Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27448 del 29/12/2016

Cassazione civile, sez. VI, 29/12/2016, (ud. 08/11/2016, dep.29/12/2016),  n. 27448

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12898-2015 proposto da:

P.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CIPRO 77,

presso lo studio dell’avvocato GERARDO RUSSILLO, che lo rappresenta

e difende giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE SPA, (OMISSIS), società con socio unico, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, V.LE EUROPA 190, presso lo studio dell’avvocato ROBERTA

AIAZZI, rappresentata e difesa dall’avvocato STELLARIO VENUTI giusta

procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 9123/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata P11/11/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’08/11/2016 dal Consigliere Relatore Dott. FABRIZIA GARRI;

udito l’Avvocato Roberto Aiazzi (delega verbale) difensore della

controricorrente che si riporta agli scritti.

Fatto

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

La Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato la domanda di P.A. tesa all’accertamento dell’illegittimità del termine apposto al contratto intercorso con la società Poste Italiane ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001 e ss.mm., art. 2, comma 1 bis nel periodo dal 1 aprile al 30 settembre 2006.

Per la cassazione della sentenza ricorre P.A. che articola due motivi con i quali denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, artt. 1, e art. 2, comma 1 bis anche in relazione alla Direttiva 1999/70/CE e dell’art. 2, comma 1 bis con riguardo al rispetto del limite percentuale del 15% delle assunzioni a termine ed alla valutazione delle prove.

Poste Italiane s.p.a. si è difesa con contro ricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria con la quale ha ulteriormente illustrato le ragioni poste a fondamento del ricorso ed ha insistito nelle conclusioni già prese.

Tanto premesso il ricorso è manifestamente infondato.

Con riguardo alla denunciata violazione del D.Lgs. n. 68 del 2001 e ss.mm., art. 1 e art. 2, comma 1 bis e della direttiva 1999/70/CE va rammentato che le sezioni unite di questa Corte con recenti pronunce hanno affermato che le assunzioni a tempo determinato, effettuate da imprese concessionarie di servizi nel settore delle poste, che presentino i requisiti specificati dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis non necessitano anche dell’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo ai sensi dell’art. 1, comma 1 medesimo D.Lgs., trattandosi di ambito nel quale la valutazione sulla sussistenza della giustificazione è stata operata “ex ante” direttamente dal legislatore (cfr. Cass. s.u. 31 maggio 2016 n. 11374 ed anche nn. 13529, 13376 e 13375 del 2016).

L’orientamento espresso dalla citata sentenza delle sezioni unite, che affronta e risolve tutte le questioni prospettate anche con riguardo alla conformità della disciplina nazionale da applicare alla normativa comunitaria (cfr. in particolare i punti da 68 ad 80 della sentenza n. 11374 del 2016 cit.), va qui confermato e per l’effetto la sentenza della Corte di appello che a tali principi si era già uniformata deve essere sul punto confermata.

Ugualmente infondate sono le censure contenute nel secondo motivo di ricorso che investono la decisione nella parte in cui ha ritenuto che la società avesse dimostrato l’avvenuto rispetto della clausola di contingentamento.

Secondo la parte ricorrente la Corte territoriale avrebbe violato la norma del codice civile sulla distribuzione dell’onere della prova con riferimento al rispetto di tale clausola, cioè alla percentuale massima di assunzioni a tempo determinato fissata dalla legge ed in particolare sostiene che i giudici di appello, affermando che il lavoratore non avrebbe formulato alcuna eccezione in ordine al rispetto del limite percentuale imposto dalla legge, si sarebbero posti in contrasto con la giurisprudenza di legittimità per cui è onere del datore di lavoro, ex art. 2697 c.c., trattandosi di fatto costitutivo del potere di assumere a termine col regime di favore adottato, fornire la prova del rispetto della percentuale di contingentamento del quindici per cento.

Evidenzia che sul punto nessuna valida prova era stata fornita da chi ne era onerato e che in particolare non era stato verificato il rispetto della percentuale in rapporto all’organico aziendale inteso quale full time equivalent.

Orbene nella sentenza della Corte di appello non si sostiene nè che l’onere della prova del rispetto dei limiti in percentuale delle assunzioni a termine non fosse a carico del datore di lavoro, nè che il lavoratore ricorrente avesse l’onere di eccepire il superamento di detto limite e non avesse formulato tale eccezione.

La sentenza si limita a ricordare che il giudice di primo grado aveva omesso di esaminare le questioni attinenti l’avvenuto rispetto della clausola di contingentamento, l’effettuazione delle comunicazioni alle OO.SS. ed il documento di valutazione dei rischi e, nell’evidenziare che le censure formulate al riguardo non erano correlate alla sentenza impugnata, ha poi verificato che la società nel costituirsi in primo grado aveva allegato di aver rispettato le percentuali prescritte e di aver provveduto alle dovute comunicazioni allegando documentazione che non era stata oggetto di specifica contestazione da parte della ricorrente. Inoltre, con specifico riferimento alla clausola di contingentamento, ha verificato che qualunque fosse il criterio di computo dei lavoratori applicabile (per teste o full time equivalent comunque le percentuali di legge (15%) erano state in concreto rispettate precisando che nel computo dovevano essere inclusi tutti i lavoratori a prescindere dalle mansioni in concreto loro assegnate. Con riguardo alle comunicazioni alle OO.SS. ed al documento di valutazione dei rischi, poi, ha constatato che ne era stato documentalmente provato l’avvenuto rispetto.

In sostanza la Corte di merito, interpretando le censure quali riproposizioni delle difese già formulate in primo grado, le ha esaminate ed ha ritenuto provato il rispetto del limite relativo alla percentuale massima di assunzioni a termine previsto dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, sulla base della documentazione prodotta dalla società rispetto alla quale la ricorrente si era limitata ad una contestazione del tutto generica osservando che, a fronte della produzione di documentazione da parte della società oneratane, andava fatta applicazione della regola processuale secondo la quale, nel processo civile (così come nel rito del lavoro) non occorre la prova dei fatti che, allegati da una parte, non siano stati espressamente contestati dalla controparte (Cass. 4 dicembre 2007, n. 25269).

Passando quindi all’esame della documentazione versata in atti ha verificato, con valutazione di merito in questa sede non censurabile (nè specificatamente censurata) che il limite numerico di cui alla clausola di contingentamento risultava rispettato con riferimento all’applicazione del criterio “per teste” ovvero di quello full time equivalent, anche con riguardo all’accertamento della consistenza dell’organico complessivo dell’impresa e tale affermazione viene censurata apponendo che nel computo del personale dipendente si sarebbe dovuto anche tenere conto della tipologia di mansioni svolte dai dipendenti in servizio e da quelli da assumere a termine.

E tuttavia, come precisato da questa Corte in fattispecie analoghe, ai fini della valutazione del rispetto della percentuale del 15%, nulla la norma dispone in relazione alla tipologia delle mansioni esercitate dai dipendenti ai fini della possibilità di assunzione a termine e che una tale limitazione è estranea anche alle motivazioni adottate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 214 del 2009. In tale pronuncia, premesso che la disposizione in esame costituisce la tipizzazione legislativa di un’ipotesi di valida apposizione del termine, il giudice delle leggi ha affermato che siffatta valutazione, preventiva e astratta, non è manifestamente irragionevole, atteso che la garanzia alle imprese in questione, nei limiti percentuali previsti, di una sicura flessibilità dell’organico, è direttamente funzionale all’onere gravante sulle imprese stesse di assicurare lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali, nonchè la realizzazione e l’esercizio della rete postale pubblica i quali costituiscono attività di preminente interesse generale, ai sensi del D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 1, comma 1, (Attuazione della direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio). Il giudice delle leggi ha escluso la sussistenza di un profilo di incostituzionalità del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, rispetto ai principi di cui all’art. 3 Cost., avendo ritenuto non manifestamente irragionevole che, ad imprese tenute per legge all’adempimento di simili oneri sia riconosciuta una certa flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto a tempo determinato. E ciò è tanto più valido in quanto il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, nell’imporre alle aziende di comunicare ai sindacati le richieste di assunzione a termine, prevede un meccanismo di trasparenza che agevola il controllo circa l’effettiva osservanza, da parte datoriale, dei limiti posti dalla norma (si veda, in tale senso, Cass. 4 gennaio 2016, n. 3).

Per completezza si osserva poi che anche avendo riguardo a quanto previsto nel D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 6 – così come integrato e modificato dal D.Lgs. n. 100 del 2001 – (attuazione della Direttiva CE 97/81, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale raggiunto dell’UN10E, dal CEP e dalla CES), la questione del calcolo dei dipendenti a tempo indeterminato a tempo parziale ai fini della determinazione dell’organico non appare posta in modo corretto. L’art. 6 del menzionato decreto enuncia il principio generale del computo dei lavoratori part time nel numero dei dipendenti in proporzione all’orario svolto, rapportato al tempo pieno come definito dal decreto stesso, “in tutte le ipotesi in cui, per disposizione di legge o di contratto collettivo, si renda necessario l’accertamento della consistenza dell’organico”. Detto criterio di valutazione, adesso l’unico, stante l’abrogazione dell’eccezione contenuta nel comma 2 della norma da parte del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 46, comma 1, lett. p) (conformemente alle disposizioni della Legge Delega n. 30 del 2003 (art. 3, comma 3, lett. E), è poi seguito dall’indicazione delle regole per l’eventuale arrotondamento, che opera “per le frazioni di orario eccedenti la somma degli orari individuati a tempo parziale corrispondente ad unità intere di orario a tempo pieno”. A ciò consegue che anche secondo il criterio full time equivalent, non necessariamente il tempo parziale doveva essere tutto valutato in proporzione all’orario svolto, ove, secondo il previsto criterio di arrotondamento, vi fossero frazioni di tale orario eccedenti la relativa somma corrispondente ad unità intere di orario a tempo pieno (si veda in tal senso Cass. 31 marzo 2015, n. 6584).

In conclusione e per le esposte considerazioni il ricorso manifestamente infondato deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità vanno compensate tra le parti in considerazione della complessità della materia trattata e del recente intervento chiarificatore delle sezioni unite.

La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).

PQM

La Corte, rigetta il ricorso. compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato D.P.R., art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 dicembre 2016

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