Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27426 del 01/12/2020

Cassazione civile sez. lav., 01/12/2020, (ud. 29/09/2020, dep. 01/12/2020), n.27426

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28604/2017 proposto da:

D.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MERCURI 8,

presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO PAGANELLI, rappresentato e

difeso dall’avvocato FEDERICO D’ANNEO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE

DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI

PORTOGHESI N. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 64/2017 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 05/05/2017 R.G.N. 113/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/09/2020 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO Alessandro, che ha concluso per inammissibilità, in

subordine rigetto;

udito l’Avvocato FEDERICO D’ANNEO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Bologna ha respinto l’appello proposto da D.M. avverso la sentenza del Tribunale di Ferrara che aveva rigettato il ricorso volto ad ottenere la dichiarazione di nullità, illegittimità o inefficacia del provvedimento di decadenza dall’impiego adottato del D.P.R. n. 3 del 1957, ex art. 63, dall’Agenzia delle Entrate e la conseguente condanna dell’amministrazione alla riammissione in servizio ed al risarcimento del danno corrispondente alle retribuzioni maturate dalla data di cessazione del rapporto di impiego.

2. La Corte territoriale ha premesso che l’Agenzia aveva adottato l’atto impugnato perchè il D. non aveva ottemperato alla diffida con la quale era stato richiesto di cessare l’attività, incompatibile con il rapporto di impiego, di consulenza e assistenza fiscale svolta per conto del CAF UCI s.r.l. e del CAF USPIPIDAP s.r.l., attività che, secondo quanto accertato dalla Polizia Giudiziaria nell’ambito di un procedimento penale, l’impiegato aveva continuato a svolgere anche utilizzando impropriamente la banca dati dell’Anagrafe Tributaria.

3. Il giudice d’appello ha condiviso le conclusioni alle quali era pervenuto il Tribunale ed ha precisato al riguardo che quest’ultimo non aveva fondato la decisione sui soli elementi raccolti in sede penale, bensì aveva valutato questi ultimi nel contraddittorio fra le parti e congiuntamente alle risultanze istruttorie acquisite nel giudizio civile. Ha ritenuto infondati tutti i motivi d’appello formulati in relazione alla valutazione delle dichiarazioni rese dai testi ed ha, in sintesi, ritenuto che l’attività di consulenza fosse proseguita nonostante la diffida e che fosse stata meramente formale l’attribuzione della responsabilità del CAF al coniuge dell’appellante.

4. Per la cassazione della sentenza D.M. ha proposto ricorso sulla base di due motivi, ai quali l’Agenzia delle Entrate ha opposto difese con tempestivo controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 132 e 156 c.p.c., art. 111 Cost., art. 11 preleggi, art. 12 del Codice di comportamento ed addebita alla Corte territoriale di essersi adagiata sulla motivazione della sentenza del Tribunale senza fornire risposta alle critiche specifiche mosse con l’atto d’appello. Riporta ampi stralci dell’impugnazione e delle dichiarazioni testimoniali e sostiene che va ravvisata una motivazione meramente apparente qualora, come nella specie, il giudice d’appello rinvii alla pronuncia di primo grado senza dare conto delle ragioni per le quali quest’ultima debba essere condivisa, nonostante i rilievi mossi nell’atto di gravame.

2. La seconda censura addebita alla Corte territoriale di avere violato l’art. 115 c.p.c., nel porre a fondamento della decisione prove ritenute esistenti ma in realtà mai offerte.

Sostiene il ricorrente che il giudice d’appello sarebbe incorso in un errore di percezione quanto al contenuto oggettivo delle dichiarazioni rese dai testi e della produzione documentale incorrendo nel vizio di travisamento della prova, denunciabile anche nel giudizio di legittimità perchè estraneo all’attività valutativa in senso proprio.

3. Il ricorso è inammissibile perchè proposto oltre il termine previsto dall’art. 327 c.p.c., nel testo modificato dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 17, applicabile ai giudizi instaurati in primo grado in data successiva al 4 luglio 2009.

La sentenza impugnata è stata pubblicata il 5 maggio 2017 ed il ricorso per cassazione risulta avviato alla notifica il 27 novembre 2017, quando era già spirato, in data 6 novembre, il termine semestrale fissato dal richiamato art. 327 c.p.c., a pena di decadenza dall’impugnazione.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che “l’esclusione delle controversie di lavoro dalla sospensione feriale dei termini processuali, a norma della L. 7 ottobre 1969, n. 742, art. 3 e del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, art. 92, trova applicazione anche con riferimento ai giudizi di Cassazione (cfr., ex plurimis, Cass. 8 aprile 2002 n. 5015, 26 ottobre 2004 n. 20732, 18 gennaio 2006 n. 820, 8 maggio 2006n. 10452), comprese le controversie in materia di pubblico impiego privatizzato (Cass. 9 aprile 2004 n. 6956)” (Cass. S.U. n. 749/2007).

Parimenti consolidato è il principio secondo cui la tardività del ricorso deve essere rilevata d’ufficio (cfr. fra le più recenti Cass. n. 10212/2019) ed il rilievo è sottratto alla regola espressa dall’art. 384 c.p.c., comma 3 – la quale impone al giudice di provocare il contraddittorio sulla questione rilevata d’ufficio -, che è da riferirsi soltanto all’ipotesi in cui la Corte ritenga di dover decidere nel merito (Cass. n. 15964/2011).

4. Alla dichiarazione di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2020

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