Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27345 del 24/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 24/10/2019, (ud. 19/09/2019, dep. 24/10/2019), n.27345

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17108-2014 proposto da:

P.N., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OTTORINO

LAZZARINI 19, presso lo studio degli avvocati ANDREA SGUEGLIA, UGO

SGUEGLIA, che lo rappresentano e difendono;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i

cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3080/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 11/04/2014 R.G.N. 6281/2011.

Fatto

RITENUTO

1.Che il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 3080/14, accoglieva la domanda proposta da P.N. nei confronti del Ministero degli affari esteri (MAE), e dichiarava il diritto dello stesso a rimanere in servizio presso il Consolato d’Italia in Scutari sino al 31 dicembre 2009, con condanna dell’Amministrazione al pagamento delle differenze retributive per il periodo 20 aprile 2009 – 31 dicembre 2009, e di quello che avrebbe percepito qualora avesse proseguito l’attività lavorativa presso l’indicato Consolato.

Il Tribunale riteneva la natura disciplinare del trasferimento, non ravvisando ragioni organizzative diverse da quelle che avevano determinato l’avvio del procedimento disciplinare, come reso evidente dalla vicinanza cronologica di quest’ultimo.

2. La Corte d’Appello ha accolto l’appello del MAE e ha respinto le originarie domande, richiamando la giurisprudenza di legittimità sul trasferimento per incompatibilità aziendale (mancanza di colpa del lavoratore; mancata previsione di garanzie procedimentali e sostanziali; ragionevolezza delle scelta di trasferimento sul piano tecnico, organizzativo e produttivo; compatibilità del trasferimento con il procedimento disciplinare e la sanzione disciplinare).

Il giudice di secondo grado, quindi, ha disatteso la decisione del Tribunale che aveva dichiarato illegittimo il trasferimento ritenendolo sanzionatorio per il solo fatto che fosse stato disposto in relazione a fatti oggetto anche di procedimento disciplinare; nè occorreva, afferma la Corte d’Appello, che fosse definito il procedimento disciplinare prima di disporre il trasferimento.

Il giudice di primo grado aveva operato una confusione tra i presupposti che legittimano l’adozione del provvedimento disciplinare (accertamento della inadempienza e della responsabilità) e quelli che giustificano l’assegnazione del dipendente ad altra sede di servizio, purchè fondata su ragioni obiettive e non pretestuose attinenti alla organizzazione dell’azienda o dell’ufficio.

2.1. In ragione delle risultanze istruttorie la Corte d’Appello affermava, quindi, che nella specie vi erano circostanze idonee a generare quel clima di sfiducia tra il ricorrente P., il Console e l’Amministrazione, pregiudizievole per il buon andamento ed il prestigio della struttura, senza che potesse assumere rilievo l’esclusione della responsabilità penale.

La Corte d’Appello riteneva non potersi riconoscere a titolo di risarcimento danni l’indennità di sede estera, atteso che in ragione del carattere indennitario e non retributivo, la mancata percezione di quest’ultima, nella specie, non poteva integare danno patrimoniale.

3. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore prospettando cinque motivi di impugnazione.

4. Resiste con controricorso il Ministero.

5. In prossimità dell’adunanza camerale il lavoratore ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

1. Che con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 13, comma 4 Contratto collettivo integrativo MAE del 3 agosto 2000; degli artt. 1175,1375,2103 e 2697 c.c.; degli artt. 112 e 115 c.p.c.; del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 2; dell’art. 97 Cost.; tutti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Assume il ricorrente che la Corte d’Appello avrebbe travisato la portata della sentenza di primo grado, che aveva affermato che nel provvedimento (di trasferimento) non vi era alcuna ragione di natura organizzativa esplicitata, se non quelle relative al procedimento disciplinare, nè si era svolta istruttoria.

Il Tribunale aveva annullato il trasferimento non perchè era sanzionatorio, ma perchè non sussistevano le ragioni organizzative che lo potevano giustificare.

La Corte d’Appello, invece, aveva accolto l’impugnazione in ragione della tesi, introdotta in corso di causa dall’Amministrazione, della sussistenza di incompatibilità ambientale.

Tale motivazione, tuttavia, non si rinveniva nel D.M. n. 625 del 16 marzo 2009 (con cui veniva disposto il rientro del P. in Roma, presso la sede centrale), nel quale si faceva riferimento a gravi carenze nelle pratiche relative ai visti rilasciati dal sig. P., che facevano riteneva sussistenti le ragioni organizzative, produttive e di servizio, che determinavano la necessità del trasferimento con urgenza.

Quindi, l’Amministrazione, tenuto conto della motivazione del provvedimento di trasferimento – che peraltro con riguardo alle ragioni di servizio non trovava riscontro nell’art. 2103 c.c., che fa riferimento a ragioni tecniche – modificava illegittimamente, nel corso del giudizio, le ragioni poste a fondamento dell’atto, facendo riferimento all’incompatibilità ambientale.

Il decreto inoltre, non risultava motivato adeguatamente, ai sensi dell’art. 13, comma 4, del CCI del MAE, del 3 agosto 2000.

2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c.; degli artt. 1175,1375,2103 e 2697 c.c.; del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 2; dell’art. 97 Cost.; tutti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Il ricorrente ripercorre la motivazione della sentenza di appello con cui il giudice di secondo grado ha vagliato la documentazione in atti.

Richiama, quindi, la giurisprudenza di legittimità in materia di incompatibilità ambientale, secondo la quale spetta all’Amministrazione allegare e provare in concreto la lamentata incompatibilità, e cioè che la condotta del dipendente produca effettivamente conseguenze di disorganizzazione, disfunzione o conflitto organizzativo interno all’unità produttiva, anche in ragione dei principi di cui all’art. 97 Cost.

Solo quando l’Amministrazione ha dato la prova di tali fatti si possono ritenere sussistenti i profili tecnici, organizzativi e produttivi ex art. 2103 c.c.

Il MAE non aveva dato la prova della sussistenza della situazione di incompatibilità ambientale, e nella documentazione prodotta in atti non si accennava a tale situazione.

Nonostante ciò, la Corte d’Appello aveva ritenuto comprovata la circostanza, richiamando solo parzialmente la nota dell’11 febbraio 2009, che, peraltro, l’Amministrazione aveva pretermesso di illustrare diffusamente.

Un compiuto esame del suddetto atto, di cui sono riportati stralci nel ricorso, poneva in evidenza valutazioni favorevoli, con conseguente erroneità dell’affermazione della sentenza di appello, laddove riteneva che la valutazione complessiva della documentazione escludeva l’arbitrarietà del provvedimento censurato in quanto adottato sulla base di comprovate circostanze di fatto idonee ad incidere negativamente sulla funzionalità e sull’efficienza dell’ufficio, nonchè sull’immagine della rappresentanza consolare.

3. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.

La sentenza di appello si sarebbe fondata su argomentazioni non dedotte da controparte, e facendo riferimento quale elemento di prova a documentazione che, sebbene depositata in atti, non è mai stata indicata a tal fine dalla difesa avversaria (nota 5 marzo 2009 a cui la Corte d’Appello dava rilievo in quanto richiamata nella nota 11 febbraio 2009, ma non invocata dall’Amministrazione). Pertanto la Corte d’Appello avrebbe deciso ultra petita.

4. Il primo ed il terzo motivo di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.

4.1. Gli stessi sono inammissibili.

4.2. Occorre premettere che, con riguardo sia al lavoro privato (Cass., n. 27226 del 2018), che al pubblico impiego privatizzato (Cass., n. 2143 del 2017), questa Corte ha avuto modo di affermare che il trasferimento per incompatibilità aziendale/ambientale, trovando la sua ragione nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell’unità produttiva/dell’Amministrazione, va ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e produttive, di cui all’art. 2103 c.c., piuttosto che, sia pure atipicamente, a ragioni punitive e disciplinari, con la conseguenza che la legittimità del provvedimento datoriale di trasferimento prescinde dalla colpa (in senso lato) dei lavoratori trasferiti, come dall’osservanza di qualsiasi altra garanzia sostanziale o procedimentale che sia stabilita per le sanzioni disciplinari.

Il trasferimento, peraltro, è subordinato ad una valutazione discrezionale dei fatti che fanno ritenere nociva, per il prestigio ed il buon andamento dell’ufficio, l’ulteriore permanenza dell’impiegato in una determinata sede (citata Cass., n. 2143 del 2017).

La sussistenza di una situazione di incompatibilità tra il lavoratore ed i suoi colleghi o collaboratori diretti, che importi tensioni personali o anche contrasti nell’ambiente di lavoro comportanti disorganizzazione e disfunzione, concretizza un’oggettiva esigenza di modifica del luogo di lavoro e va valutata in base al disposto dell’art. 2103 c.c., con conseguenza possibilità di trasferimento del lavoratore, sulla base di comprovate ragioni tecniche organizzative e produttive.

Ed infatti, la situazione di incompatibilità riguarda situazioni oggettive o situazioni soggettive valutate secondo un criterio oggettivo, indipendentemente dalla colpevolezza o dalla violazione di doveri d’ufficio del lavoratore, causa di disfunzione e disorganizzazione, non compatibile con il normale svolgimento dell’attività lavorativa (v., Cass., n. 10833 del 2017).

4.3. Nella specie, come espone la Corte d’Appello, il trasferimento del P. veniva disposto dal MAE con specifico riferimento alle gravi carenze nelle pratiche relative ai visti rilasciai dallo stesso, così come portate alla di lui attenzione con comunicazione n. 031/78.917 del 5 marzo 2009, a seguito delle quali il Ministero ha ritenuto sussistenti ragioni organizzative, produttive e di servizio, tali da rendere necessario il richiamo dalla sede estera.

Tale comunicazione, evidenziava che all’esito dei controlli sui visti rilasciati a cittadini albanesi, erano state individuate 59 pratiche di visti concessi sulla base di documentazione bancaria e di certificazioni mediche palesemente contraffatte, circostanza questa dalla quale era stato desunto che la documentazione non fosse stata adeguatamente valutata.

Inoltre, nella comunicazione si richiamava anche la violazione dell’ordine di servizio con il quale era stato allontanato dall’ufficio visti il contrattista, e si aggiungeva che, in considerazione del mancato rientro in Albania di 49 cittadini albanesi, ai quali il visto era stato rilasciato sulla base di una istruttoria non adeguata, risultava compromessa l’immagine dell’amministrazione del Paese.

Nella contestazione del 5 marzo 2009 si faceva poi riferimento alla nota dell’11 febbraio 2009, a firma del Console, nella quale si evidenziava che durante i primi mesi dell’anno 2008 erano giunte a chi scriveva varie voci circa il coinvolgimento del Vice Commissario amministrativo P.N. e del contrattista a legge locale in un presunto traffico di visti, e si aggiungeva che il 12 gennaio 2009 i Carabinieri in servizio presso il Consolato avevano consegnato una relazione nella quale si riferiva che fonti anonime avevano segnalato la avvenuta vendita di un visto da parte della rappresentanza consolare.

In proposito la Corte d’Appello osserva che la verifica della relativa domanda, ricevuta dal P., aveva fatto rilevare che erano stati allegati documenti visibilmente contraffatti.

4.4. Tanto premesso, si osserva che la censura di violazione e falsa applicazione di legge riferita al CCI del MAE è inammissibile in quanto l’interpretazione del contratto integrativo è censurabile in cassazione per la violazione di canoni ermeneutici (Cass., n. 19567 del 2019), che nella specie non sono stati invocati ed esplicitati.

Quanto alle restanti censure e in particolare all’asserita modifica della difesa del Ministero in corso di causa, e all’erronea lettura della sentenza del Tribunale da parte del giudice di appello (si v. primo motivo di ricorso), nonchè al carattere ultra petita della pronuncia (si v. terzo motivo di ricorso), si osserva che le stesse sono prive di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata considerata in ragione della complessiva articolata motivazione, con conseguente inammissibilità, ai sensi dell’art. 366 c.p.c..

Ed infatti il ricorrente estrapola alcuni passaggi della decisione di appello, con una frammentazione della stessa che ne offre una lettura incompleta, senza dare atto ed illustrare l’effettivo devolutum oggetto dell’appello, come risulterebbe dai motivi di impugnazione che non trascrive – anche in relazione alla difesa del MAE in primo grado – e dalle proprie difese.

Ciò anche considerato che, con riguardo al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 8077 del 2012, hanno precisato che, in ogni caso, la proposizione del motivo di censura resta soggetta alle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, nel senso che la parte ha l’onere di rispettare il principio di autosufficienza del ricorso e le condizioni di procedibilità di esso (in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), “sicchè l’esame diretto degli atti che la Corte è chiamato a compiere è pur sempre circoscritto a quegli atti ed a quei documenti che la parte abbia specificamente indicato ed allegato”.

Ed infatti, il diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere (Cass., S.U., n. 16598 e n. 22226 del 2016).

4.5. Nella specie, va considerato, che la sentenza, espressamente, afferma che la difesa dello Stato appellava la sentenza del Tribunale, che aveva attribuito natura disciplinare al provvedimento, deducendo, a fondamento della legittimità del trasferimento, che l’Amministrazione aveva agito in ragione dell’art. 2103 c.c.

Tale norma, come è statuito dalla giurisprudenza di legittimità, peraltro richiamata dalla Corte d’Appello, incita le ragioni fondanti il trasferimento ambientale, che è la misura adottata per ovviare ad una situazione in cui l’ulteriore permanenza dell’impiegato in una determinata sede pregiudica il buon andamento dell’ufficio, nozione a cui vanno riferite nel pubblico impiego privatizzato, in ragione dell’art. 97 Cost., le ragioni tecniche organizzative e produttive.

Nella specie, tali ragioni e il trasferimento ambientale si richiamano necessariamente l’una con l’altra, come la complessiva motivazione della sentenza di appello, con la quale il ricorrente non si confronta adeguatamente, evidenzia.

4.6. La Corte d’Appello investita della valutazione dei fatti, già oggetto del procedimento disciplinare, ai sensi dell’art. 2103 c.c. – in particolare avendo riguardo al contenuto del decreto di trasferimento, di cui gli atti nello stesso richiamati fanno parte concorrendo a definirne la motivazione con legittimo vaglio da parte del giudice di merito – riteneva che gli stessi integravano le ragioni previste da tale norma come fondamento legittimo del trasferimento per incompatibilità ambientale, atteso che emergevano circostanze idonee a generare quel clima di sfiducia fra il ricorrente P., il Console e l’Amministrazione, pregiudizievole per il buon andamento e il prestigio della struttura.

Tali circostanze facevano escludere l’arbitrarietà del provvedimento di trasferimento; lo stesso, infatti, veniva adottato in base a circostanze specifiche e comprovate idonee ad incidere negativamente sulla funzionalità e sull’efficienza dell’ufficio, nonchè sull’immagine della rappresentanza consolare.

4.7. L’omessa considerazione di tale complesso iter motivazionale e della complessiva ratio decidendi della pronuncia di appello, e la formulazione delle censure con riguardo a singoli passaggi della stessa, rende inammissibili le censure.

5. Il secondo motivo di ricorso, pur venendo indicata nella rubrica la violazione e falsa applicazione di legge, si sostanzia nella inammissibile richiesta di una rivalutazione delle risultanze istruttorie inammissibile in sede di legittimità, peraltro prospettata anch’essa in ragione di una non compiuta considerazione della ratio decidendi della sentenza di appello, nei termini sopra esposti.

Ed infatti, la dedotta violazione dell’onere della prova si sostanzia in una censura della valutazione della prova (nel motivo, in particolare, sono richiamati documenti prodotti dall’Amministrazione) data dalla Corte d’Appello.

Occorre rilevare che la sentenza impugnata è stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012.

Trova dunque applicazione il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, nel quale va susssunta la censura, il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Nel sistema, l’intervento di modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto.

Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. n. 19881 del 2014 e Cass. S.U. n. 8053 del 2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”, sicchè quest’ultima non può essere ritenuta mancante o carente solo perchè non si è dato conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi.

Tali vizi non sono ravvisabili nella specie, atteso che la Corte d’Appello ha preso in esame, operando una valutazione complessiva che ha illustrato, le risultanze istruttorie in atti.

6. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c.; degli artt. 112,113,115 e 432 c.p.c.; tutti in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3.

E’ censurata la statuizione della Corte d’Appello con la quale veniva riformata la decisione del Tribunale di riconoscere al P., a titolo di risarcimento del danno, le differenze tra quanto percepito a titolo di retribuzione dopo il rientro in sede e il trattamento del quale lo stesso avrebbe goduto, ove fosse rimasto assegnato al Consolato di (OMISSIS).

La Corte d’Appello, nel riformare la sentenza del Tribunale, ha qualificato la relativa domanda svolta dal lavoratore come avente ad oggetto l’indennità di sede estera, e in ragione della natura non retributiva della stessa, ha affermato che la mancata percezione, una volta che il lavoratore era tornata presso la sede centrale a (OMISSIS), non poteva integrare danno patrimoniale.

Espone il ricorrente che l’indennità era stata presa in considerazione dal Tribunale solo in via equitativa, come parametro per una valutazione equitativa del danno risarcibile.

6.1. Il motivo non è fondato.

La Corte d’Appello ha qualificato, con statuizione non censurata, la domanda proposta dal lavoratore come volta al riconoscimento dell’indennità di sede estera.

Correttamente, quindi, come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., n. 6039 del 2018), ha ritenuto che l’indennità di servizio all’estero non ha natura retributiva essendo destinata a sopperire agli oneri derivanti dal servizio all’estero ed è ad essi commisurata.

Essa tiene conto della peculiarità della prestazione lavorativa all’estero, in relazione alle specifiche esigenze del servizio diplomatico-consolare.

Nella specie, pertanto, la mancata percezione di tale indennità non poteva integrare danno patrimoniale atteso che il lavoratore, una volta rientrato in Italia, non doveva effettuare gli esborsi che l’indennità doveva compensare.

7. Con il sesto motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c.

Il motivo afferisce alla statuizione resa quanto al pagamento delle spese del primo grado, evidenziandosi che davanti al Tribunale il Ministero era difeso da funzionari che non avevano la qualifica di avvocati.

7.1. Il motivo è fondato.

Il ricorso introduttivo del giudizio è stato depositato nell’anno 2009, sicchè non trova applicazione l’art. 152 bis disp. att. c.p.c., che disciplina la liquidazione delle spese di cui all’art. 91 c.p.c. a favore delle pubbliche amministrazioni assistite da propri dipendenti ai sensi dell’art. 417-bis c.p.c..

La L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 4, comma 42, – nell’aggiungere nel titolo III, capo V, delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile, dopo l’art. 152 l’art. 152 bis – statuisce che la medesima disposizione “si applica alle controversie insorte successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge” e dunque introdotte successivamente all’1 gennaio 2012 (data di decorrenza fissata dall’art. 36 della medesima legge).

Nel presente procedimento continuano, dunque, a trovare applicazione i principi giurisprudenziali, già enunciati da questa Corte in assenza di una disposizione specifica, in ordine all’impossibilità di riconoscere competenze professionali di avvocato a dipendenti privi di tale qualità, potendo attribuirsi il solo rimborso delle spese vive, da indicarsi in apposita nota (v., excursus, in Cass., 9878 del 2019, e giurisprudenza di questa Corte nella stessa richiamata).

Nel controricorso l’Amministrazione non ha dedotto di avere avuto spese vive, nè si rinviene in atti nota spese.

Pertanto, vanno dichiarate non dovute le spese del primo grado di giudizio, ferma la statuizione sulle spese del giudizio di appello.

8. La Corte dichiara inammissibili i primi tre motivi di ricorso. Rigetta il quarto motivo. Accoglie il quinto motivo. Cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo accolto e dichiara, decidendo nel merito, non dovute le spese del giudizio di primo grado.

9. Le spese del presente giudizio cli legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo con compensazione in misura di un terzo.

10. Trattandosi di accoglimento parziale, la parte non è tenuta al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili i primi tre motivi di ricorso. Rigetta il quarto motivo. Accoglie il quinto motivo. Cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo accolto e dichiara, decidendo nel merito, non dovute le spese del giudizio di primo grado. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00, per esborsi, Euro 4.500,00, per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge, dichiara dette spese compensate in misura di un terzo.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 19 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2019

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