Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27433 del 30/10/2018

Cassazione civile sez. III, 30/10/2018, (ud. 24/01/2018, dep. 30/10/2018), n.27433

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27382-2015 proposto da:

L.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FILIPPO

CIVININI 2, presso lo studio dell’avvocato LARA LUNARI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONIO GIORGINI

giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

D.C.L., elettivamente domiciliata in PESARO, VIA MANZONI

40, presso lo studio dell’avvocato MARCO VITALI, che la rappresenta

e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 302/2015 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 10/08/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/01/2018 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato LARA LUNARI;

udito l’Avvocato MARCO VITALI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Avendo D.C.L. adito il Tribunale di Pesaro per ottenere la condanna di L.L. a restituirle il deposito cauzionale di Euro 877,98 attinente ad un contratto locatizio a uso non abitativo tra loro stipulato il 1 aprile 2002 e poi venuto meno per recesso della conduttrice D.C., nonchè la condanna a pagarle i relativi interessi e la rivalutazione e a rifonderle le spese di un procedimento di accertamento tecnico preventivo e di una procedura ex D.Lgs. n. 28 del 2010, ed essendosi la L. costituita, resistendo e attribuendo alla D.C. la costruzione di opere abusive, così da chiedere la sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c. in attesa della conclusione del procedimento di accertamento tecnico preventivo, la dichiarazione di inammissibilità del procedimento di mediazione per mancato completamento del procedimento suddetto e la condanna di controparte a risarcirle il danno per mutamento dello stato dei luoghi, alla rimessione in pristino, alla corresponsione di un indennizzo per la utilizzazione di un locale abusivamente realizzato e al rimborso delle spese relative all’accertamento tecnico preventivo, il Tribunale, con sentenza del 7 marzo 2014, condannava la L. a restituire a controparte il deposito cauzionale, oltre a interessi legali fino al saldo, e a rifonderle le spese della procedura di accertamento tecnico preventivo e della procedura conciliativa per un totale di Euro 3000, oltre alle spese del giudizio.

Avendo la L. proposto appello principale e la D.C. appello incidentale, la Corte d’appello d’Ancona, con sentenza del 25 febbraio-10 agosto 2015, rigettava l’appello principale e accoglieva parzialmente l’incidentale determinando quindi in Euro 4000 le spese dell’accertamento tecnico preventivo.

2. Ha presentato ricorso la L. articolato in undici motivi, da cui si difende con controricorso la D.C.. Entrambe hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso è infondato.

3.1.1 Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza impugnata in relazione agli artt. 156,157,158 e 159 c.p.c., L. n. 98 del 2013, artt. 5 e 23, L. n. 69 del 2009, art. 60, art. 696 bis c.p.c., artt. 3,24,70,76,77,101,102,111 e 136 Cost., alla Direttiva 25 maggio 2008 n. 2008/52/Ce, alla risoluzione del Parlamento Europeo del 13 settembre 2011 n. 2011/2026 – Ini, alla risoluzione del Parlamento Europeo del 25 ottobre 2011 n. 2011/217 – Ini, e alla L. n. 87 del 1953, art. 27.

Lamenta la ricorrente che nei giudizi di primo e di secondo grado il procedimento di mediazione esperito dalla D.C. con istanza del 7 novembre 2012 ai sensi del D.Lgs. n. 28 del 2010 non avrebbe avuto efficacia per essere stato dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 272/2012 della Corte Costituzionale. Adduce quindi che il nuovo procedimento di mediazione introdotto dalla L. n. 98 del 2013 sarebbe stato di immediata applicazione perchè “norma processuale” e avrebbe potuto esperirsi dopo 30 giorni dall’entrata in vigore della legge stessa, restando comunque ferme le disposizioni prevedenti procedimenti obbligatori di mediazione. Il procedimento di mediazione sarebbe stato condizione di procedibilità della domanda, e l’improcedibilità avrebbe dovuto essere rilevata d’ufficio dal giudice alla prima udienza. Nel caso di specie, la prima udienza utilizzabile per dichiarare tale improcedibilità successiva alla I. 98/2013 sarebbe stata quella del 10 gennaio 2014, nella quale il difensore dell’attuale ricorrente avrebbe verbalizzato nel senso di chiedere di tentare la conciliazione/mediazione: ma il giudice non avrebbe rilevato la nullità nè avrebbe dato termine, come prescritto dalla L. n. 98 del 2013, per tentare la mediazione, rinviando peraltro all’udienza del 22 gennaio 2014 per la comparizione delle parti allo scopo di tentarne la conciliazione. In data 22 gennaio 2014 il difensore della L. avrebbe avuto un impedimento, per cui la causa fu rinviata al 7 marzo 2014, udienza nella quale il giudice non avrebbe rilevato d’ufficio l’improcedibilità e non avrebbe assegnato termini per tentare la mediazione, al contrario facendo svolgere la discussione e poi leggendo il dispositivo della sentenza. Di qui la nullità della sentenza di primo grado.

Il giudice d’appello, a sua volta, avrebbe dovuto rilevare d’ufficio la nullità, ma non avrebbe nè dichiarato l’improcedibilità del giudizio, nè rilevato d’ufficio la nullità, nè disposto per la mediazione tramite l’assegnazione di un termine di quindici giorni per avviarla. Da tutto ciò deriverebbe che questa Suprema Corte dovrebbe dichiarare improcedibile la domanda proposta dalla D.C. per mancata mediazione e rimettere le parti davanti al giudice d’appello affinchè fissi un’udienza e assegni alle parti un termine per presentare istanza di mediazione.

3.1.2 Il contenuto del motivo, in buona parte, corrisponde a quello del terzo motivo d’appello, aggiungendovi pure una doglianza concernente il secondo grado.

Nel terzo motivo d’appello, infatti, l’attuale ricorrente, quale appellante principale, aveva denunciato omesso esperimento della mediazione stragiudiziale ai sensi del D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 15, comma 2, come novellato appunto nel 2013, fondandosi sulla richiesta avanzata dalla sua difesa davanti al giudice di prime cure all’udienza del 10 gennaio 2014. La questione è stata correttamente trattata dal giudice d’appello, il quale, dopo avere dato atto della dichiarazione di incostituzionalità del D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, commi 1 e 2, avvenuta con la sentenza n. 272 del 6 dicembre 2012 emessa dalla Consulta – osservando che ciò, per l’efficacia retroattiva della decisione, priva di ogni rilievo l’eventuale inosservanza della norma incostituzionale: ma, in effetti, quel che a ben guardare persegue la ricorrente è l’applicazione dell’istituto come novellato nel 2013 -, considera anche il vigente testo normativo (motivazione, pagina 5s.).

In effetti, il D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5 come novellato dal D.L. n. 69 del 2013, art. 84, comma 1, convertito appunto con modifiche nella L. n. 98 del 2013, ai suoi commi 1 bis e 2, disciplina la mediazione, nel secondo comma in riferimento al giudizio d’appello. In particolare, il comma 1 bis, che impone una condizione di procedibilità della domanda giudiziale, proprio per questo non è pertinente, dal momento che quando fu esercitata l’azione dalla D.C. la norma ancora non esisteva nell’ordinamento (il ricorso ex art. 447 bis c.p.c. fu notificato dalla D.C. il 15 marzo 2012, come emerge dallo stesso ricorso); e la natura processuale della norma stessa non può significare un’applicazione retroattiva come quella che propugna la ricorrente – con evidenti effetti demolitori di tutto quanto fino all’entrata in vigore della norma compiuto secondo le regole vigenti -, visto per di più il principio di conservazione, strettamente connesso a quello dell’economia processuale, che costituisce cardine ermeneutico in riferimento all’individuazione della norma entro il relativo testo letterale.

Riguardo, poi, al comma 2, è del tutto agevole percepire che nello stadio d’appello non viene da esso configurata una automatica condizione di procedibilità, bensì una facoltà del giudice di creare tale condizione, alla luce di una valutazione discrezionale: fatto salvo, invero, quanto disposto nel comma 1 bis, nonchè nei seguenti commi 3 e 4 (di contenuto limitativo dell’istituto della mediazione, sia – il terzo comma – in riferimento a quel che comunque rssa non inibisce di attuare nell’immediatezza, sia – il quarto – in riferimento ai settori in cui non è dovuta), viene stabilito che “il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello”; seguono le indicazioni sull’emanazione e sull’attuazione del relativo provvedimento. Nel caso di specie, risulta pacifico che il giudice d’appello non ha ritenuto di avvalersi di tale facoltà.

E’ evidente, in conclusione, che il giudizio di primo grado è stato instaurato senza dover superare alcuna condizione di procedibilità, che pertanto il giudice di primo grado e il giudice di secondo non hanno dovuto dichiarare alcuna improcedibilità dell’azione, e, infine, che nel secondo grado non si è normativamente introdotta una condizione di procedibilità che sia stata illegittimamente non disposta dalla corte territoriale. Tutto il motivo, quindi, è infondato.

3.2 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza in relazione agli artt. 156,157 e art. 354 c.p.c., comma 3, art. 696 bis c.p.c. e L. n. 98 del 2013, art. 1 bis.

Fin dalla comparsa di costituzione in primo grado, l’attuale ricorrente aveva eccepito nullità ex art. 156 c.p.c., comma 2, avendo ella chiesto preliminarmente la revoca dell’ordinanza con cui era stata rimessa la causa “avanti all’ATP per l’esperimento del tentativo di conciliazione”. La nullità avrebbe dovuto essere sanata ai sensi dell’art. 157 c.p.c. con il completamento dell’accertamento tecnico preventivo mediante tentativo di conciliazione; ma il giudice di primo grado avrebbe omesso disporre tale sanatoria, per cui l’attuale ricorrente aveva censurato la relativa omissione nell’atto d’appello; e a sua volta, la corte territoriale avrebbe ritenuto che l’omesso tentativo di conciliazione non avrebbe precluso il giudizio di merito, in tal modo errando perchè si sarebbe integrata una fattispecie di nullità, per la funzione conciliativa dell’accertamento tecnico preventivo ex art. 696 bis c.p.c.

La doglianza è manifestamente infondata, giacchè l’art. 696 bis c.p.c., in riferimento al quale era stato disposto un accertamento tecnico preventivo, non è norma includente la previsione di una condizione di procedibilità, nè presidia con alcuna sanzione processuale – e quindi neppure con nullità – l’eventuale mancato completamento del procedimento.

L’art. 696 bis c.p.c., infatti, significativamente rubricato come “Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite”, si limita a stabilire la disponibilità di una consulenza tecnica al di fuori delle condizioni cautelari che ne costituiscono il presupposto nell’art. 696 c.p.c., comma 1, e ad assegnare al consulente, prima di provvedere al deposito della relazione, il compito di tentare, “ove possibile, la conciliazione delle parti”, conciliazione che, se si verifica, diviene titolo esecutivo. La norma, chiaramente, non include appunto alcuna processuale sanzione, il che non significa, ovviamente, che un simile istituto di conciliazione tecnica non possa di per sè integrare una condizione di procedibilità se viene espressamente stabilita in considerazione della fortemente tecnica natura fattuale della regiudicanda, così come, di recente, è stato disposto dalla L. 8 marzo 2017, n. 24, art. 1 bis.

3.3 Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 696 bis c.p.c., art. 698 c.p.c., comma 2, artt. 112,115 e 116 c.p.c. quanto allo svolgimento del procedimento di accertamento tecnico preventivo e ad asserita necessità di rimessione del procedimento “avanti l’ATP”.

La difesa dell’attuale ricorrente avrebbe chiesto al giudice di prime cure di rinviare il giudizio in attesa della definizione dell’accertamento tecnico ex art. 696 bis c.p.c.; il giudice, con ordinanza del 26 ottobre 2012, avrebbe rigettato l’istanza, e rinviato per la discussione al 14 dicembre 2012, udienza in cui il difensore avrebbe chiesto la revoca dell’ordinanza suddetta; il giudice si sarebbe riservato e avrebbe poi rinviato al 10 gennaio 2014 la causa per la discussione. Il 10 gennaio 2014 la causa sarebbe stata rinviata al 22 gennaio 2014 per comparizione delle parti a scopo di tentativo di conciliazione, e il 22 gennaio 2014, nonostante l’impedimento del difensore dell’attuale ricorrente, suo procuratore ad hoc per la conciliazione, il giudice avrebbe rinviato la causa al 7 marzo 2014 per la discussione. In quest’ultima udienza il giudice di primo grado non avrebbe rimesso la causa “avanti all’ATP”, giungendo invece alla lettura del dispositivo della sentenza; ciò avrebbe suscitato una censura della L. nell’atto d’appello, trattandosi di una omissione riguardo alla quale il giudice di secondo grado avrebbe errato. Adduce altresì la ricorrente che il tentativo di conciliazione si colloca in una progressiva valorizzazione dei metodi alternativi di composizione delle controversie, attribuita direttamente al consulente tecnico d’ufficio, per cui il procedimento ex art. 696 bis c.p.c. avrebbe dovuto essere completato.

Il motivo è stato dettagliatamente illustrato in quanto già la sua prima lettura dimostra che si tratta di una riproposizione del motivo precedente: l’art. 696 bis c.p.c., infatti, per nulla prevede che il giudizio di merito, avviato anche se il tentativo conciliativo previsto dalla suddetta norma non è stato espletato o comunque non è stato completato, sia fatto regredire appunto al procedimento conciliativo tecnico, come già si è più sopra osservato.

Il fatto poi che sussista effettivamente una tendenza legislativa alle soluzioni diverse dalla decisione giurisdizionale (le c.d. ADR) non ha alcuna incidenza sulla ritualità, nel caso in esame, sia del giudizio di primo grado, sia del giudizio di secondo grado, non essendo ravvisabile d’altronde alcun errore di diritto presente nella sentenza della corte territoriale per avere escluso ogni vizio derivante da incompletezza del procedimento ex art. 696 bis c.p.c.

3.4 Il quarto motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia violazione degli artt. 447 bis e 420 c.p.c. come modificato dalla L. n. 98 del 2013, art. 16.

Il difensore dell’attuale ricorrente avrebbe chiesto al giudice di primo grado di porre in essere il procedimento di conciliazione ai sensi dell’art. 447 bis c.p.c., richiamante l’art. 420 c.p.c., il quale prevede che all’udienza di discussione il giudice tenti la conciliazione; nel testo modificato dalla L. n. 98 del 2013, all’art. 420, comma dopo l’aggettivo “transattiva”, viene aggiunto “o 1 conciliativa”. L’istanza non sarebbe stata accolta e, riguardo il relativo motivo di impugnazione, la corte territoriale avrebbe affermato che l’art. 447 bis non richiama l’art. 410 c.p.c. Oppone la censura in esame che l’art. 447 bis richiama comunque l’art. 420 nel testo modificato appunto dalla L. n. 98 del 2013.

Premesso che l’art. 447 bis effettivamente non richiama l’art. 410, bensì l’art. 420 c.p.c., e che quest’ultimo, al comma 1, stabilisce tra l’altro che nell’udienza di discussione “il giudice interroga liberamente le parti presenti, tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta transattiva o conciliativa” (le parole “o conciliativa” essendo state effettivamente inserite dal D.L. n. 69 del 2013, art. 77 convertito con modificazioni in L. n. 98 del 2013), è peraltro ictu oculi evidente che tutto questo non inficia in alcun modo la decisione. Come già sopra si è rilevato, il giudizio di primo grado è stato instaurato prima della riforma del 2013; ma, comunque, il tentativo di conciliazione ex articolo 420 c.p.c., comma 1, non è presidiato da alcuna sanzione processuale se il giudice omette di espletarlo, potendo tutt’al più profilarsi, in tal caso, una sua responsabilità disciplinare, senza però – si ripete – che ciò generi un vizio del processo. Non ha quindi alcun rilievo, a tacer d’altro, il rigetto dell’istanza richiamata nel motivo.

3.5 Il quinto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 185 bis c.p.c., L. n. 98 del 2013, artt. 24 e 111 Cost., nonchè dei principi della Corte EDU.

Adduce la ricorrente che la sua difesa, in primo grado, avrebbe chiesto una procedura di conciliazione, anche ai sensi dell’art. 185 bis c.c., inserito nel codice dal D.L. n. 69 del 2013, convertito con modifiche in L. n. 98 del 2013. Il giudice però non avrebbe tenuto conto di tale richiesta e rinviato al 10 gennaio 2014 con ordinanza del 14 dicembre 2012. All’udienza del 10 gennaio 2014, su richiesta del difensore dell’attuale ricorrente di effettuare tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c., il giudice di primo grado avrebbe rinviato al 22 gennaio 2014 per la comparizione delle parti; il 22 gennaio 2014 il difensore dell’attuale ricorrente sarebbe stato impedito, “ma ciò non costituiva un valido motivo perchè il Giudice non formulasse la proposta conciliativa”. All’udienza del 7 marzo 2014 non vi sarebbe stato motivo perchè il giudice non sentisse le parti e non offrisse una proposta conciliativa, ma ciò non avrebbe fatto: di qui un motivo d’appello, respinto dalla corte territoriale con motivazione errata perchè dal verbale del 22 gennaio 2014 sarebbe risultato che il difensore, procuratore ad opera della L., “non si era presentato perchè i legali avversari avevano disatteso le istruzioni date loro”, ricavandosi altresì dal verbale del 7 marzo 2014 e “dagli atti” che non gli sarebbe stato consentito di parlare. Il giudice di primo grado non avrebbe formulato proposta conciliativa ex art. 185 bis c.p.c., pur sussistendone i presupposti; in tal modo sia il giudice di primo grado sia il giudice di secondo grado avrebbero violato gli artt. 24 e 111 Cost. e la sentenza 18 dicembre 2008 della Corte di Strasburgo in ordine ai diritti fondamentali di interloquire e di difendersi nel processo “come parte integrante di quelli generali del principio del contraddittorio volto all’accertamento della verità”, non garantendo “alla ricorrente tale diritto”.

Ancora una volta, la ricorrente non tiene conto, a tacer d’altro, del fatto che la legge processuale ordinariamente non è retroattiva, e che l’art. 185 bis c.p.c. ancora non esisteva quando fu avviato il giudizio di primo grado; d’altronde, l’art. 185 bis c.p.c. non interferisce con il diritto al contraddittorio, e rimette comunque ad una valutazione discrezionale del giudice (la formulazione della proposta avviene “ove possibile”) la sua applicazione nel senso di fornitura da parte del giudice di una proposta “transattiva o conciliativa”. Generici sono poi ulteriori argomenti come la pretesa impossibilità del difensore dell’attuale ricorrente di interloquire che emergerebbe, non è dato sapere come, “dagli atti”, e quindi senza identificazione specifica di quel che gli atti (quali, non è noto) dimostrerebbero. Per il resto, il motivo ripropone la sequenza processuale che aveva già descritto la ricorrente nelle doglianze precedenti, tentando di estrarre dall’asseritamente omesso tentativo di conciliazione un vizio che infici la decisione, vizio che invece la legge non prevede.

3.6 Il sesto motivo denuncia violazione degli artt. 696 bis, 698,61,191,196,115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c.

La difesa dell’attuale ricorrente avrebbe chiesto al giudice di primo grado di “non prendere in considerazione l’ATP redatta” (sic) ai sensi dell’art. 696 c.p.c., ma ciò il giudice avrebbe rigettato; di qui un motivo d’appello, nonostante il quale il giudice di secondo grado avrebbe considerato ai fini probatori solo l’accertamento tecnico preventivo espletato ai sensi dell’art. 696 bis c.p.c., laddove “l’ATP” sarebbe stato invalido; e i due giudici di merito “con le loro decisioni negative” avrebbero vanificato il procedimento ex articolo 696 vista anche la “valida utilizzabilità dell’ATP nel giudizio di merito”.

Il motivo, in effetti, è di contenuto assai confuso, che lo spinge nella genericità; tutt’al più è in esso ravvisabile una critica alla valutazione del compendio probatorio che in questa sede non è ammissibile.

3.7 Il settimo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatto discusso e decisivo e mancata ammissione di prove, lamentando altresì “il contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” in relazione agli artt. 61,191,196,696 bis, 244,245,112,114 e 116 c.p.c., art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 2697 c.c., nonchè la mancata ammissione di consulenza tecnica d’ufficio, delle prove testimoniali e della richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione proposta in primo grado.

L’attuale ricorrente avrebbe chiesto al giudice di prime cure di non prendere in considerazione l’ATP di cui all’art. 696 bis c.p.c. per le ragioni esposte nel quinto motivo, ma il giudice ciò non avrebbe considerato; di qui la relativa censura in atto di appello, ove fu lamentata anche la non ammissione delle prove orali. La corte territoriale non avrebbe raccolto queste doglianze; si richiamano al riguardo passi della motivazione della sentenza impugnata relativi a profili di merito, lamentando che il giudice di secondo grado avrebbe omesso di esaminare tutta la documentazione prodotta dalla ricorrente. A ciò fa seguito l’inserzione dei documenti prodotti con la memoria di costituzione in primo grado.

La descrizione del motivo ne evidenzia in modo del tutto inequivoco l’inammissibilità, giacchè, a parte il richiamo al precedente quinto motivo – come si è visto, privo di pregio -, è diretto ad ottenere dal giudice di legittimità una revisione dell’accertamento di merito attraverso la valutazione di elementi probatori e/o della omissione della loro assunzione, fondando il tutto su una diretta prospettazione fattuale alternativa e non identificando in modo congruo specifiche decisività non riconosciute dal giudice di merito.

3.8 L’ottavo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione agli articoli 112,114,116 e 345 c.p.c., art. 366 c.p.c., comma 1, art. 369 c.p.c., n. 4 e art. 2697 c.c., e omesso esame dei mezzi di prova richiesti in secondo grado.

A tacer d’altro, il motivo è chiaramente infondato, dal momento che la corte territoriale ha espletato la valutazione di tali istanze istruttorie a pagina 7s. della motivazione dell’impugnata sentenza.

Oltre a ciò, il motivo si attesta su un piano direttamente fattuale, argomentando sugli esiti di elementi probatori che la corte territoriale non avrebbe valorizzato in modo adeguato: la conseguenza anche sotto questo aspetto è una evidente inammissibilità, poichè viene ancora una volta perseguito un terzo grado di merito.

3.9 Il nono motivo lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza e del procedimento ex artt. 156 e 157 c.p.c. in relazione agli artt. 244,245,115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c.

Si deduce che la difesa dell’attuale ricorrente nel giudizio di primo grado si era opposta alla assunzione della prova richiesta da controparte “sulla circostanza dedotta con il capitolo tendente a provare” che la L. “dagli anni 90 al 2000 si recava mensilmente presso l’immobile di sua proprietà” a riscuotere l’affitto “perchè in tale circostanza avrebbe constatato la esistenza di opere non autorizzate”; la prova non sarebbe mai stata ammessa, ma il giudice di primo grado avrebbe dato per provati i fatti contenuti nel capitolo. Ciò sarebbe stato denunciato in appello e la corte territoriale non avrebbe “rilevato tale vizio”.

Il motivo, a tacer d’altro, viene presentato in modo generico, non indicando in quale modo la difesa dell’attuale ricorrente “si era opposta” all’assunzione della prova e come avrebbe contestato la circostanza in essa racchiusa, per cui incorre in inammissibilità.

3.10 Il decimo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza e del procedimento in rapporto agli artt. 244,245,91,115 e 116 c.p.c. in relazione alla L. n. 392 del 1978, artt. 11, 27 e 41 e all’art. 2697 c.c.

Si adduce che in primo grado la difesa dell’attuale ricorrente aveva sostenuto che il deposito cauzionale non doveva essere restituito perchè la D.C. “aveva installato un condizionatore d’aria sotto la finestra della stanzetta al primo piano appoggiando sulla copertura che aveva appositamente eretto sulla parte alta della corte al posto della ondulina in plastica in ispregio alle opere autorizzate al conduttore previste nei contratti di locazione”, dato che solo dalla rimozione del condizionatore sarebbe sorto il diritto del conduttore alla restituzione del deposito cauzionale. Ciò sarebbe stato accertato anche nell’accertamento tecnico preventivo, ma la D.C. non avrebbe adempiuto all’obbligazione di rimuovere l’opera non autorizzata e di rimettere in pristino. Di questo non avrebbe tenuto in conto il giudice di prime cure, e la corte territoriale non avrebbe poi accolto la relativa censura nel gravame.

Pur se schermata con il riferimento alle norme della L. n. 392 del 1978, la doglianza presenta, in realtà, una natura fattuale: la corte territoriale ha espletato la sua cognizione di merito in ordine alle opere non autorizzate che la locatrice imputava alla conduttrice, e il giudice di legittimità non può operare una revisione di tale accertamento, per i limiti propri della sua giurisdizione.

3.11 Il motivo undicesimo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità del procedimento e della sentenza per violazione dell’art. 435 c.p.c., art. 436 c.p.c., comma 3, artt. 437,91,112,156,161 e 170 c.p.c.

Lamenta la ricorrente che la corte territoriale ha accolto il ricorso incidentale della D.C. condannando la ricorrente stessa alla rifusione delle spese di lite di primo grado e delle spese del procedimento di accertamento tecnico preventivo incluse quelle della c.t.u. per un totale di Euro 4000, nonostante che, ai sensi dell’art. 436 c.p.c., comma 3, l’appello incidentale debba essere proposto nella memoria di costituzione da notificare a controparte prima dell’udienza fissata ex art. 435 c.p.c., mentre nel caso in esame l’appello incidentale non sarebbe mai stato notificato alla ricorrente, nè sarebbe mai stata fornita prima della discussione la prova della tempestività della notifica della memoria contenente l’appello incidentale. Pertanto il giudice d’appello avrebbe dovuto fissare nuova udienza di discussione assegnando all’appellante incidentale termine perentorio per la notificazione, cosa non fatta dalla corte territoriale, con conseguente nullità della sentenza. Inoltre la corte territoriale avrebbe rilevato che il D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, commi 1 e 2, era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, pertanto dichiarando di invalidità degli atti processuali compiuti in precedenza nel procedimento di mediazione in base a tale norma, ma condannando la ricorrente alle spese del giudizio.

Il motivo è a ben guardare inammissibile, dal momento che la ricorrente non adduce di non essersi difesa in ordine all’appello incidentale la cui proposizione sarebbe così viziata, non conformando quindi a livello concreto la sua prospettazione astratta – basilare di ogni altra doglianza in esso inserita – di lesione del diritto al contraddittorio.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato – non apparendo peraltro riconducibile alla fattispecie di responsabilità aggravata che viene prospettata nella parte finale del controricorso con argomentazioni generiche e assertive -, con conseguente condanna della ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Sussistono D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ex art. 13, comma 1 quater i presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art., comma 1 bis.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 3000, oltre a Euro 200 per esborsi e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018

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