Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27414 del 01/12/2020

Cassazione civile sez. VI, 01/12/2020, (ud. 25/09/2020, dep. 01/12/2020), n.27414

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1276/2018 R.G. proposto da:

S.C., rappresentata e difesa, per procura speciale in calce

al ricorso, dall’avv. mauro VIVALDI, presso il cui studio legale,

sito in Livorno, alla via Ricasoli, n. 118, è elettivamente

domiciliata;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei

Portoghesi n. 12;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 1078/10/2018 della Commissione tributaria

regionale della TOSCANA, Sezione staccata di LIVORNO, depositata il

30/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 25/09/2020 dal Consigliere Dott. LUCIOTTI Lucio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

– in controversia relativa ad impugnazione di un avviso di accertamento di un maggiori reddito d’impresa ai fini IVA, IRES ed IRAP per l’anno d’imposta 2011 emesso dall’Agenzia delle entrate nei confronti di S.C., titolare della ditta individuale denominata “I piccoli piaceri”, esercente l’attività di produzione di pasticceria fresca all’ingrosso, sulla scorta delle risultanze di un p.v.c. redatto dalla G.d.F., con la sentenza in epigrafe indicata la CTR rigettava l’appello principale della contribuente ritenendo corretto l’accertamento del maggior reddito effettuato con metodo analitico-induttivo, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d), stante l’inattendibilità dello studio di settore allegato alla dichiarazione dei redditi e delle scritture contabili, in quanto vi risultavano registrate “due fatture passive emesse dal coniuge, R.M., per forniture annuali, non supportate da alcun documento di trasporto, nè da alcun riferimento alle forniture avvenute nel corso dell’anno”, nonchè fatture di vendita senza indicazione della tipologia dei prodotti venduti, e considerando, inoltre, che “la situazione reddituale della sig.ra S. doveva ritenersi al riguardo compromessa per i notevoli costi per lavoro dipendente (in contrasto con il reddito d’impresa) nonchè per il possesso di autoveicoli”, non compatibili con il modestissimo importo di reddito dichiarato, pari a 9.260,00 Euro; riteneva, altresì, infondate le censure riferibili all’inattendibilità delle dichiarazioni rese dai dipendenti della contribuente, all’uso del tipo di farina e alla percentuale di sfrido, rilevando, da un lato, che non era giustificabile che quotidianamente venissero prodotte “centinaia di pezzi” rimasti invenduti e, dall’altro, che la contribuente non aveva offerto “nessuna valida prova della propria pretesa fiscale”, che riteneva non acquisibile mediante la consulenza tecnica d’ufficio sollecitata dalla parte;

– avverso tale statuizione la contribuente propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui replica l’intimata con controricorso e ricorso incidentale affidato a due motivi;

– sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis c.p.c., risulta regolarmente costituito il contraddittorio, all’esito del quale la ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di ricorso principale la ricorrente deduce la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e art. 2769 c.c., sostenendo che le irregolarità riscontrate nell’indicazione dei dati dello studio di settore non erano tali da “rendere inattendibile la contabilità nel suo complesso” e, pertanto, tale circostanza non poteva costituire presunzione idonea a fondare la pretesa di maggiori redditi.

2. Il motivo è manifestamente infondato atteso che, come si evince dal D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, convertito con modificazioni dalla L. n. 427 del 1993, gli studi di settore costituiscono solo uno degli strumenti utilizzabili dall’amministrazione finanziaria per accertare in via induttiva il reddito reale del contribuente in presenza di una contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile. Sicchè, anche a prescindere dagli studi di settore, è ben possibile all’Amministrazione fare uso delle incongruenze emergenti dallo studio di settore a fini accertativi, essendo le stesse di per sè suscettibili di evidenziare che lo stato economico della ditta presenta caratteristiche di stranezza, di singolarità e di contrasto con elementari regole economiche, tali da renderlo immediatamente percepibile come inattendibile secondo la comune esperienza (cfr. Cass. 26341/09). E non può revocarsi in dubbio che le anomalie gestionali riscontrate, nel caso concreto, in sede di accertamento fossero, di per sè, tali da giustificare il ricorso all’accertamento analitico-induttivo, a prescindere dalle risultanze degli specifici studi di settore. Invero, la CTR ha dato atto nella sentenza impugnata che l’accertamento del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d), nella specie trovava giustificazione non solo e non tanto nella inattendibilità dei dati esposti nello studio di settore, ma anche e soprattutto nelle irregolarità contabili riscontrate e nella condotta antieconomica tenuta dalla contribuente, come ampiamente riportato nella parte espositiva dei fatti di causa; circostanze che la ricorrente ha del tutto omesso di considerare nel motivo in esame.

3. Al riguardo, precisato che “In tema di rettifica dei redditi d’impresa, l’accertamento analitico induttivo presuppone, a differenza di quello induttivo “puro”, che la documentazione contabile sia nel complesso attendibile, sicchè la ricostruzione fondata sulle presunzioni semplici, di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), non ha ad oggetto il reddito nella sua totalità, ma singoli elementi attivi e passivi, dei quali risulta provata “aliunde” la mancanza o l’inesattezza” (Cass. n. 7025 del 2018) e che “In tema di accertamento dei redditi di impresa ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, la ricorrenza dei presupposti per l’accertamento induttivo (anche nella ipotesi di inattendibilità dell’intera contabilità) non comporta l’obbligo dell’ufficio di avvalersi di tale metodo di accertamento, ma costituisce una mera facoltà che non preclude, pertanto, la possibilità di procedere ad una valutazione analitica dei dati comunque emergenti dalle scritture dell’imprenditore” (Cass. n. 18934 del 2018), pare opportuno ricordare che “L’accertamento con metodo analitico-induttivo, con cui il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorchè di rilevante importo, è consentito, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacchè la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata” (Cass. n. 20060 del 2014) e che “l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, commi 2 e 3, sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni” (Cass. n. 26036 del 2015)

4. Per tali ragioni, pertanto, la censura in esame va rigettata.

5. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., art. 2697 c.c. e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 2, sostenendo che aveva errato la CTR nel rigettare la richiesta di consulenza tecnica d’ufficio diretta ad accertare le caratteristiche tecniche della farina utilizzata nell’anno in verifica, omettendo di adeguatamente valutare la documentazione all’uopo prodotta da cui emergeva una resa di quella prodotta dalla Spigadoro Molini s.p.a., utilizzata nell’anno in verifica, inferiore rispetto a quella prodotta invece dalla Progeo Molini soc. coop. agricola, divenuta sua fornitrice in sostituzione della prima.

6. Il motivo è infondato avendo la CTR correttamente rilevato la superfluità della consulenza tecnica diretta alla verifica della differenza di resa tra le farine utilizzate, anche in considerazione del fatto, accertato dalla CTR, che quest’ultima aveva prodotto quotidianamente, nell’anno oggetto di verifica, “centinaia di pezzi” che non era riuscita a vendere “in nessuna giornata di lavoro” (sentenza, pag. 6).

7. Al riguardo va in ogni caso ricordato che “Anche nel processo tributario, la consulenza tecnica d’ufficio è mezzo istruttorio – e non prova vera e propria – sottratto alla disponibilità delle parti ed affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, nel cui potere discrezionale rientra la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario giudiziario, potendo motivare l’eventuale diniego anche implicitamente, con argomentazioni desumibili dal contesto generale e dal quadro probatorio unitariamente considerato”. (Cass. n. 25253 del 2019). In buona sostanza, la facoltà di disporre una CTU per accertare un fatto controverso rimane pur sempre frutto di una valutazione discrezionale e non obbligatoria, come tale non censurabile in sede di legittimità, essendo insufficiente la mera affermazione dell’esistenza del presupposto, specie quando l’accertamento risulti, come nel caso di specie, superfluo ed addirittura smentito dalle risultanze processuali, giacchè, se anche fosse vera la notevole differenza di resa tra il tipo di farina utilizzata nell’anno in verifica e quella successivamente acquistata, comunque ciò non spiegherebbe il comportamento antieconomico tenuto dalla contribuente, che la CTR ha accertato non aver mai venduto quanto giornalmente prodotto.

8. Con il terzo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame da parte dei giudici di appello di fatti decisivi ai fini del giudizio. Al riguardo sostiene che la CTR aveva ritenuto valide le dichiarazioni rese da alcuni dipendenti della ditta senza tener conto che le stesse erano state rese con riferimento all’epoca in cui era stata effettuata la verifica e senza tenere conto dei “profondi mutamenti del processo produttivo dell’impresa” che nell’anno d’imposta 2011 si trovava al secondo anno di attività, che non aveva “approfondito la ricerca e la lettura degli elementi documentali prodotti dalla contribuente” con riferimento alla questione della “resa” della farina all’epoca utilizzata e che aveva omesso l’esame dell’elenco clienti (n. 55 nell’anno in verifica) che avrebbe giustificato il rilevato comportamento antieconomico, potendo la vendita subire, secondo Vid quod plerumque accidit, “variazioni quantitative nella misura media di 7-10 pezzi giornalieri” (ricorso, pag. 13).

9. Il motivo incorre nell’inammissibilità di cui all’art. 348-ter c.p.c., comma 5, vertendosi in ipotesi di c.d. doppia conforme rispetto alla quale la ricorrente non ha indicato profili di divergenza tra le ragioni di fatto a base della decisione di primo grado e quelle a base del rigetto dell’appello, com’era invece necessario per dar ingresso alla censura ex art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. Cass. nn. 26774/2016, 5528/2014).

10. Il motivo è comunque inammissibile sotto altri diversi profili. Innanzitutto per difetto di autosufficienza sia con riferimento alle dichiarazioni rese dai dipendenti, il cui contenuto non risulta trascritto nel ricorso, sia con riferimento alle schede clienti, di cui non risulta indicato il luogo, il tempo ed il modo di produzione nel giudizio di merito, nulla emergendo dalla sentenza impugnata.

10.1. Al riguardo deve ricordarsi il principio in base al quale “Qualora il ricorrente, in sede di legittimità, denunci l’omessa valutazione di prove documentali, per il principio di autosufficienza ha l’onere non solo di trascrivere il testo integrale, o la parte significativa del documento nel ricorso per cassazione, al fine di consentire il vaglio di decisività, ma anche di specificare gli argomenti, deduzioni o istanze che, in relazione alla pretesa fatta valere, siano state formulate nel giudizio di merito, pena l’irrilevanza giuridica della sola produzione, che non assicura il contraddittorio e non comporta, quindi, per il giudice alcun onere di esame, e ancora meno di considerazione dei documenti stessi ai fini della decisione.(Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso con il quale la parte si era limitata ad indicare i documenti non esaminati dal giudice di merito senza trascriverne specificamente il contenuto)” (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 13625 del 21/05/2019).

10.2. Deve, peraltro, ricordarsi che “L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 27415 del 29/10/2018).

11. Il motivo è inoltre inammissibile in quanto la ricorrente, là dove prospetta, con riferimento alla questione delle dichiarazioni rese dai dipendenti e a quella relativa alla resa produttiva della farina, una insufficiente valutazione delle risultanze processuali, mira ad una non consentita rivalutazione delle risultanze processuali.

12. Con i due motivi di ricorso incidentale, al cui esame deve quindi passarsi, la difesa erariale deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109 censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto deducibile il costo per carburanti nonostante nel libro dei cespiti ammortizzabili non risultasse indicato alcun automezzo ed il predetto costo era relativo all’utilizzazione di mezzi di proprietà del coniuge (primo motivo) e per avere ritenuto detraibile l’IVA relativa al costo per l’acquisto di un autocarro inserito nel libro dei cespiti ammortizzabili nell’anno 2011 ma intestato alla contribuente soltanto nel febbraio 2012, cosicchè non risultava soddisfatto il requisito dell’inerenza (secondo motivo).

13. In relazione a tali motivi deve ricordarsi che, a norma del Testo unico delle imposte sui redditi approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, sono deducibili i costi che non siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, con la precisazione che “In tema di imposte sui redditi delle società, il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa (e non dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 5, ora del medesimo D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5, riguardante il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili) ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta), in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico e non assumendo rilevanza la congruità delle spese, perchè il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo. Peraltro, l’onere di provare e documentare l’imponibile maturato e dunque l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto d’impresa, grava sul contribuente” (Cass. n. 30366 del 2019; in termini anche Cass. n. 902 del 2020, secondo cui “In tema di redditi d’impresa, il requisito dell’inerenza dei costi deducibili attiene alla compatibilità, coerenza e correlazione di detti costi non ai ricavi in sè, bensì all’attività imprenditoriale svolta idonea a produrre redditi”).

14. Quanto poi ai costi per carburanti, questa Corte è ferma nel ritenere che “In tema di tributi erariali diretti e di IVA, la possibilità di dedurre le spese per i consumi di carburante per autotrazione e di detrarre dall’imposta dovuta quella assolta per il suo acquisto è subordinata al fatto che le cosiddette “schede carburanti”, che l’addetto alla distribuzione è tenuto a rilasciare, siano complete in ogni loro parte e debitamente sottoscritte, senza che l’adempimento, a tal fine disposto, ammetta equipollente alcuno e indipendentemente dall’avvenuta contabilizzazione dell’operazione nelle scritture dell’impresa” (Cass. n. 22918 del 2018; Cass. n. 26862 del 2014).

15. Orbene, con riferimento alla questione dedotta con il primo motivo rileva il Collegio che la CTR non si è attenuta ai suddetti principi avendo ritenuto deducibili i costi per carburante sostenuti dalla ditta contribuente sulla base della sola circostanza che la stessa aveva provato di aver utilizzato “alcuni mezzi della ditta del marito, R.M., per la propria attività”, che giustificava al più il pagamento di un corrispettivo alla ditta del coniuge per l’uso degli automezzi, omettendo, peraltro, di verificare se la contribuente avesse fornito la prova della necessità dell’utilizzo di quei mezzi per lo svolgimento dell’attività, se gli stessi fossero adatti allo scopo e se il coniuge non avesse usufruito della medesima deduzione attraverso l’uso delle schede carburanti.

16. Ne consegue che il primo motivo è fondato e va accolto.

17. Va invece rigettato il secondo motivo di ricorso in quanto la mera formale intestazione in capo alla contribuente nel marzo 2012 dell’autocarro dalla medesima acquistato nel dicembre 2011, in assenza di qualsiasi contestazione circa la disponibilità di quel mezzo fin dall’anno precedente, deve ritenersi irrilevante ai fini della sussistenza del requisito dell’inerenza alla stregua del principio giurisprudenziale sopra citato (Cass. n. 30366 del 2019).

18. Conclusivamente, quindi, va rigettato il ricorso principale, va accolto il primo motivo del ricorso incidentale e rigettato il secondo, la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto e la causa rinviata alla competente CTR per nuovo esame ed anche per la regolamentazione delle spese processuali del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale, accoglie il primo motivo del ricorso incidentale e rigetta il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 25 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2020

 

 

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