Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27403 del 25/10/2019

Cassazione civile sez. II, 25/10/2019, (ud. 03/07/2019, dep. 25/10/2019), n.27403

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15515/2014 proposto da:

FNM S.P.A., rappresentata e difesa dall’Avvocato ANTONELLO MARTINEZ

ed elettivamente domiciliata a Roma, via Anastasio Kircher 7, presso

lo studio dell’Avvocato STEFANIA IASONNA, per procura speciale a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

B.F., rappresentato e difeso dall’Avvocato ALESSANDRO

BENUSSI e dall’Avvocato FRANCESCO SAULLE, presso il cui studio in

Roma, via delle Medaglie d’Oro 157, elettivamente domicilia per

procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

nonchè

O.G., nella dichiarata qualità di cessionario del

diritto controverso;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1356/2013 della CORTE D’APPELLO DI BRESCIA,

depositata il 9/12/2013;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del

3/7/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO;

sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale della Repubblica, Dott. MISTRI Corrado, il quale ha

concluso per l’inammissibilità del ricorso;

sentito, per la ricorrente, l’Avvocato GIANLUCA FONSI, per delega

dell’Avocato ANTONELLO MARTINEZ;

sentito, per il controricorrente, l’Avvocato GUIDO GRANZOTTO, per

delega dell’Avvocato ALESSANDRO BENUSSI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Brescia, con sentenza del 9/11/2007, in accoglimento della domanda proposta da B.F. nei confronti della FNM s.p.a., ha dichiarato che l’attore è proprietario dell’area censita in catasto nel Comune di Pisogne, foglio (OMISSIS) rosso, mapp. (OMISSIS) e del sovrastante fabbricato, censito in catasto nel Comune di Pisogne, foglio (OMISSIS), part. (OMISSIS), (OMISSIS), ed ha condannato la società convenuta al pagamento in favore dell’attore della somma di Euro 10.000,00, a titolo di risarcimento del danno, oltre interessi e rivalutazione, dichiarando, invece, inammissibile la domanda proposta dalla convenuta avente ad oggetto l’accertamento della proprietà dell’immobile.

Il tribunale, in particolare, dopo avere premesso che l’attore aveva partecipato ad un’asta pubblica indetta dalla Provincia di Brescia e che lo stesso era risultato aggiudicatario del lotto n. (OMISSIS), individuato con il mapp. (OMISSIS), con sovrastante fabbricato, nel Comune di Pisogne, ha rilevato, in primo luogo, che, non essendo controversa la proprietà in capo all’attore dell’area compravenduta, l’oggetto del contendere fosse solo la proprietà superficiaria del fabbricato sovrastante, adibito a bar-ristorante della Stazione ferroviaria, ed, in secondo luogo, che il tema del decidere ed il correlativo onere probatorio vertesse soltanto sull’esistenza o meno del diritto di proprietà superficiaria sul fabbricato sovrastante vantato dalla società convenuta. Il tribunale, al riguardo, ha ritenuto che, a fronte del diritto di accessione invocato dall’attore con l’azione di rivendicazione dallo stesso proposta, fosse onere della convenuta dimostrare in causa l’esistenza di un titolo costitutivo della sua proprietà superficiaria del fabbricato distinta dalla proprietà dell’area sottostante, e che, potendo tale diritto essere provato solo per iscritto, tale prova fosse, nel caso di specie, mancante: non essendo, in particolare, desumibile dalla “Convenzione tra la Deputazione Provinciale di Brescia e la SNFT-Società Nazionale di Ferrovie e Tranvie per l’allogazione alla società della costruzione e l’esercizio della Ferrovia (OMISSIS)” del 27/6/1904, con la quale la SNFT-Società Nazionale di Ferrovie e Tranvie aveva assunto l’obbligo di provvedere alla costruzione, all’esercizio ed alla manutenzione, per tutta la durata della concessione, della linea ferroviaria in oggetto. Il tribunale, in particolare, ha escluso che le parti avessero inteso costituire in favore di SNFT un diritto reale di superficie su immobili esistenti o da costruire: la SNFT aveva, infatti, assunto l’impegno di realizzare la linea ferroviaria (e le sue pertinenze), acquisendo le aree ed edificando le opere necessarie “in nome e per conto” della Provincia, che ne sarebbe rimasta, poi, l’unica proprietaria. Il diritto ricevuto dalla SNFT era, dunque, di natura obbligatoria, e, precisamente, una concessione ad aedificandum, e, come tale, inopponibile all’attore (persona diversa dal concedente, verso il quale soltanto il concessionario poteva farlo valere), tanto più che la stessa, in mancanza tra gli atti della prova dell’eventuale proroga, era scaduta in data 30/7/2000, con la conseguente estinzione dei diritti e dei doveri originariamente assunti dalle parti.

Il tribunale, inoltre, ha escluso che la prova del diritto di superficie fosse desumibile dall’atto di fusione per incorporazione della SNFT in Ferrovie Nord Milano s.p.a. in data 29/12/1993, contenente un elenco dei beni immobili in patrimonio dell’incorporata, attesa la sua natura di atto “ricognitivo” dei beni sociali, peraltro non corredato dall’allegazione dell’atto di provenienza del fabbricato in oggetto.

Il tribunale, infine, ha ritenuto l’inammissibilità della tardiva produzione documentale della convenuta, come l’atto notarile di compravendita SNFT – C.E. del 13/3/1961, la convenzione SNFT – G.C. del 15/11/1944, l’atto di vendita G. – C., e le visure storiche catastali, trattandosi di documentazione prodotta in causa solo all’udienza del 17/5/2006, ben oltre, quindi, la scadenza del termine perentorio stabilito dall’art. 184 c.p.c..

La FNM s.p.a., già Ferrovie Nord Milano s.p.a., ha proposto appello avverso la sentenza del tribunale chiedendo che, in riforma della sentenza impugnata, fossero rigettate tutte le domande proposte dall’attore nell’atto introduttivo del giudizio.

Il B. si è costituito in giudizio e, dopo aver eccepito la tardività dell’appello, ne ha chiesto il rigetto. L’appellato, inoltre, ha proposto appello incidentale, chiedendo, in particolare, che la somma liquidata fosse incrementata per il periodo intercorso tra la pronuncia di primo grado e quella d’appello, e che l’appellante fosse condannata al rilascio del fabbricato ed al pagamento di un’ulteriore somma equitativamente quantificata.

La corte d’appello di Brescia, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello principale ed, in parziale accoglimento dell’appello incidentale, ha ordinato all’appella(n)te l’immediato rilascio del fabbricato per cui è causa, libero da persone e cose, in favore dell’appellato B.F..

La corte, in particolare, per quanto ancora interessa, dopo aver evidenziato la fondatezza delle “eccezioni di tardività delle nuove produzioni documentali effettuate in appello e delle nuove domande proposte per la prima volta da entrambe le parti solo in questo grado”, dichiarandone l’inammissibilità, ha rilevato, da un lato, che “non è stato oggetto di appello il capo di sentenza con cui il Tribunale ha dichiarato la proprietà “esclusiva” dell’attore B.F. del terreno catastalmente censito in Comune di Pisogne a N. C.T.R. foglio (OMISSIS), part. (OMISSIS),… a seguito dell’aggiudicazione all’asta pubblica indetta dalla Provincia di Brescia dopo la dismissione del bene” e, dall’altro lato, che è stato oggetto di gravame l’ulteriore capo di sentenza con cui è stato dichiarato il diritto di proprietà dell’attore sul fabbricato sovrastante il predetto terreno “per l’accertata inesistenza del diritto di superficie di FNM s.p.a. in mancanza di prova scritta del relativo titolo costitutivo”.

Al riguardo, la corte, dopo aver premesso che: – “all’esito del giudizio di primo grado è stato definitivamente accertato (essendo il relativo capo di domanda coperto da giudicato) che B.F. è proprietari(o) “esclusivo” del terreno su cui sorge il fabbricato controverso, a seguito dell’avvenuta aggiudicazione della gara indetta dalla Provincia di Brescia, proprietaria del bene medesimo in base alla Convenzione del 1904″; – l’attore, nel rivendicare la proprietà esclusiva del fabbricato, ha invocato, oltre al suo titolo d’acquisto (ed a quello della dante causa), anche l’avvenuto acquisto del bene per accessione; – l’accessione, per effetto della presunzione di cui agli artt. 934 c.c. e segg., può essere vinta solo con l’accertata esistenza di un titolo costitutivo contrario, necessariamente stipulato con un atto scritto registrato; – l’appellante aveva lamentato che il tribunale aveva erroneamente escluso che tale titolo potesse essere rinvenuto nella Convenzione del 1904; ha ritenuto, alla luce tanto della Det. Dirig. n. 1666 del 2002 della Provincia di Brescia, che ha offerto all’asta pubblica il lotto n. (OMISSIS), quanto dell’atto pubblico con il quale, in data 15/1/2003, tale lotto è stato poi venduto al B., che “… il bene, oggetto di vendita, era sedime di ex fabbricato ferroviario” ed, inoltre, che “liberamente e volutamente, nell’atto negoziale non risulta fatta alcuna menzione dell’esistenza del diritto di superficie dell’appellante o di terzi ma, al contempo, risulta espressamente dichiarato che la Provincia rinunzia ad ogni diritto superficiario sul bene alienato”.

La corte, inoltre, ha ritenuto che l’esistenza di un diritto reale di superficie non fosse desumibile neppure dalla Convenzione del 1904, reputando, invece, che dalla detta scrittura fosse desumibile, come già ritenuto dal tribunale, “solo ed esclusivamente l’esistenza di una concessione obbligatoria ad aedificandum, di natura personale (art. 1322 c.c.) e di durata temporanea (nella specie per tutta la durata della convenzione)”. La corte, sul punto, ha ritenuto che fosse corretta l’interpretazione fornita dal tribunale che ha “interpretato la Convenzione prima esaminando la sua lettera e ricercando la comune volontà dei contraenti in base ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., infine qualificando de(tta)a fattispecie contrattuale secondo il modello della sussunzione, attraverso il confronto tra la fattispecie contrattuale concreta e la normativa – anche pubblicistica – allora vigente”. Ed infatti, ha aggiunto, “dalla Convenzione non è desumibile (in alcun punto) la prova dell’esistenza di un diritto reale di superficie, perpetuamente riconosciuto in favore del concessionario sui beni del detto compendio ferroviario, ma solo… il riconoscimento di un temporaneo diritto, di natura obbligatoria, al concessionario di gestire e godere dei beni di tale compendio per la durata temporale concordata”. D’altra parte, ha aggiunto la corte, non è mai stato controverso che tutti i beni immobili componenti tale compendio ferroviario fossero di proprietà della Provincia concedente, nè è stato tempestivamente contestato che gli stessi, allo scadere della Convenzione, fossero tornati nella disponibilità della proprietaria: in particolare, “quanto all’immobile in esame è stato già definitivamente accertato in corso di causa che la concedente-Provincia, dopo aver dismesso il bene, si è avvalsa nella sua discrezionalità della potestà di alienarlo, rinunciando poi all’atto della vendita espressamente ad ogni diritto superficiario sullo stesso”. Del resto, ha osservato la corte, ove permangano dubbi circa la ricorrenza di una concessione ad aedificandum o di un diritto reale di superficie, assume rilievo decisivo la destinazione dell’opera costruita dal concessionario al momento della cessazione del rapporto, atteso che, se essa torna nella disponibilità del concedente, si è in presenza di un rapporto obbligatorio, mentre, se essa passa in proprietà del concessionario, il diritto in virtù del quale questi l’ha realizzata ha sicuramente la natura reale del diritto di superficie.

In definitiva, ha concluso la corte, la concessione ad aedificandum, per il periodo di sua durata, ha dato luogo al riconoscimento in favore del concessionario da parte della Provincia concedente solo di un diritto di superficie di durata “temporanea” su tutti gli immobili del compendio ferroviario.

Quanto, poi, alla “durata temporale” della Convenzione, la corte ha rilevato che risulta provata in atti esclusivamente la sua proroga, con decreto del Ministero dei trasporti del 17/3/1997, fino al 30/7/2000. Non risultano, infatti, dimostrate, con il deposito dei relativi documenti, ulteriori successive proroghe della Convenzione, a nulla rilevando, quindi, il mero richiamo alla L. n. 493 del 1975, art. 2: tale norma, infatti, si limita a prevedere che, per l’effettuazione di interventi di ammodernamento e potenziamento delle Ferrovie Nord Milano, tali opere avrebbero potuto comportare la proroga delle rispettive concessioni fino ad un massimo di venticinque anni ma, ha concluso la corte, “l’effettività di tale ipotizzata proroga della Convenzione è del tutto indimostrata in causa per carenza di prova”.

La corte, inoltre, respingendo il corrispondente motivo di gravame, ha ritenuto che la società convenuta avesse proposto solo all’atto di precisare le conclusioni, al termine del giudizio di primo grado, e, quindi, tardivamente, la domanda di “accertamento della proprietà”, mai formulata, neppure implicitamente, in precedenza: la parte, infatti, con la comparsa di costituzione si era limitata semplicemente a resistere alla domanda di rivendicazione, deducendo l’esistenza del diritto si superficie in base alla stessa Convenzione del 1904 invocata dall’attore. Solo tardivamente la società convenuta ha proposto in giudizio la domanda di accertamento della proprietà sul fabbricato, fondando per la prima volta il suo diritto dominicale su un titolo totalmente diverso e mai prima di allora prodotto in causa, vale a dire un atto di compravendita “da terzi” del 1961, la cui produzione, peraltro, è stata dichiarata inammissibile per tardività dall’istruttore con decisione avverso la quale non è stata proposta impugnazione.

La corte, infine, ha ritenuto priva di pregio la censura proposta dall’appellante avverso il diniego dell’indennità ai sensi dell’art. 936 c.c., comma 2. Il tribunale, infatti, ha osservato la corte, dopo aver evidenziato che il terzo che edifichi un’opera su fondo altrui con materiali propri ed il proprietario ritenga di ritenerla, deve versargli un’indennità commisurata al valore dei materiali ed al prezzo della mano d’opera o all’aumento del fondo, ha ritenuto che, a tali fini, il terzo è chiunque non abbia con il proprietario del fondo un preesistente rapporto giuridico in base al quale possa stabilirsi se sussistesse o meno la sua facoltà di costruire, concludendo che, nella specie, difettavano i presupposti per l’applicazione della norma ed il riconoscimento dell’indennità: la SNTF, infatti, era legata alla Provincia di Brescia, ex proprietaria del fondo, dalla Convenzione del 1904, nella quale erano disciplinati i reciproci diritti e obblighi delle parti ed ha ritenuto che, proprio in forza delle pattuizioni contenute bella Convenzione, la SNFT non aveva subito alcun depauperamento a seguito dell’edificazione del fabbricato, che era stato realizzato nell’ambito delle opere del compendio ferroviario. In ogni caso, ha aggiunto la corte, il tribunale ha ritenuto che fosse rimasto totalmente indimostrato che, per non essere stata l’opera inclusa nel prezzo pagato al momento dell’acquisto, vi fosse stato un indebito arricchimento dell’acquirente per l’edificazione del fabbricato. La corte, quindi, a fronte di tale premessa, ha ritenuto che “le doglianze svolte dall’appellante… non soddisfano l’obbligo cui la parte appellante è tenuta, di indicare puntualmente le ragioni sulle quali si fonda il gravame, unendo… una parte argomentativa atta a contrastare le ragioni addotte dal primo giudice, e tale assenza preclude ogni su(a) possibilità di esame del motivo dato che, alle articolate argomentazioni del Tribunale, l’appellante si è limitato a contrapporre la mera affermazione del suo preteso diritto all’indennità ex art. 936 c.c….”.

La FNM s.p.a., con ricorso indirizzato per la notifica, in data 5/6/2014, tanto a B.F., quanto a O.G., nella dichiarata qualità di cessionario del diritto controverso, ha chiesto, per sette motivi, la cassazione della sentenza della corte d’appello, dichiaratamente notificata il 7/5/2014.

Ha resistito B.F., con controricorso notificato in data 15.17/7/2014, deducendo, tra l’altro, l’assoluta difformità tra la sottoscrizione per autentica della procura speciale alla lite e la sottoscrizione del ricorso, con la conseguente nullità del ricorso per difetto di procura e/o la nullità (o l’inesistenza) del ricorso in quanto privo di sottoscrizione.

O.G. è rimasto intimato.

La società ricorrente ha depositato memoria.

La Corte, con ordinanza interlocutoria del 30/1/2019, a fronte della (incontestata) cessione del diritto controverso da parte dell’attore B.F. in favore di O.G., ha rilevato che la società ricorrente aveva provveduto alla chiamata in causa di quest’ultimo attraverso la notifica del ricorso per cassazione, indirizzandolo, tuttavia, al domicilio eletto nell’atto di precetto notificato alla stessa, ed, in ragione della nullità di quest’ultima notifica, ha assegnato alla ricorrente il termine di sessanta giorni per provvedere alla sua rinnovazione a O.G. nella qualità indicata.

La FNM s.p.a., al dichiarato scopo di dare esecuzione all’ordinanza del Corte, ha provveduto, in data 1.4/3/2019, a rinnovare la notifica del ricorso per cassazione a O.G., nell’indicata qualità.

Tale notifica risulta eseguita, a norma dell’art. 140 c.p.c., presso la residenza anagrafica del destinatario, sita in (OMISSIS).

O.G. è rimasto, tuttavia, intimato.

All’udienza pubblica del 3/7/2019, la ricorrente ha depositato il duplicato dell’avviso di ricevimento della raccomandata informativa del deposito dell’atto nella casa comunale, attestante il ritiro da parte del destinatario il 9/3/2019.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare, la Corte deve esaminare l’eccezione, che il controricorrente ha sollevato, in ordine alla nullità del ricorso per difetto di conformità tra la sottoscrizione dello stesso da parte del difensore e la sottoscrizione per autentica della procura speciale alla lite apposta a margine della prima pagina dell’atto.

2. L’eccezione è infondata. Per la contestazione dell’autografia della sottoscrizione apposta dal difensore per autenticare una procura speciale rilasciata in calce o a margine dell’atto introduttivo del giudizio è necessaria la querela di falso, attesa la natura dell’atto di autenticazione che, al pari dell’autenticazione della scrittura privata, mentre rileva, quanto all’effetto, come strumento di attribuzione al documento cui si riferisce della particolare efficacia probatoria prevista dal combinato disposto dell’art. 2702 c.c. e dell’art. 2703 c.c., comma 1, è, quanto alla struttura, un atto pubblico risultante, in coerenza con la definizione dell’art. 2699 c.c., da un documento redatto da un pubblico ufficiale che, in quanto autorizzato a costituire la descritta certezza in ordine all’atto principale, deve per ciò stesso ritenersi necessariamente dotato di poteri idonei a presidiare di non minore certezza l’atto accessorio destinato a realizzare quel risultato, con la conseguenza che, al pari della pubblica fede concernente l’autenticità della sottoscrizione della procura, anche quella relativa alla provenienza della certificazione dal soggetto che se ne professa autore non può essere rimossa se non attraverso lo speciale procedimento di cui all’art. 221 c.p.c. e segg. (Cass. n. 17473 del 2015, in motiv.). Del resto, la funzione del difensore di certificare l’autografia della sottoscrizione della parte, ai sensi degli artt. 83 e 125 c.p.c., pur trovando la sua base in un negozio giuridico di diritto privato (mandato), ha natura essenzialmente pubblicistica, atteso che la dichiarazione della parte, con la quale questa assume su di sè gli effetti degli atti processuali che il difensore è legittimato a compiere, è destinata a dispiegare i suoi effetti nell’ambito del processo, con conseguenza che il difensore, con la sottoscrizione dell’atto processuale e con l’autentica della procura riferita allo stesso, compie un negozio di diritto pubblico e riveste la qualità di pubblico ufficiale, la cui certificazione può essere contestata soltanto con la querela di falso (Cass. n. 10240 del 2009). Nel caso di specie, il controricorrente non ha proposto la querela di falso nè per contestare la provenienza dall’avvocato Martinez della sottoscrizione per autentica della procura speciale, nè per contestare la riferibilità al medesimo difensore della sottoscrizione apposta in calce al ricorso, con la conseguente inammissibilità delle relative contestazioni.

3.1. Con il primo motivo, la società ricorrente, lamentando la falsa applicazione dell’art. 948 c.c. e la violazione dell’art. 116 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, in violazione dei principi che sorreggono l’art. 948 c.c., ha accolto la domanda di rivendica che l’attore aveva proposto relativamente al fabbricato sovrastante l’area che lo stesso aveva acquistato a seguito di aggiudicazione in sede di asta pubblica indetta dalla Provincia di Brescia il 6/11/2001.

3.2. La corte d’appello, infatti, ha osservato la ricorrente, così facendo, non ha considerato che, nell’azione proposta a norma dell’art. 948 c.c., l’attore è tenuto a dimostrare il suo preteso acquisto ricostruendo la catena degli acquisti fino a raggiungere la dimostrazione di un acquisto a titolo originario. Nel caso di specie, al contrario, il B. non ha fornito la prova dell’intervenuto acquisto in suo favore della proprietà del fabbricato, tanto più se si tiene conto del fatto che la società convenuta ha documentato il suo acquisto del diritto di superficie, prima, e della proprietà, poi, sull’immobile controverso.

4. Il motivo è infondato. La ricorrente, infatti, non si confronta con la ratio sottostante alla decisione che ha impugnato: la quale, invero, non ha affatto escluso che l’attore in rivendica sia onerato della prova del suo titolo d’acquisto a titolo originario, risalendo se necessario a quello dei propri danti causa, limitandosi, piuttosto, ad evidenziare, per un verso, che “all’esito del giudizio di primo grado è stato definitivamente accertato (essendo il relativo capo di domanda coperto da giudicato) che B.F. è proprietari(o) esclusivo del terreno su cui sorge il fabbricato controverso, a seguito dell’avvenuta aggiudicazione della gara indetta dalla Provincia di Brescia, proprietaria del bene medesimo in base alla Convenzione del 1904” e, per altro verso, che, a fronte del titolo d’acquisto del fabbricato sovrastante conseguentemente invocato dall’attore, e cioè l’accessione, era onere della società convenuta dimostrare l’esistenza di un titolo (necessariamente stipulato con un atto scritto) costitutivo, in suo favore, del diritto di proprietà superficiaria sull’edificio in questione: ritenendo, tuttavia, con apprezzamento insindacabile in sede di legittimità, che tale prova non era stata fornita, non potendo valere a tal fine nè la “Convenzione tra la Deputazione Provinciale di Brescia e la SNFT-Società Nazionale di Ferrovie e Tranvie per l’allogazione alla società della costruzione e l’esercizio della Ferrovia (OMISSIS)” del 27/6/1904, nè l’atto pubblico con il quale, in data 15/1/2003, a seguito della determinazione dirigenziale n. 1666/2002 della Provincia di Brescia, che ha offerto all’asta pubblica il lotto n. (OMISSIS), l’immobile relativo è stato poi venduto al B..

5.1. Con il secondo motivo, la società ricorrente, lamentando la violazione dell’art. 952 c.c. e la falsa applicazione dell’art. 934 c.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha accolto la domanda proposta dall’attore erroneamente ritenendo che il diritto di superficie relativo al fabbricato sovrastante il terreno acquistato dal B. fosse di natura obbligatoria e non reale.

5.2. La corte, infatti, ha osservato la ricorrente, ha ritenuto che l’esistenza di un diritto reale di superficie non fosse desumibile dalla Convenzione del 1904 e che da tale scrittura fosse, piuttosto, desumibile solo l’esistenza di una concessione obbligatoria ad aedificandum, di natura personale e di durata temporanea.

5.3. Così facendo, però, ha proseguito la ricorrente, la corte d’appello ha omesso di considerare che, in base alla predetta Convenzione, la società SNFT, originaria costruttrice della linea ferroviaria, avrebbe potuto e dovuto provvedere, a proprio nome, agli ampliamenti immobiliari derivanti, come quello in esame, dalle nuove esigenze del traffico (art. 8) e che la stessa, come confermato dagli accordi successivamente intercorsi tra la SNFT e la sig.ra G., tra quest’ultima e la sig.ra C. nel 1956 ed, infine, tra la C. e la stessa SNFT nel 1961, aveva acquistato la proprietà del fabbricato in questione.

5.4. In ogni caso, ha aggiunto la ricorrente, la corte avrebbe dovuto escludere che il diritto di superficie della SNFT fosse sottoposto a scadenza temporale posto che la concessione ad aedificandum, da cui deriva il diritto di fare e mantenere determinate costruzioni al di sopra e al di sotto del suolo altrui, fa sorgere un vero e proprio diritto di natura reale, qual è, appunto, il diritto di superficie. La Provincia di Brescia, peraltro, non ha mai contestato tale diritto nè è mai tornata nella disponibilità del bene in questione o vantato diritto sullo stesso.

6.1. Il motivo è infondato. La ricorrente, in effetti, si duole dell’interpretazione che la corte d’appello ha dato dei titoli negoziali che avrebbero costituito, in suo favore, il diritto di superficie sul fabbricato controverso. Sennonchè, com’è noto, l’interpretazione di un atto negoziale costituisce un tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, normalmente incensurabile in sede di legittimità, salvo che, ratione temporis, nelle ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, alla stregua del cd. “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione attualmente vigente, ovvero, ancora, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, previsti dagli artt. 1362 c.c. e segg. (Cass. n. 14355 del 2016). Pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione che intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di motivazione nell’interpretazione di una clausola contrattuale ha l’onere o di fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante la specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, precisando in che modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati (Cass. n. 27136 del 2017), ovvero di indicare, con la dovuta specificità, quali fatti, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, il giudice di merito ha omesso di esaminare nell’interpretazione della clausola contrattuale, sempre che si tratti di fatti decisivi, vale a dire che, se esaminati, avrebbero determinato una diversa interpretazione del testo negoziale. I rilievi contenuti nel ricorso, peraltro, devono essere accompagnati, in ossequio al principio di autosufficienza, dalla trascrizione delle clausole che, in ipotesi, individuino l’effettiva volontà delle parti, al fine di consentire alla Corte di verificare l’erronea applicazione della disciplina normativa (Cass. 15798 del 2005; Cass. n. 25728 del 2013; Cass. n. 5922 del 2016, in motiv.; Cass. n. 6735 del 2019).

6.2. Nel caso di specie, la ricorrente non solo ha del tutto omesso di trascrivere in ricorso il testo delle clausole contrattuali (e, segnatamente, dell’art. 8 della Convenzione del 1904) che la corte d’appello avrebbe erroneamente interpretato (ovvero, come nel caso della predetta clausola, del tutto omesso di esaminare), ma, a ben vedere, non ha neppure indicato i canoni d’interpretazione legale che la stessa avrebbe violato o malamente applicato, limitandosi a censurare la ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito attraverso la mera prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto da quest’ultimo esaminati (Cass. n. 2465 del 2015, in motiv.). Ed è, invece, noto che, onde sottrarsi al sindacato di legittimità sotto i profili di censura dell’ermeneutica contrattuale, quella data dal giudice al contratto non dev’essere l’unica interpretazione possibile o la migliore in astratto, ma solo una delle possibili e plausibili interpretazioni: sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 24539 del 2009; Cass. n. 16254 del 2012; Cass. n. 6125 del 2014; Cass. n. 27136 del 2017).

7.1. Con il terzo motivo, la ricorrente, lamentando la violazione del T.U. (R.D.) n. 187 del 1865, del R.D. n. 1447 del 1912, del successivo D.Lgs. n. 422 del 1997 e del D.M. 6 giugno 2000, n. 3239 (e, quindi, della L. n. 400 del 1988) e dell’art. 822 c.c., nonchè l’omesso esame circa un fatto decisivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (v. il ricorso, p. 26), ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui – ove mai si dovesse ritenere che il diritto di superficie fosse da interpretare come di natura obbligatoria e non reale – la corte d’appello non ha considerato che la concessione relativa alla gestione delle linee ferroviarie, inizialmente concesse con R.D. n. 1447 del 1912, è stata comunque validamente rinnovata fino al marzo del 2016 al pari del diritto di superficie concesso, sin dall’origine, al concessionario.

7.2. La corte d’appello, infatti, ha osservato la ricorrente, si è limitata a sostenere, quanto alla durata temporale della Convenzione, che era stata dimostrata la sua proroga, con D.M. 17 marzo 1997, fino al 30/7/2000, in tal modo, però, completamente disattendendo la prova in ordine alla proroga fino al 17/3/2016 che il Ministero dei trasporti e della navigazione aveva concesso con il Decreto 6 giugno 2000, n. 3239 e, quindi, la normativa in base alla quale tale decreto è stato emesso.

7.3. In ogni caso, ha aggiunto la ricorrente, l’eventuale scadenza della concessione per l’esercizio ferroviario avrebbe, al più, determinato l’acquisizione gratuita dei beni componenti il compendio ferroviario alla Regione: non al privato, la cui proprietà determinerebbe l’estinzione della vocazione ferroviaria dello stesso snaturandone la funzionalità alla quale è da sempre adibito, data anche la sua collocazione logistica rispondente agli usi ferroviari.

8.1. Il motivo è infondato. La ricorrente, infatti, sia pur nella forma del vizio di violazione di legge, lamenta, in sostanza, l’errata ricognizione, da parte del giudice di merito, dei fatti di causa lì dove, in particolare, nonostante la prova al riguardo fornita, la sentenza impugnata non ha accertato che la concessione relativa alla gestione delle linee ferroviarie, compreso il diritto di superficie attribuito al concessionario, era stata prorogata fino al mese di marzo del 2016. Il motivo, nella misura in cui prospetta una ricostruzione asseritamente erronea della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, finisce, pertanto, per formulare una censura che, in quanto tale, è del tutto estranea all’esatta interpretazione delle norme di legge, che pure ha invocato, ed inerisce, invece, alla tipica valutazione del giudice di merito, e cioè l’accertamento dei fatti, i cui errori, però, sono sindacabili in sede di legittimità solo per vizio di motivazione, così come regolato dall’art. 360 c.p.c., n. 5. Ed è, tuttavia, noto come, secondo le Sezioni Unite (n. 8053 del 2014), tale norma, nel testo in vigore ratione temporis, consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in una violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione) – solo l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 23940 del 2017; Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.; Cass. n. 7472 del 2017). Pertanto, laddove non si contesti – come nel caso di specie l’inesistenza, nei termini predetti, del requisito motivazionale del provvedimento giurisdizionale, il vizio di motivazione può essere dedotto soltanto in caso di omesso esame di un “fatto storico” controverso, che sia stato oggetto di discussione ed appaia “decisivo” ai fini di una diversa decisione. Se, al contrario, il fatto storico, rilevante in causa (e cioè, nella specie, la proroga della Convenzione fino al marzo del 2016), è stato comunque preso in considerazione dal giudice, com’è accaduto nel caso in esame, l’omesso esame di elementi istruttori non dà luogo al vizio di omesso esame di un fatto decisivo ancorchè la sentenza non abbia, in ipotesi, dato conto di tutte le risultanze istruttorie (Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.). E’, infatti, inammissibile la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, semplicemente per sostenere, come ha fatto la ricorrente, il mancato esame di deduzioni istruttorie ovvero di documenti da parte del giudice del merito (Cass. n. 27415 del 2018, in motiv.).

8.2. Il compito di questa Corte, del resto, non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata (a partire dall’accertata restituzione dei beni controversi alla Provincia una volta scaduta la Convenzione), nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), dovendo, invece, solo controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto nei limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.): come, in effetti, è accaduto nel caso in esame. La corte d’appello, invero, dopo aver valutato le prove raccolte in giudizio, ha, in modo logico e coerente, indicato le ragioni per le quali ha escluso, in fatto, la intervenuta proroga della Convenzione fino al mese di marzo del 2016 evidenziando, in particolare, che era risultata dimostrata in giudizio esclusivamente la sua proroga, con decreto del Ministero dei trasporti del 17/3/1997, fino al 30/7/2000, ma non anche, con il deposito dei relativi documenti, ulteriori successive proroghe della Convenzione.

8.3. D’altra parte, ove sia dedotta l’omessa o viziata valutazione di documenti, il ricorrente ha l’onere di procedersi ad un sintetico ma completo resoconto del loro contenuto, nonchè alla specifica indicazione del luogo in cui ne è avvenuta la produzione, al fine di consentire la verifica della fondatezza della doglianza sulla base del solo ricorso, senza necessità di fare rinvio od accesso a fonti esterne ad esso (Cass. n. 5478 del 2018): ciò che, nel caso di specie, non risulta essere accaduto.

8.4. Quanto, infine, al rilievo secondo cui la proprietà del fabbricato in capo al B. determinerebbe l’estinzione della vocazione ferroviaria del compendio, snaturandone la funzionalità alla quale è da sempre adibito, data anche la sua collocazione logistica rispondente agli usi ferroviari, la Corte non può che prendere atto che si tratta di una questione cui la sentenza impugnata non fa riferimento. Ed è noto che, ove ciò accada, quando, cioè, il ricorso per cassazione prospetti questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacchè i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito nè rilevabili di ufficio (Cass. n. 20694 del 2018): ciò che, nella specie, non è accaduto.

9.1. Con il quarto motivo, la ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione delle norme sul procedimento in materia di valutazione delle prove ex artt. 116 e 345 c.p.c., nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (v. il ricorso, p. 26), ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, limitandosi a confermare quanto sostenuto sul punto dal tribunale, ha ritenuto la tardività dei documenti che la stessa aveva prodotto in giudizio.

9.2. Così facendo, però, ha osservato la ricorrente, la corte d’appello ha omesso di considerare che tali documenti, vale a dire, per un verso, l’iniziale concessione alla sig.ra G.C. per una precaria costruzione di caffè-ristorante nella stazione, con l’obbligo di demolizione e restituzione dell’area al proprietario a semplice richiesta dello stesso (e cioè la SFNT s.p.a.), e, per altro verso, l’atto di compravendita con il quale, in data 13/3/1961, la SFNT s.p.a. ha riacquistato da C.E. “il fabbricato eretto sul suolo di proprietà della Provincia di Brescia, distinto in catasto del comune di Pisogne, col mappale (OMISSIS)…”, avrebbero consentito di stabilire che la proprietà del fabbricato presente sul terreno del B. era già stata trasferita in favore della società convenuta

9.3. La corte d’appello, quindi, ha proseguito la ricorrente, omettendo ogni valutazione in ordine a tali documenti, non ha considerato che gli stessi, potendo fornire un contributo essenziale all’accertamento della verità materiale, erano indispensabili ai fini della decisione e che, in quanto tali, potevano essere prodotti in giudizio anche in grado d’appello, non operando, in tal caso, la preclusione prevista dall’art. 345 c.p.c., nel testo applicabile al giudizio in questione.

9.4. La corte, inoltre, ha aggiunto la ricorrente, lì dove ha accolto l’appello incidentale proposto dal B. per l’omessa pronuncia sulla domanda di rilascio dell’immobile che lo stesso aveva formulato, ed ha, quindi, ordinato alla parte convenuta l’immediato rilascio del bene controverso, non ha tenuto conto che, in realtà, l’interesse all’impugnazione da parte dell’appellato non derivava dall’appello principale e che l’appello incidentale doveva essere, di conseguenza, dichiarato inammissibile a norma degli artt. 333,334 e 335 c.p.c..

10.1. Il motivo, in entrambe le censure in cui risulta articolato, è infondato.

10.2. Quanto alla prima, rileva la Corte che, in tema di produzione di nuovi documenti in appello, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 3, nella formulazione ratione temporis applicabile, anteriore sia alla novella introdotta con la L. n. 69 del 2009, che a quella di cui al D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella L. n. 134 del 2012, il giudizio d’indispensabilità relativo a prove documentali nuove non può riguardare quelle dichiarate inammissibili nel grado precedente. In tale ipotesi la richiesta di ammissione deve essere reiterata all’udienza di precisazione delle conclusioni del giudizio di primo grado, dovendo altrimenti ritenersi che la parte vi abbia tacitamente rinunciato con conseguente inammissibilità della riproposizione della medesima richiesta in appello (Cass. n. 11752 del 2018, la quale ha cassato la sentenza impugnata, perchè, dichiarata inammissibile la produzione di un documento ad opera della parte in primo grado, perchè irritualmente prodotto, la corte d’appello ne aveva ammesso la produzione nel secondo grado, ritenendola indispensabile, pur in mancanza di una reiterazione della richiesta in udienza di precisazione delle conclusioni; conf., Cass. n. 7410 del 2016). Nella specie, al contrario, i documenti dei quali la ricorrente ha lamentato la mancata ammissione in appello non erano documenti nuovi, essendo già stati depositati dalla stessa nel giudizio innanzi al tribunale (v. la sentenza impugnata, p. 11 e p. 24), il quale aveva dichiarato la relativa produzione inammissibile per tardività, e non risultando, attraverso la sua riproduzione in ricorso, che la società convenuta ne avesse reiterato la richiesta in sede di precisazione delle conclusioni. La sentenza impugnata, quindi, lì dove ha ritenuto la fondatezza delle “eccezioni di tardività delle nuove produzioni documentali effettuate in appello…”, dichiarandone l’inammissibilità, si sottrae alle censure articolate nei suoi confronti dalla ricorrente.

10.3. Quanto alla seconda censura, la Corte non può che ribadire il principio, più volte affermato in sede di legittimità, secondo cui l’impugnazione incidentale tardiva è consentita non solo quando abbia ad oggetto il medesimo capo della sentenza impugnato dall’appellante principale e sia quindi proposta nei confronti di quest’ultimo, ma anche quando investa un capo autonomo ovvero sia rivolta nei confronti di parte diversa dall’appellante principale (Cass. n. 7519 del 2014, in motiv., con espresso riferimento a Cass. SU n. 4640 del 1989, che ha ampliato l’ambito oggettivo dell’impugnazione incidentale tardiva, consentendola avverso qualsiasi capo della sentenza, anche se diverso da quello investito dall’impugnazione principale).

11.1. Con il quinto motivo, la ricorrente, lamentando la violazione dell’art. 183 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto la tardività della domanda, formulata in sede di precisazione delle conclusioni, con la quale la stessa aveva chiesto l’accertamento della proprietà del fabbricato.

11.2. La corte, infatti, ha osservato la ricorrente, non ha considerato il fatto che la stessa, a fronte della domanda con la quale l’attore aveva chiesto che il giudice accertasse e dichiarasse l’insussistenza di alcun diritto reale in capo alla convenuta, aveva contestato la pretesa rivendicatoria dell’attore chiedendo, sin dalla propria costituzione in giudizio, il rigetto della domanda avversaria.

11.3. Ne consegue, ha concluso la ricorrente, che, in sede di precisazione delle conclusioni, la propria domanda doveva intendersi come precisata e non modificata posto che il rigetto, chiesto dalla convenuta, dell’accertamento negativo invocato dalla controparte non avrebbe potuto che incidere, accertandolo, sul diritto di proprietà contestato dal B..

12. Il motivo, nella misura in cui presuppone l’ammissibilità della documentazione prodotta solo in appello, vale a dire l’atto con il quale nel 1963 la società ricorrente avrebbe acquistato da terzi la proprietà dell’edificio in questione, risulta, evidentemente, assorbito dal rigetto, in precedenza disposto, della corrispondente censura.

13.1. Con il sesto motivo, la società ricorrente, lamentando la violazione dell’art. 936 c.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, senza fornire un’adeguata motivazione, ha rigettato la domanda che la stessa aveva proposto in ordine al riconoscimento, in proprio favore, dell’indennità prevista dalla predetta norma, pur essendosene verificato il presupposto, e cioè l’inesistenza, tra le parti, di alcun rapporto giuridico, reale o personale.

13.2. Non v’è dubbio, infatti, ha proseguito la ricorrente, che l’obbligo di indennizzare il terzo che abbia eseguito sul fondo altrui opere con materiali propri, secondo la previsione di cui all’art. 936 c.c., comma 2, gravi, anzichè sul proprietario al momento dell’accessione, sul successivo acquirente dello stesso bene qualora il primo abbia trasferito l’immobile al secondo senza includere nel prezzo le suddette opere posto che, in tale ipotesi, è l’acquirente che riceve un arricchimento in relazione al depauperamento dell’esecutore.

14. Il motivo è infondato. La ricorrente, infatti, non si è confrontata con la ratio sottostante alla decisione assunta dalla corte d’appello la quale, invero, non ha rigettato, nel merito, la domanda che la stessa aveva proposto, confermando sul punto la sentenza del tribunale, ma, più radicalmente, ha dichiarato l’inammissibilità, a fronte della motivazione assunta dal giudice di prime cure, del motivo che l’appellante aveva articolato, lì dove, in particolare, ha ritenuto che le relative doglianze “non soddisfano l’obbligo cui la parte appellante è tenuta, di indicare puntualmente le ragioni sulle quali si fonda il gravame, unendo… una parte argomentativi atta a contrastare le ragioni addotte dal primo giudice, e tale assenza preclude ogni su(a) possibilità di esame del motivo dato che, alle articolate argomentazioni del Tribunale, l’appellante si è limitato a contrapporre la mera affermazione del suo preteso diritto all’indennità ex art. 936 c.c….”.

15. Con il settimo motivo, la ricorrente, lamentando l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha completamente omesso qualsivoglia disamina in ordine a quanto già esposto circa: – il rinnovo della concessione di esercizio fino al 2016; l’intervenuto acquisto della proprietà del bene fin dal 1963 da parte della SNFT; – la circostanza che all’interno dell’immobile si svolge un’attività riconducibile ad una concessione di pubblico servizio. Si tratta, invero, ha osservato la ricorrente, di circostanze acquisite alla causa tramite prova scritta od orale, idonee di per sè, ove fossero state prese in considerazione, a condurre con certezza ad una decisione diversa da quella adottata.

16. Il motivo è assorbito, rispettivamente, dal rigetto dei motivi di cui ai punti 8.1, 10.2 ed 8.4.

17. Il ricorso dev’essere, quindi, rigettato.

18. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

19. La Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%; dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 3 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 ottobre 2019

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