Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27437 del 19/12/2011

Cassazione civile sez. VI, 19/12/2011, (ud. 25/10/2011, dep. 19/12/2011), n.27437

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – rel. Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 24093-2010 proposto da:

POSTE ITALIANE SPA (OMISSIS) in persona del Presidente del

Consiglio di Amministrazione e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo

studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende,

giusta procura speciale ad litem a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.L. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA RENO 21, presso lo studio dell’avvocato RIZZO ROBERTO, che lo

rappresenta e difende, giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 9317/2008 della CORTE D’APPELLO di ROMA del

19.12.08, depositata il 12/10/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

25/10/2011 dal Consigliere Relatore Dott. PIETRO ZAPPIA.

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. RENATO

FINOCCHI GHERSI.

Fatto

IN FATTO ED IN DIRITTO

Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Roma, regolarmente notificato, M.L., assunto dalla società Poste Italiane s.p.a.

con più contratti a tempo determinato, il primo dei quali dal 2.11.1999 al 29.2.2000, per “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”, rilevava la illegittimità dell’apposizione del termine ai contratti in questione di talchè, essendo stata l’assunzione illegittima, i contratti si erano convertiti in contratti a tempo indeterminato. Chiedeva pertanto che, previa dichiarazione di illegittimità del termine apposto al predetto rapporto di lavoro, fosse dichiarata l’avvenuta trasformazione dello stesso in contratto a tempo indeterminato, con condanna della società al risarcimento del danno.

Il Tribunale adito accoglieva la domanda e dichiarava l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal 29.2.2000.

Avverso tale sentenza proponeva appello la società datoriale lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo il rigetto delle domande proposte da controparte con il ricorso introduttivo.

La Corte di Appello di Roma, con sentenza in data 19.12.2008/12.10.2009, rigettava l’appello.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la società Poste Italiane s.p.a. con tre motivi di impugnazione.

Resiste con controricorso il lavoratore intimato.

Lo stesso ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2 e della L. n. 56 del 1987, art. 23.

In particolare rileva che la Corte territoriale, ritenendo necessaria l’esistenza di un limite temporale, aveva, di fatto, negato la piena discrezionalità delle parti sociali di individuare le nuove ipotesi di legittima apposizione del termine.

Col secondo motivo di ricorso la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 dell’art. 8 CCNL 26.11.1994, degli accordi sindacali del 25.9.1997, del 16.1.1998, del 27.4.1998, del 2.7.1998, del 24.5.1999 e del 18.1.1999, in connessione con gli artt. 1362 e segg. c.c..

In particolare osserva che in maniera assolutamente arbitraria la Corte territoriale aveva ritenuto che l’ipotesi prevista dalla L. n. 56 del 1987, art. 23 dovesse essere necessariamente correlata ad una precisa limitazione temporale. Per contro, la corretta applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale avrebbe dovuto portare la Corte di merito a valutare i successivi accordi attuativi nella loro effettiva natura di atti ricognitivi di una determinata situazione di fatto, e cioè di un momento di verifica congiunta della sussistenza e permanenza del suddetto processo di ristrutturazione, senza alcuna volontà negoziale di porre limite alcuno se non quello della intrinseca temporaneità di qualsiasi processo di ristrutturazione, e quindi anche di quello della società Poste Italiane s.p.a..

Con il terzo motivo lamenta omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

In particolare rileva che dal contesto della motivazione dell’impugnata sentenza non era dato comprendere in forza di quale ragionamento la Corte territoriale fosse approdata alla decisione adottata.

Il Consigliere relatore ha depositato relazione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., che è stata comunicata al Procuratore Generale e notificata ai difensori costituiti.

Il ricorso è infondato.

In ordine ai primi due motivi di ricorso, che il Collegio ritiene di dover trattare unitariamente essendo tra loro strettamente connessi, deve premettersi, in linea generale, che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 e successive modifiche nonchè dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis convertito con modificazioni dalla L. 15 marzo 1983, n. 79 – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui all’accordo integrativo del 25 settembre 1997.

Partendo dal detto principio questa Corte, dopo aver ribadito la legittimità della formula adottata nell’accordo integrativo, caratterizzata, in particolare, dalla mancata previsione di un termine finale, ha ritenuto tuttavia viziate quelle decisioni dei giudici di merito nella parte in cui hanno affermato la natura meramente ricognitiva dei cd. accordi attuativi e conseguentemente il carattere non vincolante degli stessi quanto alla determinazione della data entro la quale era legittimo ricorrere a contratti a termine, atteso che con tale interpretazione dei suddetti accordi si sono discostate dal chiaro significato letterale delle espressioni usate – ed in particolare di quella secondo cui per far fronte alle predette esigenze si potrà procedere ad assunzioni di personale straordinario con contratto a tempo determinato fino al 30/4/98 (cfr.

accordo del 16 gennaio 1998); ciò, fra l’altro, in violazione del principio secondo cui nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. sez. lav., 28.8.2003 n. 12245; Cass. sez. lav., 25.8.2003 n. 12453).

La stessa giurisprudenza ha ritenuto inoltre la sussistenza, nelle suddette sentenze, di una violazione del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ. a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello per cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la statuizione secondo cui le parti non avevano inteso introdurre limiti temporali alla previsione di cui all’accordo del 25 settembre 1997 implica la conseguenza che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così testualmente Cass. sez. lav., 14.2.2004 n. 2866).

La giurisprudenza di questa Suprema Corte (cfr., ex plurimis, Cass. sez. lav., 23.8.2006 n. 18378) ha, altresì, ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo circa due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione deve comunque ritenersi conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante io strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. sez. lav., 12.3.2004 n. 5141).

Il sopra citato orientamento di questa Corte deve essere pienamente confermato atteso che le tesi difensive che si sono confrontate nelle fasi di merito e quelle oggi proposte all’attenzione della Corte non sono sorrette da argomenti che non siano già stati scrutinati nelle ricordate decisioni o che propongano aspetti di tale gravità da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti.

E la Corte territoriale ha compiutamente dato contezza dell’iter logico – giuridico attraverso cui era pervenuta alla decisione adottata, di talchè non può trovare accoglimento neanche il terzo motivo di ricorso.

Il ricorso proposto va pertanto rigettato ed a tale pronuncia segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che si liquidano come da dispositivo. Va autorizzata la distrazione delle spese in favore del difensore dell’intimato, dichiaratosi antistatario.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 30,00 per esborsi, oltre Euro 2.000,00 (duemila) per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge; autorizza la distrazione delle spese in favore dell’avv. Roberto Rizzo, dichiaratosi antistatario.

Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2011

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