avvocati VINCENZO TRIOLO, ANTONIETTA CORETTI,
EMANUELE DE ROSE, giusta delega in atti;
– ricorrente –

2017

contro

3105

PESCE

PAOLO, elettivamente

domiciliato in

ROMA,

FLAM1NIA 195, presso lo studio dell’avvouaLu

VIA

SERGIO

VACIRCA, che lo rappresenta e difende, giusta delega

Data pubblicazione: 20/11/2017

in atti;
– controricorrente –

avverso la sentenza n. 240/2012 della CORTE D’APPELLO

di BRESCIA, depositata il 17/05/2012 R.G.N. 57/2012.

RILEVATO IN FATTO
che, con sentenza depositata il 17 maggio 2012 la Corte d’appello di
Brescia riformava la pronuncia del giudice di primo grado, che aveva rigettato
la domanda presentata da Pesce Paolo, e tendente ad ottenere dall’INPS, quale
gestore del Fondo di garanzia ex I. n. 297/1982 e succ. mod. e integraz., il TFR
maturato alle dipendenze del proprio datore di lavoro, e non riscosso
nonostante lo stesso avesse, infruttuosamente, promosso un’esecuzione
mobiliare;
che, la Corte d’appello, per quanto qui rileva, fondava la pronuncia di
riforma del giudice di prime cure sul presupposto che nel caso in cui il datore di
lavoro non sia soggetto a procedure concorsuali, le ricerche e gli accertamenti
di cui il lavoratore é onerato al fine di soddisfare i presupposti di accertamento
dello stato di insolvenza, non possono essere tali da rendere eccessivamente
difficoltoso l’esercizio del diritto e dell’azione o da risultare incoerenti con la
speciale rilevanza costituzionale dei crediti di lavoro e di previdenza (artt. 24 e
38 Cost.); nella specie la Corte territoriale ha ritenuto che la proprietà di quote
o porzioni di immobili attribuibili al datore di lavoro (1/15 di una abitazione di
tipo rurale composta da un solo vano, di 2/150 di una abitazione popolare
composta di tre vani e di 2/750 di un terreno di 50 metri quadri)
rappresentassero quote immobiliari di così difficile e costoso realizzo, nella fase
esecutiva, tali da integrare un onere di diligenza non esigibile dal lavoratore;
che, avverso tale pronuncia ricorre per cassazione l’INPS, affidandosi a
due motivi strettamente connessi, con i quali denuncia in relazione all’art. 360,
n. 3, c.p.c., la violazione dell’art. 2, comma 5 della legge n. 297/1982, nonché
l’ulteriore profilo di censura per vizio di motivazione in relazione all’art. 360,
n.5, c.p.c.;
che, Pesce Paolo difende con controricorso; ed entrambe le parti hanno
presentato memoria.

Udienza del 5 luglio 2017 – Aula B
n. 29 del ruolo – RG n. 21259/12
Presidente: D’Antonio – Relatore:Perinu

I.

CONSIDERATO IN DIRITTO

che, con essi il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2, commi
1,2,3,5 e 7, I. n. 297/1982,sotto un duplice profilo: a) per avere la Corte
territoriale ritenuto ammissibile l’intervento del Fondo di garanzia in favore del
Pesce, per il pagamento del TFR e delle ultime tre mensilità, nell’ipotesi quale
quella del caso in trattazione, in cui il datore di lavoro insolvente, pur essendo
astrattamente fallibile, non sia stato oggetto di declaratoria fallimentare, in
quanto il lavoratore aveva omesso di presentare apposita istanza di fallimento;
b) per avere la Corte di merito, violato la disposizione dell’art. 2, comma 5, I.
n. 297/1982, atteso che tale disposizione, nel caso quale quello di specie, di
insolvenza del datore di lavoro assoggettabile in via di principio alla procedura
fallimentare, ma, che in concreto non possa esserlo per ragioni ostative di
carattere oggettivo, richiede per l’accesso alle prestazioni del Fondo di garanzia
che il lavoratore abbia esperito infruttuosamente una procedura di esecuzione;
che, la “ratio decidendi”, posta a fondamento della sentenza oggetto di
impugnazione nel presente giudizio, si basa sulla configurabilità, ai sensi di
quanto prevede la I. n. 297/1982, di un accollo cumulativo ex lege, in forza del
quale il Fondo di garanzia, quale soggetto accollante, assume in via sussidiaria
e solidale, la medesima obbligazione del datore di lavoro, rimasta inadempiuta,
e sulla sussistenza del correlato presupposto dato dalla necessità, per
legittimare l’intervento del Fondo, delle condizioni per l’esperimento fruttuoso
di una procedura esecutiva;
che, approfondendo tale ultimo profilo, la Corte di merito, ha ritenuto non
potersi considerare esistente la suddetta condizione (possibilità di promuovere,
da parte del lavoratore una azione esecutiva che possa avere un esito
fruttuoso ), qualora, come nella specie, lo stesso debba agire per un credito di
valore irrisorio , e di difficile realizzo, stante la composizione, notevolmente
frazionata delle quote di immobili da sottoporre ad esecuzione forzata;
che, al riguardo, il Collegio ritiene di dover dare continuità a quell’indirizzo
giurisprudenziale ( ex plurimis v. sent. n. 7585 del 2011, n. 15662 del 2010, n.
1178 del 2009, n. 7466 del 2007) di questa Corte, secondo il quale una lettura
della I. n. 297/1982, orientata nel senso voluto dalla direttiva CE n. 987 del
1980 consente, secondo una ragionevole interpretazione, l’ingresso ad
un’azione nei confronti del Fondo di garanzia, quando l’imprenditore non sia in

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che, entrambi i primi due motivi, da esaminare congiuntamente, per la
loro connessione, s’appalesano infondati;

concreto assoggettato al fallimento e l’esecuzione forzata possa rivelarsi
infruttuosa;

che, tale interpretazione, rilevante anche nel caso di specie, non solo
valorizza una situazione analoga ad una di quelle specificamente previste dalla
direttiva CE, ma trova anche piena giustificazione nella facoltà data dalla
direttiva comunitaria ai legislatori nazionali di assicurare la tutela dei lavoratori
anche in casi di insolvenza accertati con modalità e in sedi diverse da quelle
tipiche delle procedure concorsuali;
che, il lavoratore potrà, dunque, giovarsi del meccanismo di cui all’art. 2,
5 comma, I. n. 297/1982, dimostrando di avere esperito infruttuosamente una
procedura di esecuzione e, nel caso in cui si prospetti la possibilità di ulteriori
forme di esecuzione, di aver promosso tutte quelle che, secondo l’ordinaria
diligenza, si prospettino fruttuose, non essendo egli tenuto ad esperire azioni
esecutive che appaiano infruttuose o aleatorie, in un raffronto tra i loro costi
certi e i benefici futuri, valutati secondo un criterio di probabilità (cfr. Cass. n.
11379/2008, Cass. n. 14447/2004);
che, avuto riguardo a tale ultimo profilo, che impinge direttamente
sull’attuale “thema decidendum”, occorre evidenziare come l’osservanza del
canone di “ordinaria diligenza” non possa comportare, per il lavoratore
l’obbligo di avviare procedure esecutive che siano “ictu oculi” ragionevolmente
inidonee, al fine di realizzare la posizione di vantaggio che l’ordinamento gli
garantisce;
che, tale esegesi dell’art. 2, comma 5, I. n. 297/1982 trova puntuale
conferma nella sua “ratio legis” finalizzata a consentire al lavoratore,
notoriamente soggetto debole del rapporto di lavoro, di evitare inutili e
dispendiose azioni esecutive, e nel contempo di assicurare allo stesso, nel più
breve tempo possibile, tramite l’intervento di un soggetto diverso dall’obbligato
principale, il pagamento del credito maturato e non adempiuto;
che, la sentenza impugnata in questa sede appare, quindi, in linea con i
principi di diritto sopra richiamati, atteso che , come rilevato in fatto, nella
specie, non poteva, ragionevolmente, addebitarsi al lavoratore l’onere di
avviare una procedura esecutiva di difficile realizzo, in quanto avente ad

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che, infatti, l’espressione “non soggetto alle disposizioni del r.d. n. 267 del
1942” va interpretata nel senso che l’azione della I. n. 297/1982, ex art. 2,
comma 5, trova ingresso quante volte il datore di lavoro non sia assoggettato a
fallimento, vuoi per le sue condizioni soggettive vuoi per ragioni ostative di
carattere oggettivo;

oggetto quote esigue di beni immobili di scarso valore patrimoniale rispetto alle
onerose spese relative all’esperimento della procedura esecutiva;

che; alla stregua delle argomentazioni che precedono deve concludersi
per l’infondatezza delle doglianze mosse in ricorso nei confronti dell’impugnata
sentenza;
che, pertanto, il ricorso va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità
seguono la soccombenza e si liquidano a favore del difensore antistatario del
controricorrente come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, condanna parte ricorrente alla rifusione delle
spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in euro 2200,00, per compensi
professionali, ed in euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura pari
al 1 5 % ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 5.7.2017.

che; il profilo di censura per vizio di motivazione dedotto con il secondo
motivo, contiene solo la rubrica formale della norma (art. 360, n.5, c.p.c.) e
ciò lo rende inammissibile, essendo il giudizio di cassazione un giudizio a critica
vincolata, nel quale si richiede che i motivi di ricorso siano specifici, e quindi
dotati di un contenuto identificativo che consenta di valutare se il vizio
denunciato rientri nelle categorie logiche di censura enucleate dal codice di
rito,

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