Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27419 del 01/12/2020

Cassazione civile sez. lav., 01/12/2020, (ud. 16/09/2020, dep. 01/12/2020), n.27419

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17455/2016 proposto da:

P.L., B.M., L.S., PA.PI.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE LIBIA 4, presso lo studio

dell’avvocato ALESSANDRO GALIENA, rappresentati e difesi

dall’avvocato ALDO CAMPESAN;

– ricorrenti principali –

CASINO’ MUNICIPALE DI VENEZIA GIOCO S.P.A., già CASINO’ MUNICIPALE

DI VENEZIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo

studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, rappresentata e difesa

dall’avvocato ADALBERTO PERULLI;

– controricorrente – ricorrente e incidentale –

avverso la sentenza n. 559/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 07/01/2016 R.G.N. 1493/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/09/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso

principale per quanto di ragione, rigetto ricorso incidentale

condizionato;

udito l’Avvocato ALDO CAMPESAN;

udito l’Avvocato ADALBERTO PERULLI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Venezia, accogliendo l’impugnazione proposta dal Casinò Municipale di Venezia s.p.a., in riforma della sentenza resa dal giudice di primo grado, ha rigettato la domanda proposta da G.M., P.L., Pa.Pi., L.S. e B.M. – tutti dipendenti di Casinò Municipale di Venezia s.p.a., nel settore roulette francese e giochi americani – volta ad ottenere l’accertamento del loro diritto a percepire il trattamento economico minimo garantito da una clausola (art. 48) del contratto collettivo aziendale vigente a partire dal 1990, reiterata nei vari contratti succedutisi nel tempo.

2. La Corte territoriale ha ritenuto corretto, sulla base dell’interpretazione logico letterale della clausola contrattuale, il criterio adottato dal Casinò, secondo cui il calcolo del minimo garantito sulle mance pro capite doveva avvenire con riferimento alla sola quota di incassi delle mance destinata ai dipendenti, ossia sul 50% anzichè sul 100% degli incassi totali.

3. Avverso la sentenza, P.L., Pa.Pi., L.S. e B.M. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi; Casinò di Venezia Gioco s.p.a. (già Casinò Municipale di Venezia Gioco s.p.a.) resiste con tempestivo controricorso e ricorso incidentale condizionato affidato a due motivi.

4. Casinò di Venezia Gioco s.p.a. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso principale parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli accordi collettivi e degli artt. 1362,1363,1364,1365,1366,1367,1368 e 1369 c.c., nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti. Premesso che, per come pacifico in causa, la genesi della previsione collettiva risiedeva nell’esigenza di tutelare i dipendenti a fronte dell’eventualità di una possibile diminuzione del monte mance pro capite quale conseguenza dell’aumento dell’organico, che a tal fine era stato convenuto il parametro di Lire 2.790 per ogni milione indiviso di mancia, deduce l’errore del giudice di merito, frutto della violazione delle regole legali di interpretazione, nel ritenere che il relativo importo dovesse calcolarsi con riferimento alla sola quota di incassi destinata ai dipendenti, ossia sul 50% anzichè sul 100% degli incassi totali; tale errore era dimostrato dalle richiamate formule algebriche alla stregua delle quali, in sintesi, risultava che l’importo di Lire 2.790 quale minimo garantito era frutto della operazione che suddivideva ciascun milione per metà, dividendo il risultato per 179 (divisore corrispondente al numero complessivo dei punti del personale all’epoca in organico); tale operazione si fondava già sulla ripartizione delle mance fra i dipendenti ed il Casinò e pertanto non appariva giustificata la ulteriore riduzione cui conduceva la interpretazione condivisa dalla Corte alla stregua della quale la verifica del rispetto del minimo garantito andava effettuata in relazione al solo monte mance di pertinenza dei lavoratori.

2. Con il secondo motivo di ricorso principale deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli accordi collettivi e degli artt. 1362,1363,1364,1365,1366,1367,1368 e 1369 c.c., nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti. Censura la sentenza impugnata per avere attribuito all’espressione utilizzata dalle parti collettive riferita al “milione indiviso di mancia” il significato di mero presupposto, mero termine di raffronto del ragionamento matematico alla base del decisum laddove – sostiene – tale espressione esplicitava, in coerenza con le richiamate formule algebriche, la base di calcolo, corrispondente al totale dell’incasso delle mance, per la determinazione del minimo garantito in favore dei dipendenti.

Denunzia, quindi omesso esame con riguardo al significato effettivo e matematico della locuzione “milione indiviso”; sostiene che con tale espressione le parti avevano inteso riferirsi al milione di mance introitato dal Casinò e non al milione di mance di spettanza dei lavoratori.

3. Con il terzo motivo di ricorso principale deduce ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli accordi collettivi e degli artt. 1362,1363,1364,1365,1366,1367,1368 e 1369 c.c., nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti. Con tale motivo contrasta il ragionamento seguito dal giudice di appello che assume affetto da errore e contraddittorietà nel ritenere che la base di calcolo dell’integrazione dovesse corrispondere alla metà del monte mance di pertinenza dei lavoratori; la garanzia prevista nella pattuizione contrattuale non voleva smentire il principio della ripartizione delle mance tra i lavoratori e il Casinò ma si poneva come norma di chiusura a garanzia dei dipendenti, in coerenza con le esigenze ispiratrici della norma collettiva. Si duole, quindi, che il giudice di merito, dopo avere ritenuto insufficiente il dato letterale, non avesse utilizzato i criteri ermeneutici di legge nel pervenire alla ricostruzione della comune volontà delle parti; in particolare, era mancata la considerazione del comportamento successivo delle parti non avendo la Corte di merito valorizzato le chiare indicazioni – favorevoli ai lavoratori – provenienti dalla prova testimoniale; era mancata la valutazione d’insieme delle clausole nonchè il ricorso al criterio residuale dell’equo contemperamento degli interessi delle parti.

4. Con il quarto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli accordi collettivi e degli artt. 1362,1363,1364,1365,1366,1367,1368 e 1369 c.c., nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti. Censura la decisione in punto di ricostruzione della comune volontà degli stipulanti nel senso contestato e richiama a tal fine l’Accordo in data 5.4.2007 con il quale l’Azienda si era resa disponibile a variare la percentuale di divisione delle mance nel senso del riconoscimento di una più favorevole percentuale di assegnazione ai lavoratori rispetto all’Azienda; tale accordo era rivelatore della consapevolezza del Casinò della corposità del valore economico e del sacrificio imposto alla parte datoriale attraverso il parametro di Lire 2.790.

5. Con il quinto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli accordi collettivi e degli artt. 1362,1363,1364,1365,1366,1367,1368 e 1369 c.c., nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti. Censura la sentenza impugnata per avere valorizzato il fatto che alla clausola collettiva fosse stata data attuazione nei termini sostenuti dal Casinò e contesta al riguardo la significatività della documentazione prodotta da controparte denunziando altresì il travisamento della prova orale richiamata dal giudice di appello.

6. Con l’unico motivo di ricorso incidentale condizionato il Casinò di Venezia Gioco s.p.a. deduce error in procedendo in relazione agli artt. 161 e 102 c.p.c., censurando la sentenza di appello per avere respinto la eccezione di nullità delle sentenze di primo grado, non definitiva e definitiva, eccezione fondata sulla mancata integrazione del contraddittorio nei confronti dell’associazione non riconosciuta Comunione Proventi Aleatori, indicata quale litisconsorte necessaria nella controversia.

7. Preliminarmente occorre dare atto che la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, comma 1, come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2 – che attribuisce a questa Corte, limitatamente ai contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, un sindacato in funzione “paranomofilattica” (Cass. 18/12/2014, n. 26738; Cass. 19.3.2014; Cass. 19./03/2014, n. 6335; Cass. Sez. Un. 23/09/2010, n. 20075) -, non esclude per i contratti collettivi di carattere aziendale, quale quello in oggetto, il sindacato di legittimità, che può estendersi all’interpretazione di ogni atto negoziale riguardo ai vizi di motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, oppure alla violazione delle norme di ermeneutica dettate dagli artt. 1362 c.c. e segg., ai sensi del n. 3 della disposizione citata.

8. I motivi del ricorso principale, esaminati congiuntamente per connessione in quanto tutti intesi a contrastare il risultato interpretativo al quale è pervenuta la decisione impugnata, sono infondati.

8.1. La clausola del contratto collettivo aziendale, vigente a partire dal 1990 e, per come pacifico, reiterata, con mere variazioni lessicali, nei vari contratti succedutisi nel tempo, nel suo tenore testuale riportato nella sentenza qui impugnata è il seguente: “Per tutta la durata del presente contratto le mance ai tavoli da gioco sono ripartite tra l’Azienda e il personale nella misura percentuale in atto e cioè: roulette, 30/40, craps e black jack: 50% all’Azienda e 50% al personale; comunque agli aventi diritto del reparto roulette sarà assicurato, da parte dell’Azienda, un minimo garantito di lire 2.790=pro-quota per ogni milione indiviso di mancia, secondo la ripartizione vigente al 31/12/1990, garantendo il rispetto dell’istituto previsto dall’art. 3 del presente contratto; b) chemin de fer: 54% all’Azienda e 46% al personale”.

8.2. Il risultato interpretativo cui è approdata la Corte di merito nell’affermare che il calcolo del minimo garantito sulle mance pro capite doveva avvenire con riferimento alla sola quota di incassi delle mance destinata ai dipendenti, ossia sul 50% anzichè sul 100% degli incassi totali è stato fondato sulle seguenti considerazioni: a) era da escludere che la modifica intervenuta tra la dizione originaria dell’art. 48 contratto collettivo aziendale che faceva espresso riferimento alla somma di Lire 2.790 quale minimo garantito pro quota per ogni milione indiviso di mancia e quella delle versioni successive che avevano utilizzato la espressione “minimo garantito individuato pro quota per milione indiviso di mancia” avesse portata sostanziale in quanto l’importo minimo garantito era sempre rimasto quello di Lire 2.790 pro quota per ogni milione indiviso di mancia; b) la disposizione relativa al minimo garantito era stata introdotta per assicurare i dipendenti addetti al settore roulette dal rischio di una riduzione di mance pro capite quale conseguenza dell’aumento dell’organico determinata dall’apertura di una nuova casa da gioco e dalla diffusione dei giochi che non comportavano la riscossione di mance a discapito dei giochi tradizionali; c) il valore di Lire 2.790, per come non contestato e comunque confermato dalla prova orale, era stato ottenuto dividendo Lire 500.000 (pari alla metà di un milione, e corrispondente alla percentuale di mance incassate destinate al personale) per 179, corrispondente al numero totale dei punti mancia riferito al personale in organico al dicembre 1990, calcolato in applicazione del regolamento; il risultato di tale operazione, pari a Lire 2.793, era stato arrotondato a Lire 2.790; d) a fronte di una clausola di significato letterale non chiaro ed inequivoco, astrattamente idonea a sorreggere entrambe le contrapposte tesi delle parti, lo sforzo interpretativo doveva muovere dal rilievo che i soggetti stipulanti avevano voluto letteralmente tenere fermo il principio della ripartizione delle mance, fra i lavoratori ed il Casinò nella misura in atto, pari al 50h del totale complessivo; alla luce di tale puntualizzazione andava letta la frase successiva la quale nel precisare comunque agli aventi diritto del reparto roulette sarà assicurato, da parte dell’Azienda, un minimo garantito di Lire 2.790=pro-quota per ogni milione indiviso di mancia aveva solo inteso evocare il punto di partenza del meccanismo di determinazione del minimo garantito e cioè il milione indiviso di mance ma non anche riconoscere che l’integrazione del minimo garantito dovesse essere effettuata sull’intero monte mance; non decisivo al fine della opposta lettura l’avverbio comunque, che introduce la proposizione, il quale si limitava a prevedere una deroga contenuta al principio della divisione a metà; e) inoltre, le parti avevano preso quale base aritmetica per determinare il minimo garantito sul totale del milione di mance la metà, pari a Lire 500.000, e quindi, logicamente, per la necessità di omogeneità dei riferimento, anche la base di calcolo della integrazione doveva corrispondere alla metà di pertinenza dei lavoratori; era da respingere a riguardo l’argomento secondo il quale in tal modo si sarebbe verificata una duplice riduzione (la prima nel calcolo del dividendo e la seconda nella determinazione del monte mance) posto che secondo quanto emergeva dalla lettera della clausola le parti non avevano inteso introdurre una regola di ripartizione delle mance in sè ma avevano, fermo il criterio di ripartizione a metà, inteso porre a carico della parte datoriale solo un obbligo di integrazione in via eventuale, al quale il datore di lavoro avrebbe fatto fronte attingendo alla propria metà; l’espressione milione indiviso di mancia preceduta dal riferimento al pro quota era idonea a sorreggere l’affermazione che il minimo garantito dovesse essere verificato con riferimento alla sola quota di spettanza dei dipendenti e non anche sull’intero; f) il comportamento complessivo delle parti, anche posteriore, rilevante ex art. 1362 c.c., confermava l’interpretazione adottata nè vi erano elementi, non allegati dalle parti, per ritenere, sotto il profilo della comune intenzione degli stipulanti, che il Casinò avrebbe accettato la introduzione di un meccanismo che non si limitava a prevedere un obbligo di integrazione su un importo minimo ma finiva con l’addossare alla sola parte datoriale le conseguenze negative per i dipendenti connesse all’aumento di organico; la esistenza di un’ ipotesi accordo nel luglio 2007, con il quale il Casinò si dichiarava disponibile a variare la percentuale delle mance in senso più favorevole ai lavoratori, costituiva, a differenza di quanto sostenuto dagli originari ricorrenti, argomento a sostegno della interpretazione adottata in quanto proprio il fatto che un accordo successivo avesse avuto a esplicito e specifico oggetto la percentuale di ripartizione delle mance confermava che con la clausola in controversia le parti avevano inteso apportare un correttivo minimo, sostanzialmente non sensibile a modesti aumenti di organico, all’impianto della divisione a metà del monte mance; infine, a conferma della ricostruzione della comune volontà delle parti nei termini sopraindicati era la prova orale e documentale che dimostrava come, senza contestazione alcuna da parte dei dipendenti, le modalità di determinazione concreta del minimo garantito fossero state computate dall’Azienda sulla base della sola percentuale di mance spettante ai lavoratori.

9. Le censure formulate con i motivi in esame non sono articolate con modalità idonee ad inficiare le argomentazioni che sorreggono la interpretazione della clausola in oggetto fatta propria dalla sentenza di appello.

9.1. La condivisibile giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione; ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato mentre la denuncia del vizio di motivazione dev’essere, invece, effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass. 03/09/2010 n. 19044; Cass. 12/07/2007 n. 15604, in motivazione; Cass. 22/02/2007 n. 4178) dovendosi escludere che la semplice contrapposizione dell’interpretazione proposta dal ricorrente a quella accolta nella sentenza impugnata rilevi ai fini dell’annullamento di quest’ultima (Cass. 06/06/2013 n. 14318; Cass. 22/11/2010, n. 23635).

Quanto al vizio di motivazione la giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidata (tra le più recenti, Cass. Sez. Un. 30/12/2018 n. 33679) nell’affermare che: – il novellato testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134), applicabile ratione temporis, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre ad avere carattere decisivo; – l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; – neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della predetta norma; – nel giudizio di legittimità è denunciabile solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, in quanto attiene all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, risolvendosi nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.

9.2. Le modalità di articolazione delle censure formulate dalla parte ricorrente principale non sono conformi alle richiamate indicazioni. In particolare, la denunzia, sotto vari profili, della violazione delle regole legali di interpretazioni, nelle quali si sostanziano le violazioni di legge denunziate con i motivi in esame si sviluppa secondo un’impostazione per così dire meramente contrappositiva alla interpretazione adottata dalla Corte di merito, in quanto si limita a prospettare una possibile, diversa ricostruzione ermeneutica del contenuto della clausola in esame alla luce dei criteri legali di interpretazione, senza dimostrare lo specifico errore di diritto, rifluente nelle violazione delle regole legali di interpretazione, ascritto alla sentenza impugnata.

9.3. Può ulteriormente soggiungersi con specifico riferimento al primo motivo, in relazione alla denunzia di “omesso esame” formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che parte ricorrente non indica alcuno specifico fatto storico, nel senso sopra chiarito, il cui esame, avente valenza decisiva, sarebbe stato omesso dalla Corte di merito; men che meno tale fatto potrebbe identificarsi, come sembra prospettare parte ricorrente, con il meccanismo, implicante la dimidiazione del complessivo monte mance attraverso il quale si era pervenuti alla determinazione del parametro di Lire 2.790 al quale rapportare la individuazione del minimo garantito; ciò per l’assorbente considerazione che si tratta di un dato espressamente considerato dal giudice di appello. In merito all’osservazione del ricorrente, sorretta dal richiamo a formule algebriche, che nell’operazione all’esito della quale è stato determinato l’importo minimo garantito c’è già la ripartizione percentuale delle mance tra Casinò e dipendenti di talchè non sarebbe consentito operare una ulteriore dimidiazione del monte mance di riferimento, si rileva che l’argomento della pregressa ripartizione percentuale non è dirimente apparendo, anzi, coerente da un punto di vista logico, che una volta preso quale base aritmetica per determinare il minimo garantito sul totale del milione di mance la metà, pari a Lire 500.000, anche la base di calcolo della integrazione sia calcolata sulla metà di pertinenza dei lavoratori secondo esigenze di omogeneità dei parametri in discussione. Infine, in via generale, le invocate formule algebriche, non sono rivelatrici, come preteso dai ricorrenti, dell’errore nel quale sarebbe incorsa la Corte di merito in quanto costituiscono esse stesse la traduzione in termini matematici di una ricostruzione concettuale frutto dell’adesione ad una determinata opzione interpretativa.

9.4. Il secondo motivo, fermo quanto osservato in via generale in tema di impostazione meramente contrappositiva con riferimento alla denunzia violazione delle regole legali di interpretazione, è inammissibile laddove denunzia omesso esame di un fatto storico con riferimento alla espressione “ogni milione indiviso di mance”, posto che tale riferimento non evoca alcun fatto storico fenomenico nel senso chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte sopra richiamata ma si configura come l’oggetto medesimo della attività interpretativa della Corte di merito la quale, peraltro, è pervenuta all’interpretazione contestata confrontandosi specificamente con i possibili contenuti in astratto ascrivibili a tale espressione.

9.3. Analoghe considerazioni sorreggono il rigetto del terzo motivo di ricorso mancando anche in questo caso, in relazione alla denunzia di vizio motivazionale, la corretta identificazione del fatto storico il cui esame sarebbe stato omesso; quanto alla violazione delle regole legali di interpretazione l’illustrazione del motivo non chiarisce in che modo si sarebbe consumata la violazione degli specifici criteri legai di interpretazione; in particolare, parte ricorrente, in relazione al possibile significato dell’avverbio comunque presente nella clausola, si limita ad opporre alla interpretazione della Corte la propria interpretazione in termini assertivi, senza confrontarsi con i passaggi argomentativi della sentenza impugnata che hanno portato alla soluzione contrastata. Quanto alla ricerca della comune volontà degli stipulanti la Corte di merito ha espressamente fatto riferimento a tale canone interpretativo laddove ha ritenuto, sulla scorta delle emergenze in atti, che il comportamento successivo delle parti avvalorasse l’assunto del calcolo del minimo garantito sulla sola percentuale di mance spettante ai lavoratori; la valutazione degli elementi ritenuti significativi da parte del giudice di secondo grado investe profili attinenti al merito e si sottrae pertanto al sindacato di legittimità.

9.4. Il quarto ed il quinto motivo di ricorso sono anch’essi privi di pregio in quanto incentrati sul significato probatorio di elementi tratti da acquisizioni istruttorie (tali ad es. l’ipotesi di accordo dell’anno 2007,ulteriori elementi documentali, deposizioni testimoniali) e cioè su profili che investono apprezzamenti riservati al giudice di merito ed in quanto tali, come già sopra evidenziato, sottratti al sindacato di legittimità; tanto assorbe il rilievo di inammissibilità delle censure, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, legato alla mancata compiuta trascrizione delle risultanze documentali e delle deposizioni testimoniali ed alla omessa indicazione di dati utili alla relativa reperibilità nell’ambito del fascicolo di merito.

10. Il rigetto dei motivi di ricorso principale assorbe l’esame del motivo di ricorso incidentale.

11. Le spese di lite sono regolate secondo soccombenza.

12. Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti principali dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis (Cass. Sez. Un. 10/09/2019, n. 23535).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale assorbito il ricorso incidentale. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 6.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti principali dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 16 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2020

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