Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27346 del 30/11/2020

Cassazione civile sez. lav., 30/11/2020, (ud. 16/09/2020, dep. 30/11/2020), n.27346

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3485-2017 proposto da:

A.D., B.S., B.R., B.D.,

C.A., C.F., D.R.R.,

D.P.R., D.P.M., G.F., G.A.,

L.P., L.S., N.L., P.M., R.G.,

R.G., S.F., S.M., S.S.,

V.M., V.A., V.A., Z.M., tutti

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 37, presso lo

studio dell’avvocato ALESSANDRO GRAZIANI, che li rappresenta e

difende unitamente agli avvocati GIULIANO MARCHI, COSIMO CISTERNINO;

– ricorrenti –

contro

ASSOCIAZIONE COMUNIONE PROVENTI ALEATORI, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

TAGLIAMENTO 55, presso lo studio dell’avvocato NICOLA DI PIERRO,

rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO SCHIOPPA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 255/2016 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 29/07/2016 R.G.N. 304/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/09/2020 dal Consigliere Dott. PAGETTA ANTONELLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE ALBERTO, che ha concluso per l’inammissibilità in subordine

rigetto;

udito l’Avvocato COSIMO CISTERNINO anche in sostituzione

dell’Avvocato GIULIANO MARCHI;

udito l’Avvocato FRANCESCO SCHIOPPA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Venezia ha confermato la sentenza di primo grado di rigetto della domanda con la quale A.D. ed altri dipendenti del Casinò Municipale di Venezia s.p.a., premesso di partecipare alla Comunione Proventi Aleatori (da ora CPA) secondo la ripartizione prevista dal regolamento della stessa, espressamente accettato al momento dell’assunzione e tale da determinare un diritto individuale di ciascun partecipe all’entità ivi prevista, hanno chiesto accertarsi la illegittimità della modifica del regolamento conseguente a procedura referendaria, modifica che aveva comportato una sostanziale riduzione dell’entità della partecipazione alla comunione di ciascuno, e la condanna della convenuta CPA alla restituzione delle somme indebitamente trattenute sulla base della modifica contestata.

2. Il giudice di appello ha respinto la censura dei lavoratori secondo la quale, pur ammettendo la natura di associazione non riconosciuta della CPA e la non configurabilità di una vera e propria comunione dei beni, il rinvio operato dall’art. 22 del Regolamento alla disciplina del titolo VII del libro III del codice civile in tema di comunione implicava, in applicazione delle norme codicistiche di cui all’art. 1103 c.c., e all’art. 1138 c.c., la impossibilità per l’assemblea di deliberare sulla incidenza della quota di partecipazione di ciascuno in assenza del relativo consenso; come evidenziato, infatti, dal primo giudice, occorreva tener conto del chiaro disposto dell’art. 23, comma 3, del Regolamento, rimasto invariato anche dopo la modifica del comma 2, a mente del quale gli emendamenti e le modificazioni del Regolamento, in ipotesi di variazioni patrimoniali degli aventi diritto, vengono assunti con consultazione referendaria sulla base della maggioranza dei votanti; in ogni caso, non era stata impugnata la decisione di primo grado nella parte in cui, con motivazione autosufficiente, aveva richiamato a sostegno della statuizione di rigetto il disposto dell’art. 23, comma 3, del Regolamento; ha quindi osservato che ove avesse dovuto ritenersi fondato l’assunto della immodificabilità, senza il consenso dell’interessato, della misura della partecipazione all’associazione, gli odierni ricorrenti nulla avrebbero potuto invocare sulla base del Regolamento entrato in vigore nell’anno 2007, come, invece, avvenuto, ma avrebbero dovuto chiedere l’applicazione nei propri confronti del Regolamento in vigore all’atto della loro assunzione e dell’ingresso nell’associazione, avvenuti per tutti in epoca anteriore all’anno 1999; privo di pregio era, a fini interpretativi, il riferimento alla prassi posto che essa era destinata ad operare nell’interpretazione di contratti collettivi aziendali e non per gli accordi tra associati; infine, era da respingere l’ulteriore motivo, sviluppato solo dagli appellanti di cui al ricorso inscritto al n. RG 530/2013, incentrato sulla irriducibilità della misura della partecipazione di ciascuno alla distribuzione delle mance in ragione della natura retributiva delle stesse; ciò in quanto, di regola, tali somme, alla luce della consolidata giurisprudenza di legittimità, non avevano natura retributiva.

3. Per la cassazione della decisione hanno proposto ricorso A.D. e gli altri partecipanti all’associazione come in epigrafe indicati; la CPA ha resistito con tempestivo controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo parte ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1363 e 1367 c.c., censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto inapplicabile l’art. 22 del Regolamento CPA laddove esso rinviava al titolo VII del libro 3 del codice civile e per avere ritenuto consentita, alla stregua dell’art. 23, comma 3, del Regolamento la possibilità di variazione patrimoniale della partecipazione sulla base di consultazione referendaria. Sotto il primo profilo denunzia violazione del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 c.c., in quanto la interpretazione adottata dalla Corte di merito rendeva privo di significato il rinvio alle disposizioni codicistiche operato dal Regolamento della comunione; sotto il secondo profilo denunzia violazione del canone per cui le clausole del contratto si interpretano le une con le altre ed in questa prospettiva afferma che la possibilità di modifica referendaria doveva essere intesa come limitata alle ipotesi particolari di regolamentazione della partecipazione alla distribuzione delle mance, ipotesi caratterizzate dall’assenza di effettiva prestazione lavorativa resa dall’associato (artt. 7, 8, 11, quest’ultimo in tema di indennità di buonuscita).

2. Con il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1100,1101,1103,1106 e 1108 c.c.; censura la qualificazione del legame tra gli associati e la CPA come scaturente da contratto plurilaterale avente ad oggetto la ripartizione della comune somma di danaro costituita dalle mance incassate e, quindi, con comunione di scopo; sostiene che nel caso di specie si sarebbe in presenza di una comunione propria, connotata dall’esistenza di un diritto reale nella titolarità di più persone; tanto comportava che le delibere assunte dalla maggioranza non potevano incidere sui diritti di proprietà dei singoli associati.

3. il primo motivo di ricorso è inammissibile per difetto di integrale trascrizione del documento – rappresentato dal testo del Regolamento – della cui interpretazione ci si duole. La giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, ripetutamente chiarito che il ricorrente per cassazione che intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, il duplice onere, imposto a pena di inammissibilità del ricorso, di indicare esattamente nell’atto introduttivo in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione, e di evidenziarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nei suoi esatti termini, al fine di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo, senza dover procedere all’esame dei fascicoli d’ufficio o di parte (Cass. 29093/2018, n. 195/2016, n. 16900/2015, n. 26174/2014); ciò anche allorchè la sentenza abbia fatto riferimento al documento, riproducendone solo in parte il contenuto, qualora questo non consenta una sicura ricostruzione del diverso significato che ad esso il ricorrente pretende di attribuire (Cass. n. 19044/2010, n. 4178/2007, n. 3075/2006).

3.1. Parte ricorrente si è sottratta a tale onere in quanto si è limitata ad una trascrizione parcellizzata del contenuto del regolamento, o meglio ha trascritto solo alcune disposizioni per intero (v. per gli artt. 7 e 11) mentre ha proceduto ad una trascrizione solo parziale dell’art. 22 del Regolamento e omesso di trascrivere il testo dell’art. 23, previsioni queste ultime direttamente coinvolte dall’attività ermeneutica del giudice di merito e la cui trascrizione appariva indispensabile al fine di definire i termini del rinvio operato alle norme codicistiche.

4. Il secondo motivo è inammissibile. La questione della configurabilità nella CPA di una comunione di scopo non è stata specificamente affrontata dalla Corte di merito per cui occorreva la dimostrazione da parte degli odierni ricorrente della sua rituale e tempestiva deduzione in primo grado e della sua reiterazione in appello. Secondo il condivisibile orientamento di questa Corte, qualora una determinata questione giuridica – che implichi accertamenti di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa.” (Cass. n. 1435/2013, n. 20518/2008, n. 22540/2006) giacchè i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito nè rilevabili di ufficio.

4.1. Parte ricorrente non ha rispettato le richiamate prescrizioni in quanto non ha chiarito se ed in che termini la questione della configurabilità o meno di una comunione di scopo in relazione alla CPA era stata dedotta nel giudizio di merito; tanto assorbe l’ulteriore rilievo di inammissibilità del motivo scaturente dal fatto che dallo storico di lite della sentenza impugnata, che contiene la trascrizione della parte motiva della sentenza di primo grado, si evince che il giudice di prime cure, in tema di natura della CPA, aveva affermato la configurabilità di un’associazione non riconosciuta e pertanto soggetta alle regole di cui agli artt. 36 e 38 c.c., precisando che il vincolo tra gli associati scaturiva da un contratto plurilaterale, avente ad oggetto la ripartizione della comune somma di danaro costituita dalle mance “quindi con comunione di scopo” (v. sentenza di appello, pag. 11); tale affermazione non risulta specificamente contrastata con il ricorso in appello alla luce della ricostruzione dei relativi motivi quale effettuata dal giudice di secondo grado (v. in particolare, sentenza, pag. 14, 2 capoverso), quest’ultima pure non specificamente contrastata sul punto dagli odierni ricorrenti.

5. Alla inammissibilità del ricorso segue il regolamento delle spese di lite secondo soccombenza.

6. Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis (Cass. Sez. Un. 23535 del 2019).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 6.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 16 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 novembre 2020

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