Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27341 del 24/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 24/10/2019, (ud. 09/07/2019, dep. 24/10/2019), n.27341

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20937-2014 proposto da:

D.B.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CIRO MENOTTI

24, presso lo studio dell’avvocato PIETRO CAPONETTI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i

cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1708/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 02/04/2014 R.G.N. 5150/2014.

Fatto

RILEVATO

che:

1. con sentenza n. 1708/2014, pubblicata in data 2 aprile 2014, la Corte d’appello di Roma confermava la decisione del locale Tribunale che aveva rigettato la domanda proposta (tra gli altri) dall’odierno ricorrente volta ad ottenere il rimborso della trattenuta di 3/10 sulla retribuzione operata dall’Amministrazione fino al 1986 (ai sensi della L. n. 354 del 1975, art. 23 poi abrogato dalla L. n. 663 del 1986) che la Corte costituzionale, con sentenza n. 49/1992, aveva dichiarato illegittima, con il conseguente obbligo dell’amministrazione di ripetizione in favore del lavoratore – detenuto;

1.1. per quanto ancora rileva nel presente giudizio, con riferimento alla richiesta di restituzione della trattenuta pari a 3/10 della mercede, la Corte riteneva fondata l’eccezione di prescrizione sollevata dal Ministero poichè la restituzione si riferiva agli anni fino al 1986 e la prescrizione decorreva dalla cessazione di ciascun rapporto di lavoro ancorchè eventualmente il detenuto non avesse riacquistato la libertà;

1.2. specificava che l’atto interruttivo della prescrizione proposto dal D.B. era del 25/8/2003, con conseguente prescrizione quinquennale dei crediti maturati fino al 25/8/1998, compresi quelli oggetto del giudizio;

1.3. evidenziava che, rispetto a tale ricostruzione fattuale, non assumessero rilevanza le attestazioni degli istituti penitenziari e i documenti relativi alla situazione contabile della mercede relativi solo a limitati periodi;

2. avverso tale sentenza D.B.O. ha proposto ricorso per cassazione con due motivi;

3. il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso.

4. il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2941 c.c., n. 6, in combinazione con la L. n. 354 del 1975, art. 25 dell’art. 2942 c.c., n. 1, in relazione all’art. 32 c.p., dell’art. 2938 c.c., del principio enunciato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 63/1966 e dalla granitica giurisprudenza di legittimità in materia, dell’art. 10, comma 3, del Patto Internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, e reso esecutivo in Italia con la L. n. 881 del 1977, il quale prescrive che “Il regime penitenziario deve comportare un trattamento dei detenuti che abbia per fine essenziale il loro ravvedimento e la loro riabilitazione sociale”, la Raccomandazione R (87) 3 sulle regole penitenziarie Europee, adottata dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, il 12 febbraio 1987, durante la 404^ riunione dei delegati dei Ministri, ove all’art. 65, lett. b), è previsto l’obbligo di “ridurre gli effetti negativi della detenzione e le differenze tra la vita carceraria e quella in libertà, differenze ce tendono a far diminuire il rispetto di sè e il senso di responsabilità personale dei detenuti”, comma 3, nonchè degli artt. 3,24,27 e 111 Cost. e art. 6 della CEDU, dell’art. 2697 c.c., comma 2, art. 2727c.c., degli artt. 112,113,115,116 e omessa pronuncia ex art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5;

lamenta il ricorrente che la Corte territoriale non abbia considerato la sospensione del termine prescrizionale, in pendenza e per tutto il rapporto detentivo (anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro) ed a causa della condizione di detenuto del ricorrente;

rileva, altresì, che nella specie il Ministero aveva eccepito il maturarsi della prescrizione solo per la sussistenza della stabilità reale ma la Corte aveva accolto l’eccezione di prescrizione con altra motivazione;

2. il motivo è infondato;

2.1. come questa Corte ha già più volte affermato con riferimento al lavoro carcerario (v. Cass. 9 aprile 2015, n. 7147; Cass. 26 febbraio 2015, n. 3925; Cass. 11 febbraio 2015, n. 2696; Cass. 16 febbraio 2015, n. 3062; si veda anche Cass. 15 ottobre 2007, n. 21573) la prescrizione non corre in costanza di rapporto di lavoro tra il detenuto lavoratore e l’amministrazione carceraria ma soltanto dalla cessazione del rapporto stesso;

in conseguenza, non è condivisibile la tesi posta dal ricorrente secondo il quale la sospensione del termine prescrizionale dovrebbe estendersi all’intero periodo di detenzione e dunque permanere una volta che il rapporto di lavoro sia cessato e si protragga invece il rapporto detentivo, dovendo decorrere il termine prescrizionale solo dalla cessazione della detenzione;

tale tesi, infatti, non trova fondamento in disposizioni normative mentre il principio affermato nelle citate pronunce di questa Corte è chiaramente da intendersi nel limitato senso della sospensione con riferimento al rapporto di lavoro a nulla rilevando la condizione di detenuto, restando quest’ultimo gravato degli oneri probatori afferenti qualsivoglia credito e pretesa;

2.2. va, inoltre, rilevato che il richiamo all’art. 2941 c.c., n. 6, e all’art. 2942 c.c. appare del tutto inconferente in quanto le norme citate si riferiscono rispettivamente alle ipotesi di sospensione del termine prescrizionale in considerazione dei rapporti tra le parti o per la condizione del titolare e costituiscono ipotesi tassative non applicabili in via analogica;

l’ipotesi di cui all’art. 2941 c.c., n. 6, attiene, in particolare, al regime dei beni fino al deposito del conto delle persone sottoposte per legge o per provvedimento del giudice all’amministrazione dei beni e non incide sul diverso diritto del detenuto a far valere i diritti derivanti dal rapporto di lavoro con l’amministrazione penitenziaria;

anche il richiamo all’art. 2942 c.c. è inconferente riguardando i minori emancipati e gli interdetti per infermità di mente;

2.3. l’art. 32 c.p. stabilisce, invece, che il condannato a pena superiore a 5 anni è interdetto legale e che per quanto concerne la disponibilità e amministrazione dei beni si applicano le norme del cod. civ.: tali norme sono quelle, in base all’art. 425 c.c., sulla tutela dei minori;

anche l’art. 32 c.p., comma 3, si riferisce alla amministrazione dei beni e dunque non impedisce al detenuto di esercitare i suoi diritti derivanti dal rapporto di lavoro come risulta evidente dalla stessa regolare instaurazione del presente giudizio (circostanza, questa, che esclude, nella ricostruzione di cui ai precedenti sopra ricordati e qui condivisa, ogni violazione del principio di effettività della tutela dei detenuti che lavorano e segnatamente dell’art. 111 Cost. ovvero dell’art. 6 CEDU);

2.4. quanto alla denunciata violazione dell’art. 2938 c.c. (la prescrizione non può essere rilevata d’ufficio) il motivo è inammissibile perchè il ricorrente non ha riprodotto la comparsa di costituzione del Ministero in primo grado e l’atto di costituzione in appello che solo avrebbero consentito a questa Corte di verificare se e in quali termini l’eccezione di prescrizione fosse stata formulata e riproposta;

2.5. per il resto le doglianze, laddove contestano l’individuazione, tra gli atti prodotti dal ricorrente, di quelli costituenti idonea messa mora, involgono valutazioni in fatto riservate al giudice di merito e come tali insindacabili in questa sede di legittimità;

3. con il secondo motivo il ricorrente denuncia mancata motivazione, violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3;

lamenta che la Corte territoriale (a fronte di un rapporto di lavoro cessato l’1/8/1987) abbia fatto decorrere il termine di prescrizione, per il calcolo a ritroso, dalla messa in mora del 25/8/2003 (disattendendo sul punto la pronuncia del Tribunale che aveva indicato la diversa decorrenza alla data della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 49/1992) e ritenuto pertanto prescritti tutti i crediti maturati fino al 25/8/1998, compresi, dunque, quelli oggetto di giudizio;

ripropone la questione della sospensione della prescrizione anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro e lamenta il fatto che i giudici di appello non avrebbero dato risposta alle eccezioni poste in sede di gravame;

si duole poi della mancata o erronea valutazione degli delle attestazioni degli istituti penitenziari e degli estratti contributivi dell’INPS;

4. il motivo, quanto alla sospensione della prescrizione anche oltre la cessazione del rapporto, è infondato per le stesse ragioni evidenziate al punto sub 2. che precede (p. da 2.1. a 2.3.);

4.1. è, poi, invero incomprensibile (e non supportato da una corrispondente adeguata denuncia di violazione di legge) il richiamo, ai fini della decorrenza della prescrizione, alla pronuncia della Corte costituzionale n. 49/1992 nè il rilievo scalfisce la scelta della Corte territoriale di fare riferimento ad una rituale messa in mora per calcolare a ritroso il termine prescrizionale, senza che possa ritenersi, perciò solo, violato il principio di cui all’art. 112 c.p.c.;

4.2. per il resto il motivo involge l’apprezzamento degli atti di causa e richiede, in modo inammissibile, una rivalutazione dei fatti e delle prove;

4.3. va, infine, ricordato che la dedotta violazione dell’art. 115 c.p.c. non è ravvisabile nella mera circostanza che il giudice di merito abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, ma soltanto nel caso in cui il giudice abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (v. ex aliis Cass., Sez. Un., 5 agosto 2016, n. 16598; Cass. 10 giugno 2016, n. 11892);

5. il ricorso deve essere, pertanto, rigettato;

6. al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

7. ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dal ricorrente.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del Ministero controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 1.800,00 per compensi professionali oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il nella camera di consiglio, il 9 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2019

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