Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27446 del 29/12/2016


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Cassazione civile, sez. VI, 29/12/2016, (ud. 08/11/2016, dep.29/12/2016),  n. 27446

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18682-2014 proposto da:

B.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA APPIANO 8,

presso lo studio dell’avvocato ORAZIO CASTELLANA, rappresentato e

difeso dall’avvocato FRANCESCO RICCI giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrenti –

contro

POSTE ITALIANE SPA, (OMISSIS), – società con socio unico, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, V.LE EUROPA 190, presso lo studio dell’avvocato ANNA TERESA

LAURORA, rappresentata e difesa dall’avvocato LUIGI GIACOMO TOMMASO

ZUCCARINO giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 64/2014 della CORTE D’APPELLO di LECCE SEZIONE

DISTACCATA di TARANTO del 12/02/2014, depositata l’11/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’08/11/2016 dal Consigliere Relatore Dott. FABRIZIA GARRI;

udito l’Avvocato Roberta Aiazzi (delega verbale) difensore della

controricorrente che si riporta agli scritti.

Fatto

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

La Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha rigettato il gravame proposto da B.O. avverso la sentenza del tribunale di Taranto che aveva rigettato la sua domanda di accertamento della illegittimità dei termini apposti ai contratti di lavoro intercorsi con la società Poste Italiane s.p.a. nei periodi dall’8 al 23 marzo 2006, dal 1 al 21 giugno 2006 e dal 1 al 30 settembre 2006 ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001 e ss.mm., art. 2, comma 1 bis.

La Corte territoriale ha infatti accertato che i contratti erano stati conclusi nel rispetto della clausola di contingentamento calcolato con il sistema del full time equivalent come risultava dalla documentazione depositata dalla società datrice escludendo che potessero essere esclusi dal computo i lavoratori a tempo indeterminato addetti a servizi diversi (sportelleria, finanziari e creditizi) rispetto a quelli a cui era stato assegnato il lavoratore assunto a termine (portalettere).

Per la cassazione della sentenza ricorre B.O. che articola tre motivi con i quali denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis con specifico riferimento alla ritenuta correttezza del computo dei lavoratori adibiti allo svolgimento di mansioni in settori diversi da quello propriamente postale, per il quale era intervenuta l’assunzione a termine, nel verificare l’avvenuto rispetto della percentuale del 15% prevista dalla legge quale limite alla facoltà di procedere ad assunzioni a tempo determinato.

Con il secondo motivo si lamenta la violazione dell’art. 2697 c.c..

Assume il ricorrente che la documentazione depositata in atti dalla società, in quanto dalla stessa proveniente, non era idonea ad offrire la prova dell’avvenuto rispetto dei limiti percentuali indicati dalla legge. Infine, con il terzo motivo, ci si duole della violazione dell’art. 112 c.p.c. poichè la sentenza non avrebbe considerato che la reiterazione dei contratti a tempo determinato (nello specifico tre) si poneva in violazione dell’Accordo quadro recepito con la Direttiva 1999/70/CE, in particolare con la clausola n. 5 e n. 3 con illegittimità dei termini apposti ai contratti in relazione all’abusivo utilizzo dello strumento. Poste Italiane s.p.a. si è difesa con controricorso insistendo per il rigetto.

Tanto premesso le censure sono in parte manifestamente infondate ed in parte inammissibili.

La Corte di merito ha premesso che sin dal primo grado le censure avevano investito i contratti sotto il profilo esclusivo del mancato rispetto della clausola di contingentamento ed ha al riguardo verificato che già in primo grado era stata prodotta idonea documentazione dalla quale si evinceva che, pur adottando il sistema del c.d. full time equivalent, non era stato superato nell’anno di riferimento (il 2006) il limite percentuale del 15% delle assunzioni a termine.

Ne consegue che la censura formulata nel terzo motivo di ricorso con la quale ci si denuncia l’abusiva utilizzazione dello strumento del contratto a termine, in mancanza di precise indicazioni – assenti nel ricorso per cassazione – relativamente all’effettiva tempestiva allegazione dei fatti e deduzione delle censure sin dal primo grado di giudizio, risulta essere stata proposta per la prima volta in questo giudizio e, pertanto, deve essere dichiarata inammissibile.

Ugualmente infondata è poi la censura con la quale è denunciata l’errata individuazione della base di computo della percentuale di personale da assumere a tempo determinato (15% dell’organico nell’anno di assunzione).

Come già affermato da questa Corte in fattispecie analoghe (cfr. Cass. 4 gennaio 2016, n. 3) la norma nulla dispone in relazione alla tipologia delle mansioni esercitate dai dipendenti ai fini della possibilità di assunzione a termine e che una tale limitazione è estranea anche alle motivazioni adottate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 214 del 2009. In tale pronuncia, premesso che la disposizione in esame costituisce la tipizzazione legislativa di un’ipotesi di valida apposizione del termine, il giudice delle leggi ha affermato che siffatta valutazione, preventiva e astratta, non è manifestamente irragionevole, atteso che la garanzia alle imprese in questione, nei limiti percentuali previsti, di una sicura flessibilità dell’organico, è direttamente funzionale all’onere gravante sulle imprese stesse di assicurare lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali, nonchè la realizzazione e l’esercizio della rete postale pubblica i quali costituiscono attività di preminente interesse generale, ai sensi del D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 1, comma 1, (Attuazione della direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio). Il giudice delle leggi ha escluso la sussistenza di un profilo di incostituzionalità del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, rispetto ai principi di cui all’art. 3 Cost., avendo ritenuto non manifestamente irragionevole che, ad imprese tenute per legge all’adempimento di simili oneri sia riconosciuta una certa flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto a tempo detetininato. E ciò è tanto più valido in quanto il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, nell’imporre alle aziende di comunicare ai sindacati le richieste di assunzione a termine, prevede un meccanismo di trasparenza che agevola il controllo circa l’effettiva osservanza, da parte datoriale, dei limiti posti dalla norma.

Quanto alla denunciata violazione dell’art. 2697 c.c., oggetto del secondo motivo, nel richiamare le considerazioni sopra svolte con riguardo alla dedotta necessità di avere riguardo nell’identificare numericamente l’organico dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato ai soli addetti alla consegna e raccolta della posta, si osserva inoltre che la Corte di appello non è incorsa nella denunciata violazione atteso che nel verificare che l’assunzione del lavoratore a termine fosse avvenuta nel rispetto della percentuale del 15% fissata dalla legge si è basata su documentazione depositata dalla società datrice che, afferma la Corte, era stata pretestuosamente contestata dal ricorrente in primo grado.

La Corte ha dunque correttamente distribuito l’onere probatorio. Ciò di cui ci si duole è nella sostanza la valutazione della prova ma, tuttavia, la parte ricorrente omette di riprodurre le ragioni della contestazione così venendo meno all’onere di articolare specifiche censure al capo della decisione e pretende da questa Corte un’ inammissibile riesame delle emergenze probatorie precluso in sede di legittimità.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato e parte ricorrente condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate nella misura indicata in dispositivo.

L’avvenuta ammissione del ricorrente al gratuito patrocinio lo esonera dal versamento del contributo unificato.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 2500,00 per compensi professionali, Euro 100,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie ed accessori come per legge.

Rilevato che dagli atti il processo risulta esente, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 dicembre 2016

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