Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27356 del 07/10/2021

Cassazione civile sez. I, 07/10/2021, (ud. 21/09/2021, dep. 07/10/2021), n.27356

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22394/2020 proposto da:

O.F., elettivamente domiciliata in Rimini via Soardi n. 6

presso lo studio dell’avv. Monica Castiglioni, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1084/2020 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 21/04/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/09/2021 dal Consigliere Dott. Rita RUSSO.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

La ricorrente, cittadina (OMISSIS) ha chiesto la protezione internazionale dichiarando di essere fuggita dal suo paese seguendo il marito, il quale: era rimasto coinvolto in una contesa ereditaria; arrestato dalla polizia; rinchiuso in carcere per due giorni e poi liberato su cauzione; e successivamente nuovamente accusato della scomparsa di un cugino. Ha riferito di aver avuto timore che, restando in patria, gli avversari coinvolti nella disputa ereditaria avrebbero potuto ucciderla. Ha poi dedotto di avere avuto un figlio in Italia nato nel (OMISSIS) e di essere in attesa di un altro. La competente Commissione territoriale ha respinto la richiesta.

Il Tribunale di Bologna, adito dalla ricorrente, ha respinto il ricorso.

La richiedente asilo ha proposto appello che la Corte d’appello di Bologna ha respinto ritenendo il racconto generico, non circostanziato e comunque non plausibile; ha escluso altresì la sussistenza del rischio di violenza indiscriminata derivante dal conflitto di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c), in base alle informazioni tratte dal report EASO del 2018 ed ha escluso, infine, la sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria, rilevando che è non è stata allegata una situazione di effettiva stabile e significativa integrazione in Italia, cioè che in difetto di altri indici, non è costituito dall’esclusivo studio della lingua italiana e da un’ attività di volontariato; la Corte ha osservato che la richiedente è persone in età matura, in buona salute con dichiarati legami familiari in patria e quindi non presenta profili di vulnerabilità.

Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la richiedente affidandosi a due motivi.

L’Avvocatura dello Stato, non tempestivamente costituita, ha presentato istanza per la partecipazione ad eventuale discussione orale. La causa è stata trattata all’udienza camerale non partecipata del 10 settembre 2021.

Diritto

RITENUTO

CHE:

1.- Con il primo motivo del ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, il difetto di motivazione della sentenza impugnata in ordine al rigetto delle doglianze contenute nell’atto d’appello. La ricorrente deduce che nell’atto d’appello sono state puntualmente e dettagliatamente contestate le contraddittorietà e le inverosimiglianze ravvisate dal giudice di primo grado e che pertanto il giudice di secondo grado era chiamato motivare il rigetto delle contestazioni contenute nei motivi di appello e non allinearsi genericamente alla decisione del tribunale.

Il motivo è inammissibile, posto che la parte non trascrive le specifiche censure proposte con l’atto d’appello, sulle quali la Corte non avrebbe preso posizione, limitandosi alla generica ed apodittica affermazione della sussistenza di censure non considerate dal giudice di secondo grado. Di contro, la Corte ha motivato sul punto del rischio individuale specifico e sulla attendibilità, ritenendo il racconto generico; ha, inoltre, specificamente chiarito che le ragioni addotte non costituiscono motivi persecutori, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8 (narrandosi di una contesa per ragioni private), ed ha altresì affermato che non sussistono neppure i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. a) e b), posto che la richiedente non ha riferito di avere chiesto la protezione statale e di non averla ricevuta, bensì di avere preferito la fuga piuttosto che chiedere la protezione dello Stato.

Questa affermazione costituisce uno snodo fondamentale della motivazione, la cui portata non è colta adeguatamente dalla difesa della ricorrente.

Ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 5, infatti, ai fini della valutazione della domanda di protezione internazionale, i responsabili del persecuzione o del danno grave sono anche i soggetti non statuali, se lo Stato o le organizzazioni che controllano il territorio “non possono o non vogliono fornire protezione” contro persecuzioni o danni gravi, ma anche su questo specifico punto sussiste un onere di compiuta allegazione, poiché la valutazione deve rendersi in concreto e non in astratto, trattandosi di informazioni relative alla storia personale di cui solo la richiedente può essere a conoscenza (v. CGUE 5 giugno 2014, causa C146/14; nello stesso senso Cass. 8819/2020).

La persecuzione da parte di un agente privato rileva solo nel caso in cui l’organizzazione statale non sia in grado, in concreto, di proteggerlo; pertanto, è essenziale che il richiedente, sul quale incombe l’onere di allegazione (Cass. n. 11175/2020; Cass. n. 24010/2020), indichi se egli si sia rivolto o meno alle autorità e quale sia stata la risposta ovvero per quale ragione ciò non sia stato possibile: ed è esattamente su questo punto che la Corte ha rilevato un difetto di specifica allegazione.

2.- Con il secondo motivo del ricorso, la parte lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, l’erronea applicazione di norme di diritto, in relazione al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6 e art. 19, nonché la carenza o insufficienza della motivazione, per il mancato riconoscimento della protezione umanitaria. Deduce che, essa ricorrente, vive in Italia da quattro anni e durante la permanenza nel territorio nazionale ha avuto due figli, nati rispettivamente nel (OMISSIS) e nel (OMISSIS); che questa situazione familiare le ha impedito di svolgere attività lavorativa e nonostante ciò ha compiuto ogni sforzo per integrarsi nel contesto italiano, svolgendo attività di volontariato e frequentando un corso per l’apprendimento della lingua italiana; deduce che anche due figli minori sono stati integrati nel contesto sociale nazionale. Lamenta che la Corte non ha valutato la sua situazione di vulnerabilità in relazione alla situazione socio politica del paese di provenienza rispetto alle condizioni di vita raggiunte in Italia per sé stessa ed anche e soprattutto per i figli minori.

Il motivo è fondato.

Preliminarmente, si osserva che alla domanda di protezione umanitaria presentata dal ricorrente, in data anteriore al 5 ottobre 2018, si applica la disciplina previgente alla modifica apportate dal D.L. n. 113 del 2018 al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6 (Cass. sez. un. 29459/19). Inoltre, non si applica nemmeno la disciplina sulla protezione della vita privata e familiare del richiedente, introdotta – mediante la sostituzione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 19 – dal D.L. n. 21 ottobre 2020, n. 130, poiché essa è applicabile retroattivamente solo ai procedimenti che alla data di entrata in vigore di detto D.L. n. (22 ottobre 2020) erano pendenti “avanti alle commissioni territoriali, al questore e alle sezioni specializzate dei tribunali”; non, quindi, ai procedimenti che, come il presente, al 22.10.20 pendevano davanti alla Corte di cassazione. La protezione umanitaria, va chiarito, è una protezione nazionale, complementare rispetto alla protezione internazionale in senso stretto, e che per costante giurisprudenza di questa Corte è va ricostruita quale misura atipica, espressione del diritto di asilo, legata alla tutela dei diritti fondamentali. Una tutela a carattere residuale, posta a chiusura del sistema, in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione; i motivi di carattere umanitario per il rilascio del permesso di soggiorno sono comunemente individuati con riferimento alle Convenzioni internazionali che autorizzano il nostro Paese ad adottare misure di protezione dei diritti umani fondamentali e che trovano espressione e garanzia anche nella Costituzione, in forza dell’art. 2 Cost. e sono dunque riconducibili a un “catalogo aperto”, legato a ragioni non necessariamente fondate sul fumus persecutionis o sul pericolo di danno grave per la vita o per l’incolumità psicofisica. Le situazioni c.d. vulnerabili, da proteggere alla luce degli obblighi gravanti sullo Stato italiano, possono derivare da cause non normativamente tipizzate, ma saldamente ancorate alla tutela dei diritti fondamentali, e tra questi il diritto alla vita privata e familiare.

In concreto, l’accertamento dei seri motivi di carattere umanitario, richiede una verifica sulla esposizione a rischio del diritto protetto, da farsi tramite la valutazione comparativa della situazione del richiedente che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia con la situazione soggettiva ed oggettiva in cui il medesimo si troverebbe rientrando nel Paese d’origine, al fine di verificare “se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza” (Cass. n. 4455/18, Cass. sez. un. 29459/19). Ciò implica che la situazione del richiedente asilo deve essere valutata nella sua interezza sia con riferimento alle ragioni che hanno determinato la fuga dal paese di origine (ove credibilmente allegate), che agli eventuali fatti occorsi durante la migrazione ed infine, ultimo ma non ultimo, con riferimento alla condizione di integrazione personale, familiare, lavorativa e sociale conseguita sul territorio nazionale come Stato di approdo.

Ciò posto si osserva che la Corte d’appello di Bologna pur essendo a conoscenza della situazione familiare della donna, che è giunta in Italia con il marito e che qui ha dato alla luce la prole, ha valutato la situazione familiare della ricorrente, facendo riferimento ai “dichiarati legami familiari in patria” (verosimilmente la famiglia di origine) e non già alla propria famiglia nucleare, fondata sul matrimonio, che ha generato i figli, ossia alla relazione familiare propria, poiché connotata dalla consuetudine di vita data dalla convivenza, dalla generazione della propria discendenza, dagli impegni di cura ed assistenza della prole nonché dall’assistenza morale e materiale tra i coniugi.

Sulla rilevanza della relazione familiare ai fini di valutare la condizione di vulnerabilità sono di recente intervenute le sezioni unite di questa Corte, le quali hanno affermato che il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, impone di dare tutela all’intera rete di relazioni che il richiedente si è costruito in Italia; relazioni familiari, ma anche affettive e sociali, quali le esperienze di carattere associativo che il richiedente abbia coltivato, oltre che le relazioni lavorative e, più genericamente, economiche. La Corte ha quindi richiamato il disposto degli artt. 2 e 3 Cost. e la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale in materia, rilevando che è alla luce di tali disposizioni costituzionali che va individuato il senso e la tecnica della comparazione da effettuare tra ciò che il richiedente lascia in Italia e ciò che egli troverà nel suo Paese di origine, dovendo cioè valutarsi, nel giudizio sulla vulnerabilità, non solo il rischio di danni futuri – legati alle condizioni oggettive e soggettive che il migrante (ri)troverà nel Paese di origine – ma anche il rischio di un danno attuale da perdita di relazioni affettive, di professionalità maturate, di osmosi culturale riuscita (Cass. sez. un 24413/2021).

Nella predetta sentenza la Corte, confermando che ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria deve procedersi a giudizio di comparazione tra le condizioni di vita nel paese di accoglienza e quelle del paese di origine, secondo il già consolidato nella giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 4455/18, Cass. sez. un. 29459/19) ha precisato che “in presenza di un livello elevato d’integrazione effettiva nel nostro Paese – desumibile da indici socialmente rilevanti quali la titolarità di un rapporto di lavoro (pur se a tempo determinato, costituendo tale forma di rapporto di lavoro quella più diffusa, in questo momento storico, di accesso al mercato del lavoro), la titolarità di un rapporto locatizio, la presenza di figli che frequentino asili o scuole, la partecipazione ad attività associative radicate nel territorio di insediamento – saranno le condizioni oggettive e soggettive nel Paese di origine ad assumere una rilevanza proporzionalmente minore” (Cass. sez. un. 24413/2021).

Alla luce di questi principi si evidenzia l’errore in cui è incorsa la Corte d’appello la quale, per un verso, ha svalutato impropriamente l’impegno profuso della ricorrente nelle attività di volontariato, che costituisce un indice di integrazione sociale in particolare qualora il soggetto – impegnato nelle cure familiari – non possa accedere ad un rapporto di lavoro continuativo, e dall’altro, non ha affatto valutato la presenza sul territorio italiano di figli minori della coppia, dei quali uno nato nel (OMISSIS), e quindi già in età di inserimento alla scuola materna, ingiustificatamente enfatizzando invece i legami familiari in patria. In una situazione familiare così articolata, la condizione dell’individuo non può essere valutata uti singulo, dovendosi considerare le conseguenze di un eventuale rimpatrio sulla vita familiare intesa nel suo complesso, avendo riguardo a quegli assetti di vita che nel tempo si sono consolidati.

Se vi è un radicamento forte sul territorio del richiedente asilo, le condizioni soggettive e oggettive del paese di origine assumono una rilevanza minore; non rileva se le condizioni del paese di origine siano tali da determinare oggettivamente la lesione dei diritti fondamentali in evidenza, ma se tale effetto si produca con il rimpatrio, in relazione al divario tra ciò che l’interessata ha conseguito in Italia e ciò che irrimediabilmente perderebbe tornando nel paese di origine.

Ne consegue, in accoglimento del secondo motivo di ricorso, dichiarato inammissibile il primo, la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio della causa alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione, perché attenendosi ai citati principi, affermati dalle sezioni unite, riesamini la vicenda avendo riguardo alla condizione familiare e alla integrazione sociale della ricorrente anche sulla base di eventuali altri elementi sopravvenuti di cui la parte potrà offrire prova, per eseguire correttamente il giudizio di comparazione ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria.

PQM

Dichiara inammissibile il primo motivo del ricorso; accoglie il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese relative a questo giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 10 settembre 2021 e, a seguito di riconvocazione, in quella, il 21 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2021

 

 

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