Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27446 del 09/12/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 27446 Anno 2013
Presidente: MIANI CANEVARI FABRIZIO
Relatore: TRICOMI IRENE

SENTENZA
sul ricorso 859-2011 proposto da:
GIOVINAZZO SILVANA C.F. GVNSVN59R47C747G, elettivamente
domiciliata in ROMA, PIAZZALE DELLE BELLE ARTI 8,
presso lo studio dell’avvocato PELLICANO’ ANTONINO, che
la rappresenta e difende giusta delega in atti;
– ricorrente contro

2013
2884

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE
C.F. 80078750587, in persona del legale rappresentante
pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
DELLA

FREZZA

17,

presso

l’Avvocatura

Centrale

Data pubblicazione: 09/12/2013

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati
CORETTI ANTONIETTA, DE ROSE EMANUELE, TRIOLO VINCENZO,
giusta delega in calce alla copia notificata del
ricorso;
– resistente con mandato –

di REGGIO CALABRIA, depositata il 15/12/2009 r.g.n.
594/04;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 15/10/2013 dal Consigliere Dott. IRENE
TRICOMI;
udito l’Avvocato PELLICANO’ ANTONINO;
udito l’Avvocato CORETTI ANTONIETTA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIUSEPPE CORASANITI, che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

avverso la sentenza n. 1280/2009 della CORTE D’APPELLO

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso avanti il Giudice del lavoro di Palmi l’odierna ricorrente,
Giovinazzo Silvana, agiva per ottenere nei confronti dell’INPS il
riconoscimento del diritto alla rivalutazione dell’indennità di disoccupazione
ordinaria pagata dall’INPS negli anni indicati nella misura di 800 lire
giornaliere con l’applicazione del meccanismo di adeguamento del valore
monetario previsto nei coefficienti indicati dalle tabelle ISTAT e secondo
l’orientamento della Corte costituzione. Si costituiva l’INPS che eccepiva
l’avvenuta liquidazione di quanto richiesto. Il Tribunale di Palmi dichiarava
l’avvenuta cessazione della materia del contendere, ritenendo provato il
pagamento dell’adeguamento preteso, compensando tra le parti i due terzi
delle spese di lite e condannando l’INPS al pagamento del residuo un terzo.
Interponeva appello parte ricorrente in primo grado e la Corte di appello
di Reggio Calabria con sentenza del 15.12.2009 rigettava l’appello
compensando tra le parti le spese del grado. La Corte territoriale osservava che
avendo il primo giudice affermato che dalla documentazione prodotta
dall’INPS nel corso del giudizio era risultato l’avvenuto pagamento del preteso
adeguamento, sarebbe stato onere della parte appellante fornire, in sede di
gravame, la prova della fondatezza della propria deduzione relativa al fatto che
detta documentazione non fosse idonea a provare l’avvenuto incasso degli
importi pretesi. Parte appellante avrebbe dovuto, quindi, produrre, a
prescindere dalla posizione difensiva assunta in questo secondo grado del
giudizio dall’INPS, copia della documentazione già prodotta in prime cure dal
medesimo Istituto previdenziale e ciò in applicazione di quanto in materia del
tutto condivisibile osservato dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite con
sentenza n. 28498/2005.
Avverso la detta decisione propone ricorso per cassazione Giovinazzo
Silvana prospettando due motivi di impugnazione.
Con il primo motivo la ricorrente deduce illegittimità per violazione e/o
falsa applicazione dell’art. 436 c.p.c., per violazione del principio del
contraddittorio e del giusto processo ex art. 111 Cost. Motivazione illogica e
contraddittoria.
Con il secondo motivo è prospettata illegittimità per difetto assoluto di
motivazione.
Le censure sono state ulteriormente sviluppate nella memoria depositata
ex art. 378 c.p.c.
Si è costituita l’INPS con controricorso.
La causa è stata sospesa con ordinanza del 15.2.2012 in attesa della
definizione di questione rimessa alle Sezioni Unite di questa Corte.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I due motivi, da trattarsi congiuntamente, in ragione della loro
connessione, vanno respinti apparendo infondati.
Sulla vicenda è recentemente intervenuta questa Corte a Sezioni Unite
(Cass., S.U., n. 3033, n. 3036, del 2013) che, in una controversia di oggetto
identico alla presente (sia per la domanda sia per il contenuto della sentenza
impugnata e per i motivi di ricorso proposti in cassazione), ha confermato
l’orientamento già espresso nella decisione richiamata nella sentenza
impugnata.
Questa Corte condivide interamente la motivazione di quest’ultima
decisione, alla quale si intende dare continuità.

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La Corte, a Sezioni Unite, ha infatti osservato «La questione sulla
quale queste Sezioni Unite sono chiamate a pronunziarsi attiene alla
sussistenza o meno, a carico della parte soccombente in primo grado,
dell’onere, in grado di appello, di produrre copia dei documenti prodotti dalla
controparte in quello precedente e non anche nel secondo, sui quali il primo
giudice ha fondato la propria decisione.
La Corte d’Appello di Catanzaro ha ritenuto che a tal riguardo, trovasse
applicazione il principio, già affermato da queste Sezioni Unite nella sentenza
n. 24898 del 23.12.2005 ed espresso nella seguente massima: “l’appellante è
tenuto a fornire la dimostrazione delle singole censure, atteso che l’appello,
non è più, nella configurazione datagli dal codice vigente, il mezzo per passare
da uno all’altro esame della causa, ma una “revisio” fondata sulla denunzia di
specifici” vizi” di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata. Ne consegue
che è onere dell’appellante, quale che sia stata la posizione da lui assunta nella
precedente fase processuale, produrre, o ripristinare in appello se giù prodotti
in primo grado, i documenti sui quali egli basa il proprio gravame o comunque
attivarsi, anche avvalendosi della facoltà, ex art. 76 disp. att. cod. proc. civ., di
farsi rilasciare dal cancelliere copia degli atti del fascicolo delle altre parti,
perché questi documenti possano essere sottoposti all’esame del giudice di
appello, per cui egli subisce le conseguenze della mancata restituzione del
fascicolo dell’altra parte (nella specie rimasta contumace), quando questo
contenga documenti a lui favorevoli che non ha avuto cura di produrre in copia
e che il giudice di appello non ha quindi avuto la possibilità di esaminare”.
La ricorrente ha sostenuto, con il primo, già citato, motivo del proprio
ricorso per cassazione che, avendo egli contestato nel corso del giudizio di
merito l’avvenuto pagamento e gravando, anche in grado di appello.
sull’Istituto convenuto l’onere della prova del fatto estintivo della propria
obbligazione, sarebbe stato onere di quest’ultimo, e non della deducente,
produrre nuovamente, anche in considerazione del dovere di lealtà processuale,
al riguardo pure affermato nella citata pronunzia di legittimità, la relativa
documentazione.
La Sezione Lavoro di questa Corte, pur ritenendo pertinente alla
fattispecie il sopra riportato principio di diritto, in concreto applicato dal
giudice di secondo grado, ha tuttavia ravvisato ragioni di dissenso rispetto allo
stesso, sulla base due essenziali considerazioni, secondo cui:
a) la facoltà, riconosciuta a ciascuna delle parti dall’art. 76 disp. att.
c.p.c. di estrarre copia dei documenti contenuti nel fascicolo dell’altra, non
comporterebbe un deroga alle regole generali di riparto probatorio contenute
nell’art. 2697 c.c., sicché la circostanza che non se ne sia avvalsa l’appellante
non esonererebbe l’appellato dall’onere della prova, ove su di lui ancora
ricadente secondo i principi generali;
b) conseguentemente, in virtù del medesimo principio, l’onere del
convenuto, ancorché vittorioso in primo grado, di provare il fatto dedotto con
l’eccezione accolta, permarrebbe anche in grado di appello, non venendo meno
per il solo fatto che l’appellante non abbia prodotto i documenti sui quali si
siano fondale le avverse eccezioni.
La prima questione che si pone è se il principio enunciato nella citata
pronuncia di queste Sezioni Unite si attagli, come ritenuto sia dalla corte di
meritoria dalla sezione rimettente, alla fattispecie in esame.
Il caso esaminato nella sentenza n. 28498/05 riguardava una questione,
se non perfettamente sovrapponibile, in gran parte analoga a quella oggetto
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della presente causa, riferendosi ad un giudizio in cui il giudice di primo grado
aveva accolto una domanda revocatoria proposta da una curatela fallimentare,
con sentenza che era stata impugnata dalla parte soccombente, deducendo che i
documenti prodotti da quella attrice, sui quali il primo giudice aveva fondato la
propria decisione, non dimostrassero la scientia decoctionis da parte del terzo.
Il giudice d’appello, poiché la curatela, non costituitasi in secondo
grado e rimasta contumace, non aveva depositato il proprio fascicolo, accolse il
gravame rigettando la domanda revocatoria, decisione quest’ultima che fu
cassata con rinvio da queste Sezioni Unite, enunciando il principio in
precedenza riportato, sul la scorta delle motivazioni di cui si dirà oltre.
Le differenze tra quella vicenda processuale e la presente, costituite dal
ruolo inverso rivestito dalle parti in primo grado (nella precedente, attrice
quella vincitrice, convenuta quella soccombente, viceversa nella presente) e
dallo stato di contumacia della parte appellata in quel giudizio (mentre nel
presente tale parte risulta costituita), non si ritengono significative e di
rilevanza tale da escludere la conferenza del principio in discussione alla
controversia in esame, considerato che anche in questa si pone la questione del
riparto dell’onere probatorio, in un contesto nel quale la mancata disponibilità
da parte del giudice di secondo grado dei documenti prodotti da una delle parti,
ritenuti decisivi da quello di primo, è comunque dovuta ad una scelta
processuale della parie appellata, in virtù della quale, sia nel caso in cui sia
rimasta contumace, sia in quello in cui, pur costituita, abbia ritenuto di non
(ri)produrli. il materiale probatorio sottoposto al giudice di appello è risultato
diverso, per difetto, rispetto a quello esaminato dal primo giudice. Stabilita,
dunque, l’attinenza alla fattispecie del principio di diritto rimesso in
discussione dalla sezione rimettente, ne vanno riesaminate le motivazioni, al
fine di stabilire se le stesse siano tali da mantenerlo fermo, oppure rivederlo,
alla luce delle obiezioni sollevate nell’ordinanza interlocutoria o di altre
eventuali ragioni ravvisabili da queste S.U.
Il ragionamento seguito nella citata sentenza del 2005 (il cui principio
era stato chiaramente affermato, in precedenza da una sola pronunzia di
legittimità, la n. 5627 del 1998, sulla base tuttavia di iter logico – giuridico
parzialmente diverso), si fonda sui seguenti essenziali passaggi argomentativi:
a) nella vigenza del codice di procedura civile del 1865 l'”appellazione”
dava luogo ad un novum iudicium, nell’ambito del quale i criteri di riparto
dell’onere probatorio rimanevano immutati rispetto a quelli regolanti il
giudizio di primo grado;
b) detto connotato, già notevolmente attenuato nel nuovo codice del
1940 dalle disposizioni contenute negli artt. 342, 345 e 346 c.p.c. a seguito
delle profonde modifiche apportate dalla L. n. 353 del 1990, non è più
riscontrabile nell’attuale processo civile, nel cui ambito il giudizio di appello
costituisce ormai una revisio prioris instantiae, incanalata negli stretti limiti
devoluti con i motivi di gravame;
e) tale processo evolutivo ha comportato riflessi anche sul riparto
dell’onere della prova, con l’effetto che, potendo il giudice di appello
conoscere soltanto degli specifici “vizi di ingiustizia o nullità” della sentenza di
primo grado, dedotti dall’appellante, questi è conseguentemente gravato
dall’onere di provare le censure mosse alla decisione impugnata e, pertanto, di
mettere a disposizione del secondo giudice quello stesso materiale probatorio
sulla base del quale è stata assunta la pronunzia gravata.

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Alla citata sentenza di queste S.U. che, accolta con riserve nei primi
commenti, ha successivamente suscitato, sul fronte dottrinario, pochi consensi
e molte voci dissenzienti (in linea di massima attestate sulla necessità di
applicazione, anche in appello, dell’art. 2697 cod. civ. sotto la tradizionale
ottica sostanziale), si sono adeguate la maggior parte delle successive
pronunzie sezionali di legittimità (non sempre, tuttavia, traendo dal pur
richiamato principio, coerenti conclusioni nei casi concreti).
Del tutto difformi dall’indirizzo suddetto risultano, invece, la sentenza
n. 78 dell’8.1.2007 della seconda sezione (relativa ad un caso pressocché in
termini rispetto a quello esaminalo dalle Sezioni Unite nel 2005, costituito da
un’azione revocatoria accolta in primo grado, che tuttavia era stata respinta in
secondo, per la mancata disponibilità del fascicolo della contumace appellata e,
dunque, dei documenti, sulla base dei quali il primo giudice era pervenuto
all’accoglimento) e quella n. 8528 del 12.4.2006 della sezione lavoro (relativa
ad un caso di rigetto in appello, per ritenuta insussistenza della prova della
dedotta cessione di credito, di una domanda, che in primo grado era stata
accolta sulla scorta della documentazione prodotta dal cessionario attore,
rimasto tuttavia contumace in secondo), in ambo le quali la conferma della
sentenza di appello, reiettiva della domanda già accolta dal primo giudice, è
stata giustificata con la ritenuta insussistenza della prova, ancora incombente
sulla parte attrice appellata, ancorché contumace, in ordine ai fatti costitutivi
della pretesa azionata.
Comune a tali decisioni (nelle cui motivazioni, peraltro, non compare
alcun cenno alla sentenza n. 28498 del 2005) è la negazione dell’esistenza
nell’attuale sistema processuale di un “principio di immanenza” della prova
documentale, tale da comportare l’acquisizione irreversibile di quelle prodotte
in primo grado dalla parte risultata vittoriosa, ritenendosi che invece anche il
giudice di appello debba decidere la controversia iuxta alligata et probata,
procedendo ad un autonomo e diretto riesame del materiale probatorio posto a
sua disposizione, con la conseguenza che la parte risultata vittoriosa in primo
grado, rimanendo contumace in appello, così da non consentire al secondo
giudice detto nuovo esame, non possa che risultare soccombente, per non aver
fornito la prova della sua pretesa sostanziale.
Tali conclusioni, in tema di riparto probatorio, risultano condivise dalla
Sezione Lavoro nell’ordinanza rimettente, laddove si osserva che “oggetto del
giudizio di appello è il rapporto sostanziale controverso in primo grado,
devoluto al giudice di superiore attraverso gli specifici mezzi d’impugnazione
(tantum devolutum …), si che quel giudice conosce ex nova de medesimo
rapporto facendo uso, fra l’altro, della regola fondata sull’onere della prova ai
sensi dell’art. 2697 c.c.”, soggiungendosi che, pur nel contesto di un sistema
che concepisce il giudizio di appello quale revisio priori.v instantiae anziché di
riesame, la cognizione del relativo giudice, quando i motivi d’impugnazione
riguardino il merito, sarebbe comunque “finalizzata alla pronuncia sulle
condizioni dell’azione, allo stesso modo della pronuncia del giudice di primo
grado, e in questo ambito il criterio dell’onere della prova mantiene un ruolo
inderogabile”.
Premesso quanto precede, ritengono queste Sezioni Unite di dover
mantenere fermo il principio enunciato nella propria precedente sentenza del
2005, in considerazione anzitutto dell’esigenza, di carattere generale,
evidenziata in recenti pronunzie di questa Corte, secondo cui, nei casi in cui
una norma processuale si presti a due possibili alternative interpretazioni,
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ciascuna compatibile con la lettera della legge, ragioni di continuità
dell’applicazione giurisprudenziale e di affidabilità della funzione
nomofilattica devono indurre a privilegiare quella consolidatasi nel tempo, a
meno che il mutamento del contesto processuale o l’emersione di valori prima
trascurati non ne giustifichino l’abbandono, consentendo la conseguente
adozione delle diversa opzione ermeneutica (v. S.U. n.13620/12, n.
1086/11).Tali condizioni, atte a giustificare un ripensamento siffatto, non si
ravvisano con riguardo alla tematica in discussione.
Benvero, le doglianze della ricorrente, di cui si è fatta carico
l’ordinanza rimettente, nel solco delle principali obiezioni sollevate nelle citate
voci di dissenso dottrinali e giurisprudenziali, non hanno colto il nucleo
argomentativo essenziale su cui si è basata quella decisione, nel la quale si è
avuto modo di evidenziare, attraverso la ricostruzione storico – normativa
dell’istituto (cui si rimanda), come il processo evolutivo subito dal giudizio di
appello, a partire dall’entrata in vigore del codice di procedura civile del 1940,
attraverso i vari interventi modificativi apportati dal legislatore, sia pervenuto
ad uno stadio tale, in cui il gravame rappresenta ormai non più un mezzo per
procedere al riesame della causa, quale rinnovo totale o parziale, secondo i
criteri tradizionali del novum iudicium, della disamina del merito di cui una
parte si sia dichiarata insoddisfatta, costituendo bensì una revisione basata sulla
deduzione di specifici vizi di illegittimità, formale o sostanziale, della sentenza
di primo grado, la dimostrazione della cui fondatezza non può, dunque, che
gravare sull’appellante, che tale revisione ha chiesto.
Tale linea di tendenza, improntata allo snellimento complessivo,
nell’ottica costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.)
di quello civile, recentemente completato dall’intervento legislativo di cui al
D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. con modd. nella legge 7 agosto 2012
(che ha ulteriormente disciplinato e “tecnicizzato” l’onere di specificità di cui
all’art. 342 c.p.c. eliminato il potere discrezionale del giudice di appello di
ammettere documenti nuovi, già previsto dall’art. 345 c.p.c., comma 3 ed
introdotto il cd. “filtro” di ammissibilità con i nuovi artt. 348 bis e 348 ter c.p.c.
quest’ultimo finalizzato alla preliminare verifica di completezza dell’appello,
al fine della valutazione della ragionevole probabilità di accoglimento del
gravame), era comunque già approdata, all’epoca dell’arresto giurisprudenziale
che in questa sede si conferma, ad una fase in cui quei caratteri di marcata e
preminente connotazione processuale della revisio prioris instannae
imponevano una radicale, profonda, rivisitazione del ruolo delle parti
nell’ambito del giudizio di appello.
Costituendo, infatti, quest’ultimo una seconda e solo eventuale fase
(peraltro non generalizzata e priva di copertura costituzionale) del giudizio di
merito, comportante un inevitabile rallentamento della relativa definizione, più
coerente all’attuale connotazione del gravame, nel contesto normativo di
maggior rigore che ormai lo caratterizza, deve ritenersi la nuova concezione del
ruolo dell’appellante, da intendersi quale parte processualmente attrice (quale
che sia stata la sua posizione nel giudizio di primo grado, che l’ha vista
totalmente o parzialmente soccombente) nell’ambito del giudizio revisionale
anzidetto, quale è oggi quello di secondo grado.
Essendo questo finalizzato alla riforma di una decisione, quella del
primo giudice, che nel vigente sistema è da tempo assistita da una vera e
propria presunzione di legittimità (la cui più significativa espressione è
costituita dalla disposizione dell’art. 337 c.p.c., come sostituito dalla “novella”
7

L. n. 353 del 1990, prevedente la regola, salve poche eccezioni,
dell’esecutorietà della sentenza, pur in pendenza del gravame), la parte
appellante è tenuta, al fine del relativo superamento, ad approntare ogni mezzo
processuale posto a sua disposizione dall’ordinamento (così, dunque e
segnatamente, ad avvalersi della facoltà prevista dall’art. 76 disp. att. c.p.c. di
ottenere dalla cancelleria copia dei documenti prodotti dalle altre parti) ed
indipendentemente dalla, più o meno prevedibile, condotta processuale della
controparte, al fine di dimostrare l’ingiustizia o l’invalidità della sentenza
impugnata. In siffatto contesto, allorquando l’appellante assuma che l’errore
del primo giudice si annidi nell’interpretazione o valutazione di un documento,
il cui preciso contenuto testuale non risulti dalla sentenza impugnata, ovvero,
pacificamente, dagli atti delle parti, è onere di quella impugnante metterlo a
disposizione del giudice di appello, perché possa procedere al richiesto riesame
anche nei casi in cui lo stesso sia stato in precedenza prodotto dalla
controparte, risultata vincitrice in primo grado, non sussistendo alcuna norma
che imponga a quest’ultima, tanto meno ove continuaceli (ri)produrlo nel grado
successivo.
In quest’ultimo, invero, tenuto conto dell’odierna, sopra delineata,
configurazione del giudizio di appello, i criteri di riparto probatorio desumibili
dalle norme generali di cui all’art. 2697 c.c. vanno si applicati, ma non nella
tradizionale ottica sostanziale, bensì sotto il profilo processuale, in virtù del
quale è l’appellante, in quanto attore nell’invocata revisio, a dover dimostrare il
fondamento della propria domanda, deducente l’ingiustizia o invalidità della
decisione assunta dal primo giudice, onde superare la presunzione di legittimità
che l’assiste. Le considerazioni suesposte comportano, dunque, la reiezione del
primo motivo di ricorso, nella parte deducente violazione e falsa applicazione
di norme processuali, confutandosi il criterio di riparto probatorio, come sopra
ribadito, che è stato correttamente applicato nella fattispecie dalla corte
territoriale.
Infondato è, altresì, il profilo di censura, secondo cui detto giudice di
merito avrebbe anche disatteso l’insegnamento della sentenza n. 28498/05 di
queste S.U., che al riguardo avrebbe in realtà richiamato l’obbligo di lealtà
processuale, prescritto dall’art. 88 c.p.c., oltre al principio non codificalo della
cd. “immanenza della prova”, alla stregua dei quali il giudice di appello
sarebbe dovuto pervenire ad una soluzione della controversia opposta rispetto a
quella adottata.
In proposito è sufficiente osservare che le menzionate considerazioni,
contenute nel paragrafo 8.1 della citata sentenza e correlate al rilievo del
“lacunoso dettato normativo” (con riferimento a non del tutto risolte
problematiche connesse al ritiro del fascicolo di parte), non risultano
funzionali, nel contesto complessivo della pronunzia, alla decisione adottata,
che si basa invece esclusivamente sul principio di diritto riportato nella parte
iniziale della presente motivazione.
Giova comunque osservare che anche il principio cd. “di immanenza
della prova”, ove rettamente inteso, non è di alcun apporto alla tesi sostenuta.
Quando si assume che la prova, una volta entrata nel processo, vi
permane e può essere utilizzata anche dalla parte diversa da quella che l’ha
prodotta, il principio va inteso con riferimento non al documento
materialmente incorporante la prova, bensì all’efficacia spiegata dal mezzo
istruttorio, virtualmente a disposizione di ciascuna delle parti, delle quali
tuttavia, quella che ne invochi una diversa valutazione da parie del giudice del
8

grado successivo non è esonerata dall’attivarsi perché lo stesso possa
concretamente procedere a richiesto riesame.
Ne consegue che, mentre nessun problema si pone per quelle prove,
orali e verbalizzate o comunque acquisite al fascicolo di ufficio (destinato in
base alle norme di rito a pervenire al giudice di secondo grado), per quanto
riguarda quelle documentati, materializzate nelle produzioni di parte, nei casi
in cui il giudice di appello, per l’inerzia della parte interessata e tenuta alla
relativa allegazione, non sia stato in grado di riesaminarle, le stesse, ancorché
non materialmente più presenti in atti (per la contumacia dell’appellato o per
l’insindacabile scelta del medesimo di non più produrle), continuano tuttavia a
spiegare la loro efficacia, nel senso loro attribuito nella sentenza emessa dal
primo giudice, la cui presunzione di legittimità non risulta superata per fatto
ascrivibile all’appellante.
Questi, rimasto inerte, pur disponendo di un adeguato mezzo
processuale (la richiesta di cui all’art. 76 disp. att. c.p.c.) per prevenire la sopra
esposta situazione di carenza documentale, deve considerarsi soccombente, in
virtù del principio, desumibile dall’art. 2697 c.c., secondo cui actore non
probante, reus absolvitur.
Non miglior sorte meritano i profili di censura del primo mezzo con
riferimento ai vizi della motivazione, laddove si lamenta che il giudice di
appello, pur disponendo di sufficienti elementi di prova per pervenire alla
riforma della sentenza di primo grado, si sarebbe attestato sull’astratta e
formalistica applicazione del principio di diritto in precedenza esaminato. Sotto
un primo profilo, nel quale, si deduce che l’INPS si è regolarmente costituito in
giudizio e ha depositato il fascicolo di produzione contenente la
documentazione offerta a supporto dell’eccezione di pagamento svolta in
primo grado”, è agevole rilevare come la doglianza si traduca in una palese
censura di carattere revocatorio, ex art. art. 395, n. 4, deducente (peraltro in
palese contrasto con le premesse in fatto delle censure in diritto
precedentemente esposte) una vera e propria svista percettiva in cui sarebbe
incorso il giudice di appello, come tale esulante dalla cognizione di questa
Corte. p. 6.3. Sotto il secondo profilo, nel quale si sostiene che il contenuto del
prospetto “informatico”, ritenuto decisivo dal primo giudice, ancorché non
prodotto in grado di appello, sarebbe stato comunque chiaramente desumibile
dagli altri atti, la censura risulta palesemente generica, non precisando se
l’eventuale precisa descrizione ne fosse contenuta nella sentenza di primo
grado, oppure nell’atto di appello e/o nella comparsa di costituzione e risposta
dell’I.N.P.S., senza che al riguardo fosse insorto contrasto tra le parti.
Nè al rilevato difetto di specificità può ovviare la trascrizione del
documento inserita nel ricorso a questa Corte, posto che la stessa avrebbe
dovuto essere fornita al giudice di appello, per metterlo in condizione di
acquisire sufficiente contezza del gravame; ma tanto non è stato precisalo
nell’impugnazione di legittimità, nè a tale carenza può ovviare la tardiva
deduzione, contenuta soltanto nella seconda memoria illustrativa, secondo cui
l’appellante “di tale documento aveva riportato la compiuta descrizione”,
considerato che con le memorie ex art. 378 c.p.c. è possibile soltanto illustrare i
motivi dedotti ne ricorso, ma non anche proporre nuove censure o ovviare a
lacune di quelle già esposte.
Il secondo motivo di ricorso, con il quale si deduce ex art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 5 che la Corte d’Appello, ove avesse fatto buon governo dei
“principi del giusto processo”, avrebbe dovuto accogliere il gravame, essendo il
9

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del presente
giudizio.
Così deciso in Roma il 15 ottobre 2013

l Presi

documento, già prodotto dall’I.N.P.S., in quanto mero appunto interno,
inidoneo a provare l’adempimento della propria obbligazione, in difetto di un
atto di quietanza del debitore, è chiaramente dipendente dal primo e, pertanto,
resta reiettivamente assorbito dal relativo rigetto” (Cass. n. 3033 del 2013
cit.)».
Circa la deduzione per cui la Corte di Appello avrebbe ordinato
all’INPS di produrre la documentazione senza esito si tratta di una deduzione
prospettata solo nelle note difensive e quindi tardivamente; in ogni caso non è
idonea a ribaltare la prospettazione seguita dalla Suprema Corte nella decisione
ricordata nella quale viene dato rilievo preminente alla situazione di appellante
dell’odierna ricorrente.
Si deve quindi rigettare il proposto ricorso.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio
di legittimità, tenuto conto che la pronunzia delle S.U. cui si è conformata la
Corte territoriale non aveva sopito i precedenti contrasti giurisprudenziali ed il
dibattito dottrinale, tanto da rendere necessario un nuovo intervento delle
Sezioni Unite.

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