Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27456 del 29/12/2016


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Cassazione civile, sez. un., 29/12/2016, (ud. 06/12/2016, dep.29/12/2016),  n. 27456

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CANZIO Giovanni – Primo Presidente –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di sez. –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente di sez. –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – rel. Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso (iscritto al n.r.g. 19138/15) proposto da:

B.M.F., ((OMISSIS)) rappresentata e difesa dall’avv.

Aurelio Brienza, giusta procura a margine del ricorso, con domicilio

eletto presso lo Studio dell’avv. Andrea Manzi in Roma, via Federico

Confalonieri n. 5;

– ricorrente –

Nei confronti di:

Comune di Milano, (c.f. (OMISSIS)), In persona del Sindaco pro

tempore P.G.; rappresentato e difeso, per procura

speciale in calce al controricorso, dagli avv.ti Maria Rita Surano

ed Antonello Mandarano dell’avvocatura comunale di Milano nonchè

dall’avv. Raffaele Rizzo, presso il cui studio in Roma, Lungotevere

Marzio n. 3 è elettivamente domiciliato;

– Controricorrente –

avente ad oggetto ricorso per motivi di giurisdizione contro la

sentenza n 3073/2012 della Corte di Appello di Milano, pubblicata il

13 giugno 2013 e non notificata;

– Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 6

dicembre 2016 dal Consigliere Relatore Dott. Bruno Bianchini;

– uditi gli avv.ti Manzi – con delega dell’avv. Brienza – per la

ricorrente e Pozzi con delega degli avv.ti Surano e Mandarano per

il controricorrente;

udite il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Comune di Milano, con atto notificato il 14 febbraio 2005, citò innanzi al locale Tribunale B.M.F., chiedendo che fosse dichiarata l’illegittimità dell’occupazione da parte della stessa di un’area adiacente a via (OMISSIS) e che fosse condannata al rilascio dell’immobile. A sostegno della domanda espose: che l’area era stata occupata sin dal 1969 dal defunto marito della convenuta, C.F., per l’esercizio di un parcheggio per TIR; che nel 1974 il rapporto era stato regolarizzato sulla base di un contratto di locazione, scaduto l’anno successivo e non rinnovato; che la coppia aveva poi occupato anche altra area limitrofa a quella oggetto di convenzione e vi aveva abusivamente edificato una palazzina per abitazione ed un ristorante.

La B. si costituì, opponendosi all’accoglimento delle domande, esponendo: che l’occupazione si era protratta negli anni con il pieno consenso dell’Ente territoriale; che il contratto di locazione si era prorogato tacitamente per effetto della percezione dei canoni da parte del locatore; che un ordine di demolizione delle opere edilizie emanato dal Comune nel 1999, così come un precedente ordine di rilascio del 1983, erano stati sospesi con ordinanza del TAR di Milano; che tale ordinanza, sin tanto che non fosse stata revocata, avrebbe costituito titolo legittimo per permanere nell’immobile.

L’adito Tribunale respinse le domande del Comune, giudicando che, in applicazione dell’art. 823 c.p.c., comma 2, per la tutela dei beni demaniali – a cui dovevano essere equiparati anche quello patrimoniali dell’ente territoriale – una volta scelta la via dell’autotutela amministrativa (con l’ordine di demolizione del 1999, funzionale alla futura utilizzazione dell’area per ragioni di viabilità e per costituirvi un centro cucine per le mense comunali, conforme ad analoga iniziativa nel 1983) e incardinatasi la tutela cautelare innanzi al giudice amministrativo (adito dalla B. con ricorso accolto nell’anno 2000), sarebbe stata preclusa, all’ente territoriale, una tutela di tipo privatistico.

La Corte di Appello di Milano, pronunciando sentenza n. 3073 del 2012, accolse invece la domanda del Comune ritenendo: a – che l’area in questione rientrasse nella categoria dei beni disponibili dell’ Ente, a nulla rilevando le finalità attinenti al preventivato utilizzo pubblico che stavano alla base dell’ordinanza di sgombero, atteso che per far sorgere il nesso tra attività e scopo pubblicistico (ai fini del riparto di giurisdizione e anche della scelta alternativa del mezzo di tutela) sarebbe stata necessaria la attuale destinazione a servizio pubblico, con la conseguenza che l’ordinanza di sgombero, non essendo ancora stato realizzato il ricordato centro cucine, rientrava nei poteri di autotutela privata; b – che l’attività innanzi al giudice amministrativo – intrapresa dalla B. – non potesse essere considerata ai fini della proponibilità della domanda innanzi al giudice ordinario, a causa della mancata presentazione della c.d. istanza di prelievo e dunque della verosimile perenzione del relativo giudizio amministrativo e che comunque l’accoglimento della sospensiva non comportava alcun accertamento di merito (sulla legittimità della condotta o sulla qualificazione del rapporto); c – che la tolleranza mostrata in passato dall’Ente territoriale alla permanenza in loco non potesse far sorgere alcun legittimo affidamento della B. circa la legittimità della sua condotta.

La Corte del merito liquidò poi il danno subito dall’amministrazione comunale a seguito dell’effettuazione di apposita consulenza di ufficio.

Per la cassazione di tale decisione ha proposto la B. sulla base di due motivi; il Comune ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p. 1 – Con il primo motivo parte ricorrente fa valere genericamente la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1, attraverso la censura della violazione dei confini applicativi dell’art. 823 c.p.c., comma 2 nonchè delle norme sulla perenzione del giudizio amministrativo (L. n. 205 del 2000, art. 9 come modificato dal D.L. n. 112 del 2008, art. 54 e dalla L. n. 69 del 2009, art. 57, comma 1): assume in proposito che per riaffermare la giurisdizione ordinaria, la Corte di Appello, in modo del tutto arbitrario e d’ufficio, avrebbe statuito la perenzione dei giudizi nei quali erano state emesse le ordinanze di sospensiva del TAR nel 1983 e nel 2000, deducendo che non vi sarebbe stata la prova della presentazione di un’istanza di prelievo: in contrario contesta innanzi tutto il rilievo di ufficio della questione, essendo rimessa all’esclusiva decisione della parte la valutazione se proseguire nel giudizio amministrativo o meno; ribadisce altresì la tesi della insussistenza di una illecita occupazione sin tanto che non sia stato emesso ulteriore provvedimento di sgombero dell’area – in effetti emanato il 7 luglio 2011 e sul quale, in sede di nuova istanza di sospensiva, il TAR aveva presupposto la propria giurisdizione.

p. 1.a – I profili sopra enunciati sono privi di fondamento in quanto, innanzi tutto, come già rilevato dalla Corte di Appello, la res controversa non involgeva il riparto tra giurisdizioni bensì la proponibilità della domanda e in particolare la questione se potesse affermarsi che la scelta del Comune di agire in autotutela – della proprietà e non già del solo possesso – con attività provvedimentale, costituisse ostacolo all’esperimento, a distanza di anni, di una diversa e successiva forma di reazione innanzi al giudice ordinario, al fine di individuare la priorità della scelta alternativa contemplata nell’art. 823 c.c., comma 2.

p.1.a.1 – Erronea è comunque l’affermazione che la Corte di Appello – pur se non decisiva ai fini della, qui indagata, alternatività della tutela -, arrogandosi poteri del giudice amministrativo e prevaricando scelte della parte privata, abbia pronunciato la perenzione del ricorso amministrativo: va invece rilevato che la Corte del merito è pervenuta ad una semplice deduzione logica – che non è sfociata in alcun accertamento costitutivo della perenzione del processo amministrativo – basata sull’esame di dati temporali: dal momento che il ricorso della B. era collegato ad un provvedimento cautelare di sospensione da parte del TAR Lombardia del 2000 e che sino al 2011 non si aveva notizia di un’istanza di fissazione di udienza per il merito, era presumibile (nè il risultato al quale è pervenuto il ragionamento presuntivo è mai stato contestato dalla odierna ricorrente) che fosse decorso il termine quinquennale (dalla comunicazione della cancelleria dell’avviso di presentazione l’istanza de qua) per la perenzione automatica del giudizio amministrativo.

p. 1.b – Infondato è poi il ritenere che la sospensione dell’esecutività del provvedimento amministrativo “costituisse titolo” per continuare nella occupazione del terreno comunale, pur dopo la scadenza del termine della convenzione di affitto, atteso che il presupposto dell’emanazione dell’ordinanza cautelare – di cui non è neppure riportato il contenuto – non era la, sia pure temporaneamente delibata, legittimità del provvedimento stesso ed in quanto era tra le parti incontroversa la cessazione del rapporto privatistico – qualificato in termini di locazione dalla Corte del merito – in forza del quale la ricorrente era stata nella disponibilità dell’area, con la conseguenza della non suscettibilità del provvedimento di sospensione cautelare ad incidere su un rapporto ancora in essere ed interinalmente idoneo a produrre effetti.

p. 1.c – Per quanto poi concerne più specificamente il principio dell’alternatività della tutela descritto dall’art. 823 c.p.c., comma 2 ad esso, come visto, non può essere ricondotto – à sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 1 e art. 32 c.p.c.- alcun effetto di spostamento della giurisdizione, – in disparte la non specificità del ricorso (sub specie dell’osservanza del canone di autosufficienza) perchè non sono riportaligli estremi del provvedimento di rilascio-sgombero: invero l’alternatività in regime di esclusione poi presupposta dall’interpretazione proposta non trova fondamento testuale nella lettera dell’art. 823 c.p.c., comma 2 citato che si limita ad affermare la possibilità di entrambe le tutele ma non anche il principio che eletta una via non datur recursus ad alteram, laddove, come nel caso di specie, al momento dell’azione innanzi al giudice ordinario, il provvedimento espressione di pretesa autotutela amministrativa, aveva esaurito da tempo i propri effetti a causa del venir meno dello scopo pubblicistico al cui raggiungimento era stato adottato (costruzione di un centro cucine per mense comunali).

p. 1.d – Quanto appena sopra argomentato fa ritenere assorbito l’ulteriore profilo relativo alla questione che la mera emanazione di un ordine di rilascio di un immobile detenuto oramai senza titolo, non necessariamente può esser fatta rientrare nel concetto di autotutela amministrativa, atteso che se il bene rientra nel patrimonio disponibile dell’ente territoriale e se il titolo che aveva consentito l’utilizzo era inquadrabile nella fattispecie dell’affitto (locazione) come argomentato dalla Corte di Appello, l’ordine di rilascio doveva considerarsi non tanto mezzo di autotutela quanto piuttosto di reazione rispetto all’inadempimento del privato all’obbligo di rilasciare un bene altrui, una volta venuto meno il titolo che ne legittimava l’utilizzo (vedi per la riaffermazione del principio in ambito possessorio: Cass. Sez. Un n.24563/2010).

p. 2 Dalla riaffermata proponibilità della domanda anche risarcitoria innanzi al AGO, deriva la delibabilità del successivo motivo.

p. 2.a – Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 2043 e 2056 c.c. in relazione agli artt. 1223 e 1226 c.c., con riferimento alla valutazione e liquidazione del danno, nonchè anche alla ripartizione dell’onere probatorio in ordine alla sussistenza e consistenza del pregiudizio subito.

p. 2.a.1 – Sostiene in proposito la ricorrente che la Corte del merito avrebbe conferito affidabilità alle conclusioni del consulente tecnico, così basandosi su una “mera simulazione” di effetti dannosi di cui però non sarebbe stata fornita la minima dimostrazione; contesta in particolare che la mera sottrazione della disponibilità di un bene al proprietario determini l’insorgenza di un pregiudizio economico e che, soprattutto, il Comune abbia dimostrato i dati fattuali dai quali derivare l’esistenza di un pregiudizio; in positivo poi assume che la più volte ribadita necessità per il Comune di rientrare nella disponibilità del bene per adibirlo ad usi pubblici, sarebbe stata in logico contrasto con la ipotetica destinazione del bene ad un uso artigianale privato.

p. 2.a.2 – In punto di fatto emerge dalla lettura della gravata decisione che il giudice dell’impugnazione ha preso a base della redditività presunta dell’immobile quanto si sarebbe potuto ricavare dalle sole aree oggetto dell’originario contratiodi affitto e quindi prescindendo dagli immobili commerciali posti in loco – abusivamente – dalla B.; posto ciò il motivo è infondato perchè l’utilizzo delle presunzioni (o come si esprime la ricorrente: di un ragionamento per simulazioni) è stato convincentemente giustificato dalla Corte di Appello con il rilievo che il Comune aveva applicato il tariffario oggetto di due successive deliberazioni di Giunta (la n. 1292/1997 e la n. 2609/2003), dunque adottando un parametro predeterminato ed omogeneo rispetto alla pregressa destinazione delle aree: ne consegue che la censurata “simulazione” di calcolo aveva una sua base logica e come tale non è suscettibile di ulteriore delibazione in sede di legittimità.

p. 3 – Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese, liquidate come indicato in dispositivo; va altresì dato atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

LA CORTE

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente, al pagamento delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 7.200, di cui 200 per esborsi, in favore del controricorrente; dà altresì atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della stessa ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il 6 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 dicembre 2016

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