Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27405 del 29/10/2018

Cassazione civile sez. II, 29/10/2018, (ud. 19/04/2018, dep. 29/10/2018), n.27405

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14523-2014 proposto da:

M.G.A., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, LUNGOTEVERE MELLINI 24, presso lo studio dell’avvocato

GIOVANNI GIACOBBE, che lo rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

COMUNE MESSINA, elettivamente domiciliato in MESSINA, VIALE CADORNA

N. 14 presso lo studio dell’avvocato CARMELO JARIA che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 435/2013 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 06/06/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

19/04/2018 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO Lucio.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. M.G. citava in giudizio il Comune di Messina, chiedendo la condanna al risarcimento dei danni e al pagamento del controvalore di alcuni terreni adibiti a strada in (OMISSIS) illegittimamente occupate, o, in subordine, la restituzione ad integrum e il loro rilascio.

2. Si costituiva il Comune di Messina deducendo che i terreni in oggetto erano stati legittimamente ablati in forza del decreto di occupazione n. 1305 del 10 agosto 1992 e del decreto di esproprio del 28 ottobre 1996.

3. Il Tribunale accertava la responsabilità del Comune di Messina in ordine all’illegittima occupazione delle aree di proprietà dell’attore e lo condannava al risarcimento dei danni liquidati complessivamente in Euro 432.150,47, oltre agli interessi legali e alla rivalutazione dalla domanda al soddisfo.

4. Avverso tale sentenza proponeva appello il Comune di Messina insistendo per il rigetto della domanda e, in subordine, per una riduzione del quantum liquidato. Si costituiva il M. che insisteva per il rigetto dell’appello.

5. La Corte d’Appello di Messina accoglieva l’appello del Comune e rigettava la domanda di risarcimento dei danni proposta da M.G..

In particolare, per quel che ancora rileva, il giudice del gravame evidenziava che l’eccezione proposta dal Comune di Messina nel corso dell’istruttoria e, in particolare, con la comparsa conclusionale, relativa alla destinazione ad uso pubblico (per dicatio ad patriam), non poteva qualificarsi come eccezione in senso stretto ma costituiva una mera difesa e, quindi, non era soggetta alle preclusioni ex art. 183 c.p.c., comma 5, ratione temporis vigente, in quanto si trattava di un’argomentazione ulteriore introdotta dal Comune nel corso del giudizio per resistere alla domanda risarcitoria, aggiungendo alla già dedotta esistenza di un procedimento espropriativo una diversa ragione di pubblica utilità, quale l’avvenuta costituzione di una servitù per dicatio ad patriam (sentenza n. 10038 del 2009).

Nel merito l’eccezione doveva ritenersi fondata, in quanto, richiamata la giurisprudenza sulla dicatio ad patriam, la Corte d’Appello ravvisava un comportamento volontario del proprietario nel non far cessare l’uso pubblico iniziato in conseguenza di una sua attività, volontà manifestata anche per facta concludentia e corrispondente all’intenzione di mantenere il bene a disposizione della collettività, così da rendere legittimo l’uso pubblico della stessa. In particolare i danti causa dell’attore/appellato, avevano messo a disposizione della collettività i loro terreni, già adibiti a strada, per soddisfare un’esigenza comune con carattere di continuità e non per mera tolleranza.

Sussisteva, dunque, la volontarietà del comportamento dell’originario proprietario che emergeva dalla stessa attività di edificazione del proprio fondo che aveva portato ad una sistemazione dello stesso attraverso la sua suddivisione in lotti poi edificati e alla creazione di una rete di strade di collegamento necessaria per l’accesso alle abitazioni. Si era realizzata, pertanto, anche quella obiettiva situazione per cui le aree residue avevano assunto un’imprescindibile destinazione a strada. Ciò emergeva anche dagli atti di cessione gratuita del 1981 di C.F. e, dopo la sua morte, della sua avente causa C.N..

Infine argomentava la Corte d’Appello che costituiva sicuro indice della volontà dei predetti C. di lasciare all’uso pubblico le strade, il loro prolungato comportamento omissivo, nonostante il mancato perfezionamento dell’atto di cessione, infatti essi non si erano mai opposti alla realizzazione da parte del Comune delle opere di urbanizzazione delle medesime strade.

6. Avverso la suddetta sentenza M.G. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi. Resiste con controricorso il Comune di Messina.

7. Il ricorrente in prossimità dell’udienza ha depositato memoria, insistendo nella propria richiesta di accoglimento del ricorso.

8. Il procuratore generale in persona del dottor Lucio Capasso nelle proprie conclusioni scritte ha chiesto il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di legge, artt. 112,167,180,183 e 345 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

Secondo il ricorrente l’eccezione di acquisizione di servitù di uso pubblico per cosiddetta dicatio ad patriam non può essere qualificata come mera attività difensiva, derivando invece da essa la radicale diversità di prospettazione della situazione sostanziale e, dunque, un inammissibile mutamento del rapporto processuale che incide anche sul principio del contraddittorio.

Nella specie, sarebbe evidente che ci si trovi di fronte ad un’ipotesi di eccezione in senso tecnico, se non addirittura di eccezione o domanda riconvenzionale, che soggiace alle preclusioni processuali sia pure nell’ambito delle previsioni del codice di rito vigente all’epoca. In tal senso, il ricorrente richiama la giurisprudenza di questa Suprema Corte sia in relazione alla domanda nuova preclusa dall’art. 345 c.p.c. sia in relazione all’art. 112 c.p.c., quando i fatti nuovi dedotti comportino il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato modificando l’oggetto sostanziale dell’azione.

Il ricorrente precisa, infatti, che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 167 e 180 c.p.c., nel testo vigente applicabile al giudizio, il convenuto era tenuto a sollevare le eccezioni di merito e di rito non rilevabili d’ufficio e, ancor di più, a sollevare eccezioni e domande riconvenzionali entro i termini indicati, la cui natura perentoria non è suscettibile di contestazione.

Nella fattispecie il Comune di Messina aveva prospettato l’eccezione di acquisizione del diritto ad uso pubblico per cosiddetta dicatio ad patriam per la prima volta nella comparsa conclusionale di primo grado, dopo aver tenuto un comportamento processuale durante l’intero iter procedimentale del giudizio di primo grado diretto ad affermare la diversa acquisizione del diritto di servitù di uso pubblico conseguente al diverso titolo legittimante indicato nel decreto di espropriazione, che peraltro riguardava beni del tutto diversi.

1.1 Il motivo è infondato.

La difesa del Comune di Messina, che ha evidenziato l’esistenza di una servitù per dicatio ad patriam, integra un’eccezione in senso lato e non in senso stretto la cui deduzione, pertanto, non è soggetta al regime delle preclusioni e delle decadenze previsto dalla disciplina processuale vigente alla data in cui l’eccezione medesima fu sollevata.

In numerose occasioni questa Corte ha evidenziato che in relazione all’opzione difensiva del convenuto consistente nel contrapporre alla pretesa attorea fatti ai quali la legge attribuisce autonoma idoneità modificativa, impeditiva o estintiva degli effetti del rapporto sul quale la predetta pretesa si fonda, occorre distinguere il potere di allegazione da quello di rilevazione, posto che il primo compete esclusivamente alla parte e va esercitato nei tempi e nei modi previsti dal rito in concreto applicabile (pertanto sempre soggiacendo alle relative preclusioni e decadenze), mentre il secondo compete alla parte (e soggiace perciò alle preclusioni previste per le attività di parte) solo nei casi in cui la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un’azione costitutiva), ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l’iniziativa di parte, dovendosi in ogni altro caso ritenere la rilevabilità d’ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito, senza che, peraltro, ciò comporti un superamento del divieto di scienza privata del giudice o delle preclusioni e decadenze previste, atteso che il generale potere-dovere di rilievo d’ufficio delle eccezioni facente capo al giudice si traduce solo nell’attribuzione di rilevanza, ai fini della decisione di merito, a determinati fatti, sempre che la richiesta della parte in tal senso non sia strutturalmente necessaria o espressamente prevista, essendo però in entrambi i casi necessario che i predetti fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultino legittimamente acquisiti al processo e provati alla stregua della specifica disciplina processuale in concreto applicabile. (Sez. L, Sentenza n. 12353 del 20/05/2010, Sez. 6-2, Ord. n. 409 2012).

Il ricorrente, nella specie, non ha dedotto la tardività dell’allegazione dei fatti dai quali risultava la sussistenza della servitù per dicatio ad patriam ma soltanto la tardività della difesa del Comune nell’evidenziare l’infondatezza della richiesta di risarcimento del danno avanzata dal M. in quanto, come emergeva dagli atti di causa, oltre alle vicende relative all’espropriazione dell’area, doveva tenersi conto anche dell’esistenza della suddetta servitù.

In conclusione devono condividersi le conclusioni del Procuratore Genrale secondo cui il motivo è da rigettare perchè il convenuto Comune non ha introdotto nel giudizio di primo grado “fatti” nuovi ma si è limitato a trarre dai fatti dedotti ritualmente da entrambe le parti e confermati dall’istruttoria, conclusioni giuridiche che il Tribunale avrebbe potuto addirittura raggiungere di ufficio.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Il motivo ha ad oggetto ancora una volta l’eccezione di servitù di uso pubblico effettuata dal Comune nel corso del giudizio. In sostanza il ricorrente riformula le stesse argomentazioni sotto il profilo della insufficienza e contraddittorietà della motivazione.

2.1 Il motivo è inammissibile.

Il motivo incentrato sulla censura della motivazione resa dalla Corte d’appello è inammissibile per non essere riconducibile (venendo dedotti vizi di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio) al modello proposto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 nella nuova formulazione prevista dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 3 giugno 2013. Prevede il nuovo testo che la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione solo in caso di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Orbene è noto come, secondo le Sezioni Unite (n. 8053 e n. 8054 del 2014), la norma consenta di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ne consegue che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di legge art. 825 c.c., art. 1387 c.c. e ss., art. 1353 c.c. e c.c., art. 1362c.c. e seguenti, art. 2043 c.c. e ss., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo vigente applicabile alla controversia.

Il ricorrente contesta nel merito la sussistenza di una servitù di uso pubblico per dicatio ad patriam, in quanto mancherebbe il presupposto della specifica volontà di destinazione da parte del proprietario del bene. Ciò in quanto la lettera di cessione gratuita era firmata da M.P., quale procuratore di C.F.. Tale atto proveniva da un soggetto non legittimato e quindi era privo di qualsiasi effetto giuridico, in quanto il M. non aveva alcuna procura del C. e, quindi, era del tutto carente di potere rappresentativo come contestato nel corso del giudizio.

Inoltre la manifestazione di volontà diretta alla costituzione di una servitù di uso pubblico su di un proprio bene non si può esaurire nella unilateralità dell’atto dovendosi ritenere necessaria quantomeno la formale presa d’atto da parte del comune, notificata al cedente mediante manifestazione di volontà da consacrarsi in atto formale.

3.1 Il motivo è in parte inammissibile in parte infondato.

Quanto alla insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il motivo è inammissibile per le medesime ragioni esposte con riferimento al secondo motivo.

Quanto alla violazione di legge secondo il consolidato orientamento di questa Corte “La cosiddetta “dicatio ad patriam”, quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, consiste nel comportamento del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un’esigenza comune ai membri di tale collettività “uti cives”, indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima (Sez. 1, Sentenza n. 4851 del 11/03/2016).

Tale accertamento in fatto è compito del giudice del merito ed è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione sufficiente e non contraddittoria (Cass. n. 4597 del 2012; Cass. n. 12167 del 2002; Cass. n. 3075 del 2006).

La sentenza impugnata è sorretta da un’ampia e condivisibile motivazione quanto alla sussistenza dei presupposti per la costituzione della servitù di uso pubblico e il motivo di ricorso, al di là della eccepita violazione di norme, si risolve in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione” (Cass. Sez. U, n. 24148 del 2013).

4. Il ricorso deve, quindi, essere integralmente rigettato.

5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

7. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 4.200 di cui 200 per esborsi, oltre a spese generali e accessori di legge;

ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 19 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2018

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