Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27444 del 20/11/2017


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Civile Ord. Sez. L Num. 27444 Anno 2017
Presidente: MACIOCE LUIGI
Relatore: TRICOMI IRENE

ORDINANZA
sul ricorso 548-2012 proposto da:
PELLEGRINO SALVATORE GIORGIO C.F. PLLSVT57C01F158P,
elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ALBERICO II 4,
presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO BORGIA,
rappresentato e difeso dagli avvocati CONCETTA BOSURGI
e ANDREA LO CASTRO giusta delega in atti;
– ricorrente contro

2017
2369

MINISTERO

DELL’ECONOMIA

E

DELLE

FINANZE

C.F.

80415740580, AGENZIA DEL DEMANIO C.F. 06340981007,
AGENZIA DELLE ENTRATE C.F. 06363391101, in persona dei
Direttori pro tempore, elettivamente domiciliati in
ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

Data pubblicazione: 20/11/2017

’GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

– controrícorrenti

avverso la sentenza n. 706/2011 della CORTE D’APPELLO

di MESSINA, depositata il 25/07/2011 R.G.N. 1278/2009.

R.G. n. 548 del 2012
RILEVATO
1. che la Corte d’Appello di Messina, con la sentenza n. 706 del
2011, depositata il 25 luglio 2011, rigettava l’appello proposto da Pellegrino
Salvatore Giorgio nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze,
dell’Agenzia delle entrate e dell’Agenzia del demanio, avverso la sentenza
emessa tra le parti dal Tribunale di Messina n. 2277/09 del 22 maggio
2009;
che la sentenza di appello, nello parte dello svolgimento del

2.

processo, espone che Pellegrino Salvatore Giorgio adiva il Tribunale di
Messina con ricorso depositato 1’8 luglio 2005, chiedendo il risarcimento del
danno biologico, morale ed esistenziale per un ammontare di euro
4.000.000,00, ex art. 2087 cod. civ., prospettando:
di essere stato assunto in data 3 novembre 1990 alle dipendenze del
Ministero delle finanze con la qualifica di coadiutore meccanografico, ex IV
livello, e che dal 1983 gli veniva riconosciuta la qualifica di messo
notificatore;
che dal 1994 in poi veniva assegnato al reparto “valutazione” ove
curava le procedure di definizione delle pratiche di evasione tributaria
tramite adesione del contribuente;
che dall’anno 1996 veniva incaricato di collaborare con gli ispettori
dell’Agenzia delle entrate per la verifica degli atti di gestione in occasione di
ogni mutamento direzionale;
che però, dal 1999, in coincidenza del trasferimento del dipendente
Guerrera presso il suo reparto, cominciava a subire da quest’ultimo i primi e
gravi ostacoli in campo lavorativo cui faceva seguito un lungo e drammatico
percorso di sofferenze che lo portavano ad accusare le prime crisi psicofisiche;
che a seguito di tali ostacoli, veniva spostato, su sua richiesta, con
ordine di servizio del 16 novembre 1999, alle dirette dipendenze del
direttore dell’Ufficio del registro, dott.ssa Tasca, con l’attribuzione del
servizio di conciliazione giudiziale;
di avere regolarmente svolto il proprio servizio sino al giugno del
2000, quando, in occasione della distribuzione ad alcuni dipendenti del
premio di produttività, sentiva il dovere morale di esprimere il suo
personale dissenso per la scelta effettuata dalla dott.ssa Tasca;
i

R.G. n. 548 del 2012

che da tale momento in poi il direttore non gli attribuiva più alcun
lavoro da svolgere, facendogli trovare la scrivania sempre vuota e che,
quindi, si era venuto a trovare nella condizione di trascorrere l’intera
giornata senza fare nulla e senza che nessuno chiedesse di lui;
che per tale situazione si era indotto a trascorrere la giornata
recandosi al IV piano in archivio ove non vedeva o sentiva nessuno;
che tale stato di emarginazione nel lavoro lo aveva fatto precipitare in
uno stato depressivo per la cui cura si era rivolto al centro specializzato per

l

le malattie da stress da lavoro istituito presso l’Asl di Taranto;
che a seguito del superamento di un concorso interno, veniva
assegnato all’Agenzia del demanio con decorrenza 29 ottobre 2001, dove,
dopo i primi mesi di svolgimento sereno e senza ostruzionismo della nuova
attività veniva nuovamente sottoposto a condotte vessatorie analoghe a
quelle subite in precedenza, avendo il capo area dell’ufficio tecnico, dott.
Favata, cominciato a deprivarlo di ogni attività lavorativa;
che, salvo qualche sporadico incarico, sostanzialmente ad esso
ricorrente non veniva affidato alcun compito da svolgere;
che le sue vicende lavorative non solo avevano avuto incidenza sulla
sua integrità psico-fisica, ma avevano compromesso le sue relazioni
familiari, tanto che nel febbraio 2003 aveva intrapreso la separazione
personale, e danneggiato le sue attività collaterali. Ed infatti era stata
messa in liquidazione la società Fi.PE, da lui costituita nel 1994 e aveva
venduto le quote sociali della società immobiliare Ciaoquattropareti
costituita nel gennaio 2001;
3.

che il Tribunale con sentenza del 22 maggio 2009 rigettava la

domanda;
4. che l’appello proposto dal Pellegrino veniva respinto;
4.1. che quanto al primo motivo di appello il giudice di secondo
grado rilevava che il Pellegrino avrebbe dovuto indicare i fatti costitutivi
della propria pretesa sia nel loro nucleo essenziale che negli elementi di
contorno. Solo in presenza di tale specificazione il Pellegrino avrebbe
potuto articolare una prova testimoniale ammissibile volta a dimostrare la
sussistenza dei fatti dedotti nella fase di specificazione del

thema

decidendum. In ogni caso, affermava la Corte d’Appello l’ammissione del
primo capitolo di prova limitatamente alla parte sottolineata a penna aveva
2

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Comportato l’introduzione e l’ammissione di un

thema probandum ampio

e per la sua genericità poteva ricomprendere anche fatti specifici che il
_–Vricorrente voleva addebitare al collega Guerrera e alla dott.ssa Tasca.

Il capitolo contrassegnato con la lettera B era superfluo in quanto già
ricompreso nella ampia formulazione del capitolo di cui alla lettera a). I
capitoli d) ed e) implicavano manifestazioni di giudizi e valutazioni
soggettive come tali non ammissibili. Quanto al capitolo di prova articolato

nell’udienza del 16 marzo 2007 la Corte d’Appello osservava che
l’articolato di cui al punto a) era ripetitivo di quello ammesso, il capitolo B
comportava l’espressione di valutazioni e giudizi, mentre il punto c)
appariva superfluo perché tendeva a ribadire il contenuto di un documento;
4.2. che in relazione al secondo motivo di appello relativo alla
erronea valutazione delle prove, la Corte d’Appello rilevava che le
dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà non avevano valenza probatoria,
avendo valore solo nei confronti della PA e non nei processi giurisdizionali.
Ricordava quindi gli elementi costitutivi del mobbing, così qualificando
in iure la domanda, tra cui la prova dell’elemento soggettivo, cioè l’intento
persecutorio e rilevava che le prove testimoniali assunte non fornivano
prova di una molteplicità di comportamenti persecutori posti in essere in
danno del dipendente con intento vessatorio, di un comportamento
intenzionalmente vessatorio causa dello stato ansioso depressivo dedotto
dal Pellegrino. Né elementi potevano trarsi dal regime di part-time scelto
dal lavoratore.
Il giudice di secondo grado affermava, altresì, la assenza di valore
probatorio da attribuirsi alla relazione del medico ASL di Taranto in ordine al
nesso di causalità fra ambiente di lavoro e danno biologico, poiché tale
valutazione si fondava su dati anamnestici raccolti e cioè su quanto
dichiarato dal Pellegrino;
4.3. che la Corte d’Appello quindi, affermava che l’assenza della
prova di un intento persecutorio in danno del Pellegrino rendeva superfluo
l’esame degli ulteriori motivi di appello che si incentravano sulla dedotta
erronea esclusione del disegno vessatorio e sul mancato accertamento del
nesso ci causalità fra la patologia da cui l’appellante sarebbe stato affetto e
violazioni dell’art. 2087 cod.civ.;

3

R.G. n. 548 del 2012

5. che per la cassazione della sentenza resa in grado di appello
pcorre Pellegrino Salvatore Giorgio prospettando quattro motivi di ricorso;
6. che resistono con controricorso il Ministero dell’economia e delle
finanze, l’Agenzia delle entrate e l’Agenzia del demanio;
7. che in prossimità dell’udienza pubblica, con atto depositato il 10
aprile 2017, i difensori del Pellegrino rinunciavano al mandato.
CONSIDERATO

cosiddetta

“perpetuatio”

1. che preliminarmente va rilevato che per effetto del principio della
dell’ufficio di difensore, nessuna efficacia può

dispiegare, nell’ambito del giudizio di cassazione (oltretutto caratterizzato
da uno svolgimento per impulso d’ufficio), la sopravvenuta rinuncia che il
difensore del ricorrente abbia comunicato alla Corte prima dell’udienza di
discussione già fissata (Cass., n. 16121 del 2009);
2. che con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e/o falsa
applicazione degli artt. 32 e 41 Cost., degli artt. 2087, 2049, 1218 e 2043
cod. civ., nonché dell’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, in relazione all’art.
360, n. 3, cod. proc. civ.
Il ricorrente censura la statuizione della Corte d’Appello secondo la
quale le prove assunte non fornivano la prova di una molteplicità di
comportamenti persecutori posti in essere in danno del dipendente con
intento vessatorio, nonché le argomentazioni relativi alla valutazione
dell’esito delle prove testimoniali.
Il ricorrente assume che il giudice di appello, nella sostanza, avrebbe
affermato che anche ammesso che il lavoratore fosse stato privato
dell’attività lavorativa, non essendo stata provata in giudizio la ragione di
tale privazione (potendo consistere anche nell’effetto dello stato ansioso del
ricorrente stesso), non sarebbe stato provato l’intento persecutorio quale
requisito della condotta mobbizzante.
Tale statuizione era errata

poiché

la condotta datoriale

estrinsecatasi non solo in un demansionannento, ma nella totale privazione
dell’attività lavorativa possedeva intrinsecamente le caratteristiche del
nnobbing, in quanto espressiva di un disegno offensivo, finalizzato alla
persecuzione o alla vessazione del lavoratore.
Il ricorrente richiamava la giurisprudenza di legittimità in materia, e
Cass. S.U. n. 8438 del 2008 che, ad avviso dello stesso, aveva affermato,
4

R.G. n. 548 del 2012

ra l’altro, la non necessità di un disegno vessatorio in caso di violazione di
orme contrattuali finalizzate alla tutela del diritto alla professionalità, e
afferma che grava sul datore di lavoro l’onere di provare ex art. 2087 cod.
civ. di avere ottemperato agli obblighi di tutela dell’integrità psico-fisica del
lavoratore. Le risultanze istruttorie (testi Fotia, Andreotti, Mastroeni), il
tabulato del carico di lavoro assegnato, le dichiarazioni sostitutive atto
notorietà, la perizia medico-legale e il certificato medico dell’ASL Taranto

(su cui verteva il quarto motivo di appello, di cui nel quarto motivo del
ricorso per cassazione si censura il mancato esame), avevano confermato
tutte le circostanze dedotte in giudizio;
3.

che

con il secondo motivo di ricorso è dedotta omessa,

insufficiente o contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata
su punti decisivi della controversia in relazione all’art. 360,comma 1, n. 5,
cod. proc. civ , sotto vari profili, censurandosi la mancata ammissione di
quasi tutti i capitoli di prova di cui il ricorrente aveva chiesto l’ammissione
(in particolare con riguardo ai rapporti con Guerrera e Tasca, alla durata
degli atti vessatori, alle conseguenze degli stessi, sulla deprivazione
dell’attività lavorativa), e le relative motivazioni adottate in merito dalla
Corte d’Appello.
A sostegno dell’impugnazione, il ricorrente richiama il contenuto delle
deposizioni testimoniali, nonché del ricorso di primo grado, e assume
l’omesso esame del terzo motivo di appello come dedotto in ulteriore motivo
del presente ricorso;
4. che con il terzo motivo di ricorso è dedotta violazione e/o falsa
applicazione della norma processuale di cui all’art. 115, cod. proc. civ.
(principio di disponibilità delle prove), in relazione all’art. 360, comma 1, n.
3, cod. proc. civ., censurandosi la sentenza di appello per il mancato rilievo
probatorio attribuito alle dichiarazioni sostitutive e alla relazione dell’ASL di
Taranto;
5. che con il quarto motivo di ricorso è dedotta violazione e/o falsa
applicazione della norma processuale di cui all’art. 112 cod. proc. civ.
(principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato), in relazione
all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. La sentenza della Corte d’Appello
avrebbe omesso di esaminare il III ed il IV motivo di appello, il cui esame
lungi da ritenersi superfluo come affermato dal giudice di secondo grado,
5

R.G. n. 548 del 2012

yerteva su fatti decisivo della controversia ossia la circostanza che i colleghi
*i
Ali lavoro pur nel passaggio alle diverse amministrazioni erano rimasti gli
stessi e che vi era stata la violazione da parte del datore di lavoro non solo
dell’art. 2043 cod. civ., ma anche dell’art. 2087 cod. civ.;
6. che i suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente, in
ragione della loro connessione. Gli stessi sono in parte inammissibili e in
parte non fondati, per le ragioni di seguito esposte;

giudice di merito, nel trattare la domanda, l’ha qualificata

7. che dalla motivazione della sentenza di appello si rileva che il
in iure come

domanda di accertamento del mobbing e di condanna al conseguente
risarcimento del danno.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, il giudice del
merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata
delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi
al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma
deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa
fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e
rappresentate dalla parte istante (Cass., n. 118 del 2016, n. 21087 del
2015).
Nella specie, i suddetti motivi del ricorso per cassazione non
deducono una erronea qualificazione della domanda da parte del giudice di
appello (e quindi una nullità in relazione a tale specifico profilo, derivante
dalla violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ai
sensi dell’art. 112 cod. proc. civ.). Gli stessi, senza investire questa Corte
dell’esame diretto degli atti (cfr., Cass., n. 21397 del 2014), ai sensi
dell’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., si sostanziano nel vizio di violazione di
legge assumendo l’erronea applicazione delle disposizioni sopra richiamate,
nonché nel vizio di motivazione.
Occorre rilevare che, come ricordato dalla Corte d’Appello, nel
richiamare la giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità della
condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, il cui
accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito,
non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente
motivato: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o
anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano
6

R.G. n. 548 del 2012

) posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e
. 2à prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un
suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere
direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della
dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il
pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella
propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio

unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass., n. 17698 del 2014).
Elementi questi che il lavoratore ha l’onere di provare in applicazione
del principio generale di cui all’art. 2697 cod. civ., e che implicano la
necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e
della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla
(Cass., n. 7382 del 2010).
La necessità della sussistenza dell’elemento soggettivo e cioè
dell’intento persecutorio, è stata riaffermata da Cass. n. 2142 del 2017
anche in relazione ad una fattispecie in cui veniva prospettata una
situazione di inattività lavorativa, nonché da Cass. 2147 del 2017. Pertanto
il mobbing, venendo in rilievo il principio del neminem ledere, sia pure nel
più ampio contesto di cui all’art. 2087 cod. civ. la cui violazione deve essere
fatta valere con autonoma azione, di cui nella specie non è allegata la
tempestiva proposizione, non è riconducibile a mera colpa, occorrendo la
prova di un intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Né i richiamati principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità
contrastano con le norme costituzionali e primarie invocate nell’epigrafe del
primo motivo di ricorso.
La sentenza Cass., S.U., n. 8438 del 2004, richiamata dal ricorrente
afferma espressamente che il termine mobbing può essere generalmente
riferito ad ogni ipotesi di pratiche vessatorie, poste in essere da uno o più
soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo
ambiente di lavoro, e solo con riguardo alla specifica fattispecie che gli era
devoluta ha affermato che venivano in rilievo violazioni di specifici obblighi
contrattuali derivanti dal rapporto di impiego, facendo riferimento ad atti di
gestione del rapporto di lavoro che, indipendentemente da una concreta
correlazione con un disegno di persecuzione reiterata, trovavano un diretto

7

R.G. n. 548 del 2012

r ferente normativo nella disciplina della regolamentazione del rapporto e
icevono da questa la loro sanzione di illiceità.
Nella specie, peraltro, non vengono in rilievo in modo circostanziato
atti di gestione del rapporto, facendo riferimento il ricorrente (primo motivo
di ricorso pag. 34 del ricorso) ad alcuni funzionari dalla cui condotta
(indicata nell’assegnare il Pellegrino alle proprie dipendenze per poi
svuotarne le mansioni) sarebbe discesa la mancanza di attività lavorativa;

8. che ratione temporis (la sentenza di appello veniva depositata il
25 luglio 2011), trova, nella specie, applicazione l’art. 360, primo comma,
n. 5, cod. proc. civ., nel testo anteriore alla novella introdotta dal decretolegge 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lettera b), convertito, con
modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134.
Il motivo di ricorso per cassazione, con il quale la sentenza
impugnata venga censurata per vizio della motivazione, non può essere
inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal
giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in
particolare, non si può proporre con esso un preteso migliore e più
appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti
del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli
elementi di prova

e

dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero

convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di
tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360,
primo comma, n. 5, cod. proc. civ.; in caso contrario, questo motivo di
ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle
valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e, perciò, in una
richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto,
sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione
(Cass., n. 9233 del 2006).
Lo scrutinio effettuato dalla Corte di cassazione non può, dunque,
riguardare il convincimento in sé stesso del giudice di merito, come tale
incensurabile, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli
elementi probatori valutati, il che si tradurrebbe in un complessivo riesame
del merito della causa (Cass., n. 16526 del 2016, n. 14929 del 2012; Cass.,
n. 5205 del 2010; Cass., n. 10854 del 2009).

8

R.G. n. 548 del 2012

Il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360,
rimo comma, n. 5 cod. proc. civ., non equivale dunque alla revisione del
ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del
merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che
ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in
contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di
legittimità;
9. che

in tema di procedimento civile, sono riservate al giudice del

4″

merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, nonché la
scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento,
con la conseguenza che è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso
probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il
giudice di secondo grado sia pervenuto ad un giudizio logicamente
motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice (Cass., n. 13054 del
2014).
Pertanto, la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio
sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie,
di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono
apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di
attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili
(Cass., n. 11511 del 2014);
10. che

come questa Corte ha già affermato (Cass., n. 22759 del

2014, n. 2687 del 2015),

l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di

appello, e, in genere, su una domanda, eccezione o istanza ritualmente
introdotta in giudizio, integra una violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., che
deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360, primo
comma, n. 4, dello stesso codice, che consente alla parte di chiedere – e al
giudice di legittimità di effettuare – l’esame degli atti del giudizio di merito,
nonché, specificamente, dell’atto di appello, mentre è inammissibile ove il
vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5,
cod. proc. civ.
Diversamente, il vizio di omessa pronuncia con riguardo ad istanze
istruttorie è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione
(cfr., Cass., n. 6715 del 2013).

9

R.G. n. 548 del 2012

Pertanto, i vizi di omessa pronuncia con riguardo al III e al IV motivo
)
,2 di appello, oggetto del secondo e del quarto motivo di ricorso per
9

cassazione, dedotto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5, cod.
proc. civ., sono inammissibili.
Peraltro, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione in cui sia
denunciata puramente e semplicemente la “violazione o falsa applicazione di
norme di diritto” ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ., senza alcun
riferimento alle conseguenze che l’errore (sulla legge) processuale

4

comporta, vale a dire alla nullità della sentenza e/o del procedimento,
essendosi il ricorrente limitato ad argomentare solo sulla violazione del
principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (Cass., n. 19124 del
2015), come nella specie nell’esposizione del quarto motivo di ricorso,
laddove la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. è denunciata in relazione
all’art. 360, n. 3, cod., proc. civ. per mancata corrispondenza tra chiesto e
pronunciato, non tenendosi conto, altresì che la Corte d’Appello, con
specifica argomentazione, statuiva che l’assenza della prova di un intento
persecutorio in danno del Pellegrino rendeva superfluo l’esame degli ulteriori
motivi di appello che si incentravano sulla dedotta erronea esclusione del
disegno vessatorio e sul mancato accertamento del nesso ci causalità fra la
patologia da cui l’appellante sarebbe stato affetto e violazioni dell’art. 2087
cod. civ.;

11. che congruamente e correttamente, in ragione dei principi sopra
richiamati, quindi, la Corte d’Appello ha affermato che la mancanza della
prova dell’intento persecutorio non poteva fare ricondurre la vicenda in
esame al mobbing lavorativo.
Né tale statuizione ha come presupposto logico

un’implicita

affermazione di sussistenza di alcuno degli altri requisiti, attesa l’autonomia
degli stessi.
Per quanto attiene alla dedotta erronea valutazione delle risultanze
probatorie le statuizioni effettuate dalla Corte d’Appello nel vaglio delle
prove sono conformi ai principi enunciati dalla giurisprudenza di
legittimità, sopra richiamati, e le odierne censure, per come formulate, non
consentono l’effettuazione del giudizio di rilevanza su deduzioni o prove che
non sarebbero state adeguatamente vagliate in quanto le stesse non sono
specificate in modo circostanziato.
10

• R.G. n. 548 del 2012

Va, altresì, ricordato che con la sentenza di questa Corte n. 3668 del
2013, si è affermato che la nozione di punto decisivo della controversia, di
cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., sotto un primo aspetto si correla al
fatto sulla cui ricostruzione il vizio di motivazione avrebbe inciso ed implica
che il vizio deve avere inciso sulla ricostruzione di un fatto che ha
determinato il giudice all’individuazione della disciplina giuridica applicabile
alla fattispecie oggetto del giudizio di merito e, quindi, di un fatto

secondo aspetto, la nozione di decisività concerne non il fatto sulla cui
ricostruzione il vizio stesso ha inciso, bensì la stessa idoneità del vizio
denunciato, ove riconosciuto, a determinarne una diversa ricostruzione e,
dunque, asserisce al nesso di casualità fra il vizio della motivazione e la
decisione, essendo, peraltro, necessario che il vizio, una volta riconosciuto
esistente, sia tale che, se non fosse stato compiuto, si sarebbe avuta una
ricostruzione del fatto diversa da quella accolta dal giudice del merito e non
già la sola possibilità o probabilità di essa.
Nella specie alla deduzione del vizio di motivazione su punti decisivi
della controversia non è seguita la ricostruzione degli stessi nei termini
sopra indicati;
12. che il ricorso deve essere rigettato;
13. che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in
dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle
spese di giudizio che liquida in euro 3.500,00 per compensi professionali,
oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale del 23 maggio 2017.
Il Pre ‘dente
Luigi r.1acioce

costitutivo, modificativo, impeditivo od estintivo del diritto. Sotto un

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