Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27461 del 20/11/2017


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Civile Ord. Sez. L Num. 27461 Anno 2017
Presidente: AMOROSO GIOVANNI
Relatore: AMENDOLA FABRIZIO

ORDINANZA

sul ricorso 17522-2012 proposto da:
PERRUCCI BIANCA MARIA C.F. PRRBCM67D45H5011, TADDEI
VALENTINA TDDVNT79A48H501Y, MARANGIO DANIELA,
elettivamente domiciliate in ROMA, VIALE GIUSEPPE

MAllINI 123, presso lo studio dell’avvocato BENEDETTO
SPINOSA, Che le rdppru.scHLa

e dirench7 uníLamentn

all’avvocato ERASMO PATRIZIO CINQUANTA,

giusta delega

in atti;
– ricorrente –

2017
contro

2991
ACEA S.P.A.,

in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G.
FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO

Data pubblicazione: 20/11/2017

MARESCA, che la rappresenta e difende, giusta delega
in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 5286/2011 della CORTE
D’APPELLO di ROMA, depositata il 07/07/2011 R.G.N.

6 06/2008.

R.G. n. 17522/2012

RILEVATO

che con sentenza del 7 luglio 2011 la Corte di Appello di Roma, in riforma della
pronuncia di primo grado, ha revocato i decreti ingiuntivi opposti dalla ACEA Spa
nei confronti di Daniela Marangio, Bianca Maria Perrucci e Valentina Taddei,
aventi ad oggetto le somme richieste dalle lavoratrici per il mese di marzo 2007,

rapporto di lavoro subordinato con l’ACEA, in conseguenza della illegittimità
dell’appalto con la Cos Communication Spa, avevano continuato a lavorare per
quest’ultima perché la prima società, nonostante la messa in mora, non aveva
ottemperato alla pronuncia giudiziale;

che la Corte territoriale, premesso come “la violazione del diritto all’esecuzione
della prestazione comporta il diritto al risarcimento del danno, in misura pari alla
retribuzione, ond’è che entra il gioco

l’aliunde perceptum”,

ha ritenuto

“conseguentemente infondata la tesi degli opposti, secondo cui gli stessi
avrebbero diritto al pagamento della retribuzione a seguito dell’offerta della
prestazione e della conseguente costituzione in mora, anche continuando di fatto
ad espletare la propria attività lavorativa presso altra azienda, alla quale rendono
prestazioni della stessa natura di quelle che dovranno offrire all’Acea, con
insussistenza di pregiudizio economico”;

che avverso tale sentenza le lavoratrici in epigrafe hanno proposto ricorso
affidato ad un unico motivo, articolato in duplice censura, cui ha resistito con
controricorso la società intimata;

CONSIDERATO

che il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione di legge, facendo
riferimento sia agli artt. 1453 e 1460 c.c. che all’art. 1207 c.c., “in relazione al
disposto di cui all’art. 360 numeri 3 e 5 c.p.c.”, per avere la Corte di Appello
ritenuto “che si versasse in un caso di risarcimento del danno e non di
adempimento” di un credito retributivo, nonostante fosse incontestato “che la
mancata prestazione del lavoro fosse imputabile al datore di lavoro”;

che il motivo è infondato in ragione del principio di diritto espresso da questa
Corte e condiviso dal Collegio con riferimento all’ipotesi di invalidità di cessione

epoca in cui, benché fosse stata dichiarata in altro giudizio la sussistenza di un

R.G. n. 17522/2012

d’azienda in cui il lavoratore continua a prestare attività lavorativa in favore del
cessionario, la quale ipotesi presenta evidenti tratti di contiguità con la vicenda
all’esame del Collegio in cui le lavoratrici, nonostante la declaratoria di
illegittimità dell’appalto, per quanto accertato dalla Corte territoriale, hanno nel
mese controverso comunque prestato attività lavorativa presso l’altra azienda
“con insussistenza di pregiudizio economico” (per una fattispecie sostanzialmente
sovrapponibile alla presente v. Cass. sez. VI n. 25933 del 2016, che ha altresì

sofferti, tra i quali l’inferiorità di quanto ricevuto rispetto alla retribuzione che
sarebbe loro spettata alle dipendenze della società committente);

che infatti è stato statuito: “in caso di dichiarazione di nullità della cessione di
ramo di azienda, il cedente, che non provveda al ripristino del rapporto di lavoro,
è tenuto a risarcire il danno secondo le ordinarie regole civilistiche, sicché la
retribuzione, corrisposta dal cessionario al lavoratore, deve essere detratta
dall’ammontare del risarcimento” (Cass. n. 18955 del 2014; Cass. n. 14761 del
2014; Cass. n. 19490 del 2014; Cass. n. 6756 del 2015; Cass. n. 7281 del
2015; v. anche Cass. sez. VI, n. 24817, n. 11095, n. 11098 e n. 11103 del 2016,
le quali ultime hanno altresì ritenuto che non sussistessero i presupposti per la
rimessione della causa al primo presidente, per l’eventuale assegnazione alle
sezioni unite, perché la qualificazione, in termini risarcitori, delle erogazioni
patrimoniali a carico del datore di lavoro, come conseguenza dell’obbligo di
ripristino del posto di lavoro illegittimamente perduto, è stata costantemente
riaffermata da questa Corte di legittimità in numerose sentenze, anche recenti);

che sin da Cass. n. 19740 del 2008 la questione degli effetti della dichiarazione
di nullità della cessione di ramo d’azienda è stata risolta nel senso che
l’obbligazione del cedente che non proceda al ripristino del rapporto di lavoro
deve essere qualificata come risarcimento del danno, con la conseguente
detraibilità dell’aliunde perceptum;

che costituisce infatti ius receptum quello

secondo cui il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive nel
quale l’erogazione del trattamento economico in mancanza di lavoro costituisce
un’eccezione, che deve essere oggetto di un’espressa previsione di legge o di
contratto, ciò che avviene ad esempio nei casi del riposo settimanale (art. 2108
cod. civ.) e delle ferie annuali (art. 2109 cod. civ.); in difetto di un’espressa
previsione in tal senso, la mancanza della prestazione lavorativa dà luogo anche

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precisato come sul lavoratore incomba l’onere di dedurre e dimostrare i danni

R.G. n. 17522/2012
nel contratto di lavoro ad una scissione tra sinallagma genetico (che ha riguardo
al rapporto di corrispettività esistente tra le reciproche obbligazioni dedotte in
contratto) e sinallagma funzionale (che lega invece le prestazioni intese come
adempimento delle obbligazioni dedotte) che esclude il diritto alla retribuzione corrispettivo e determina, a carico del datore di lavoro che ne è responsabile,
l’obbligo di risarcire i danni, eventualmente commisurati alle mancate
retribuzioni; proprio perché si tratta di un risarcimento del danno – ed in assenza

i normali criteri fissati per i contratti in genere, con la conseguenza che
dev’essere detratto l’aliunde perceptum che il lavoratore può aver conseguito
svolgendo una qualsivoglia attività lucrativa (cfr. Cass. n. 8514 del 2015);

che, pertanto, il ricorso va respinto, con spese liquidate secondo soccombenza
come da dispositivo,

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna le ricorrenti al pagamento delle spese
liquidate in euro 5200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come
per legge e spese generali al 15%.

Così deciso nella Adunanza camerale del 28 giugno 2017

di una disciplina specifica per la determinazione del suo ammontare – soccorrono

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