Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27329 del 29/12/2016


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Cassazione civile, sez. trib., 29/12/2016, (ud. 06/12/2016, dep.29/12/2016),  n. 27329

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. PEZZULLO Rosa – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Luigi – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17092-2010 proposto da:

IMPRESA EREDI D.T. SRL in persona del Presidente del C.d.A.,

elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA D’ARACOELI 1, presso lo

studio dell’avvocato GUGLIELMO MAISTO, che lo rappresenta e difende

giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– resistente con atto di costituzione –

avverso la sentenza n. 107/2009 della COMM.TRIB.REG. di MILANO,

depositata il 20/07/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/12/2016 dal Consigliere Dott. LUCIO LUCIOTTI;

udito per il ricorrente l’Avvocato LOVOTTI per delega dell’Avvocato

MAISTO che ha chiesto l’accoglimento; udito per il resistente

l’Avvocato TIDORE che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per l’accoglimento dei motivi 6 e 7

e rigetto del resto.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza n. 107 del 20 luglio 2009 la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia respingeva l’appello proposto dalla società contribuente avverso la sentenza di primo grado che aveva a sua volta rigettato il ricorso proposto avverso l’avviso di accertamento emesso sulla scorta delle risultanze di una verifica fiscale generale condotta nei confronti della Impresa Eredi D.T. s.r.l. e compendiata in un processo verbale di constatazione redatto in data 3 maggio 2006, da cui emergevano maggiori ricavi conseguiti dalla vendita di immobili di proprietà (e precisamente quattro box ed un’area scoperta di 250 mq. da adibire a posti auto) nonchè dall’esecuzione di un contratto di appalto avente ad oggetto la realizzazione di un complesso immobiliare, non dichiarati ai fini IVA, IRPEG ed IRAP relativamente all’anno di imposta 2003.

1.1. Sostenevano i giudici di appello che il prezzo di vendita dei box, risultante dalle relative fatture in Euro 600,00 al metro quadrato, era inferiore al valore nomale dei predetti beni e che il prezzo applicato dall’Ufficio finanziario era di molto inferiore anche ai valori del mercato immobiliare indicati dall’Osservatorio provinciale dell’Agenzia del territorio di Varese; che il margine di utile, pari all’8,12%, dichiarato con riferimento all’appalto commissionato alla società contribuente dalla Parini s.r.l. per la realizzazione di un complesso immobiliare di ben 76 appartamenti, box ed unità commerciali, era assolutamente insufficiente a coprire i costi di esercizio e a remunerare i rischi di impresa e che la percentuale applicata dall’Ufficio finanziario (pari al 12%) si avvicinava alla media del settore, mentre la circostanza che la società contribuente fosse anche socia di quella appaltante non giustificava alcun abbattimento della predetta percentuale.

2. Avverso tale statuizione ricorre per cassazione la società contribuente sulla base di sette motivi.

3. Non replica l’intimata che ha però depositato istanza per la partecipazione all’udienza di discussione.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso, dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la ricorrente lamenta l’omessa motivazione dell’impugnata sentenza sull’eccezione sollevata con riferimento all’errore materiale commesso dall’Ufficio finanziario per avere rideterminato il corrispettivo di cessione degli immobili (box ed area scoperta) prendendo a parametro il prezzo a metro quadrato calcolato dividendo quello (di Euro 11.250,00) fatturato per la cessione del box di maggiori dimensioni (pari a 18 mq) con i metri quadrati dei box di minori dimensioni (pari a 13 mq, che invece erano stati venduti a prezzo di poco superiore ad Euro 8.000,00).

1.1. Il motivo è inammissibile perchè privo di decisività in quanto la CTR ha espressamente dato atto nella sentenza impugnata dell’eccezione sollevata sul punto dalla società contribuente e nella parte motiva ha sostenuto, in linea con l’assunto della ricorrente, che le fatture restituivano un prezzo di vendita dei box di Euro 600,00 al metro quadrato, “sicuramente più basso rispetto al valore di mercato degli stessi”, ma ha ritenuto comunque corretto il prezzo di Euro 865,38 al metro quadrato applicato dall’Amministrazione finanziaria in quanto addirittura inferiore (di circa la metà) al valore di mercato.

2. Con il secondo motivo di ricorso, dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente lamenta che la Commissione di appello, applicando le disposizioni di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), ultima parte, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 3, ultima parte, introdotte dal D.L. n. 223 del 2006, art. 35, commi 2, 3 e 23 bis, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 248 del 2006, ha rideterminato il prezzo di cessione degli immobili sulla base del c.d. “valore normale- dei beni ceduti nonostante la L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 265, (c.d. Finanziaria 2008) avesse relegato detto valore a presunzione semplice, per gli atti formati anteriormente al 4 luglio 2006 e, quindi, fosse stato definitivamente eliminato dal corpus della legislazione tributaria ad opera della L. n. 88 del 2009, art. 24, comma 5.

3. Con il terzo mezzo di impugnazione la ricorrente deduce, in relazione alla medesima questione posta al secondo motivo, la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 223 del 2006, art. 35, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 248 del 2006.

4. I motivi, tra loro strettamente connessi e, quindi, da esaminare congiuntamente, sono fondati e vanno accolti.

4.1. L’eliminazione del riferimento al c.d. valore normale del bene ad opera della L. 7 luglio 2009, n. 88, art. 24, comma 5, (Legge Comunitaria 2008), è avvenuta “a seguito di un parere motivato del 19 marzo 2009 della Commissione Europea, la quale, nell’ambito del procedimento di infrazione n. 2007/4575, aveva rilevato l’incompatibilità – in relazione, specificamente, all’IVA, ma ritenuta estensibile dal legislatore nazionale anche alle imposte dirette – di tali disposizioni con il diritto comunitario. E’ stato così ripristinato il quadro normativo anteriore al luglio 2006, sopprimendo la presunzione legale (ovviamente relativa) di corrispondenza del corrispettivo effettivo al valore normale del bene, con la conseguenza che tutto è tornato ad essere rimesso alla valutazione del giudice, il quale può, in generale, desumere l’esistenza di attività non dichiarate “anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti”: e ciò – deve intendersi – con effetto retroattivo, stante la ragione di adeguamento al diritto comunitario che ha spinto il legislatore nazionale del 2009 ad intervenire (cfr., anche, circolare dell’Agenzia delle entrate n. 18 del 14 aprile 2010)> (in termini, cfr. Cass. 20419 del 2014).

4.2. La CTR lombarda non si è attenuta al predetto principio giurisprudenziale avendo desunto la prova dell’esistenza di ricavi non dichiarati sulla base del solo valore normale dei beni oggetto di cessione (testualmente a pag. 2 della sentenza: “il reddito di impresa può essere rettificato tenendo presente il valore normale dei beni immobili ceduti quando questi risulti superiore al corrispettivo dichiarato”) e, pertanto, in accoglimento del motivo in esame, la sentenza va cassata e rinviata al giudice di merito che, adeguandosi al predetto principio, accerterà la sussistenza sub specie di elementi presuntivi qualificati che attestino un valore di cessione dei beni maggiore di quello fatturato.

5. Con il quarto motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa motivazione sull’eccezione di illegittimità dell’avviso di accertamento in quanto privo di motivazione in ordine alle modalità ed ai criteri utilizzati dall’Ufficio finanziario per la determinazione della percentuale di ricarico applicata ai ricavi conseguiti in relazione al contratto di appalto per la realizzazione di un complesso immobiliare.

5.1. Il motivo è palesemente inammissibile per difetto di autosufficienza, avendo la ricorrente del tutto trascurato, in violazione delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, di riprodurre il contenuto dell’avviso di accertamento che lamenta essere privo di motivazione sul punto, nonchè il tenore dell’eccezione sollevata in primo grado e di indicare le modalità, il tempo ed il luogo di riproposizione di tale eccezione nel giudizio di appello, anche in considerazione del fatto che della stessa nella sentenza impugnata non si fa alcuna menzione.

6. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 39, comma 1, laddove la sentenza d’appello riconosce significato indiziante di maggiori ricavi conseguiti in esecuzione di un contratto di appalto per la realizzazione di un complesso immobiliare ad un elemento, costituito dallo scostamento del margine di utile dichiarato rispetto alla percentuale media di ricarico del settore di appartenenza, non qualificato sul piano presuntivo.

7. In relazione a tale motivo, che deve ritenersi assorbito dall’accoglimento del secondo e terzo mezzo di impugnazione, pare opportuno rilevare che è orientamento consolidato di questa Corte (tra le ultime, Cass. n. 23831 e 23832 del 2016) quello secondo cui, in presenza di scritture contabili formalmente non contestale(come nella specie), l’Amministrazione finanziaria può comunque procedere, ai sensi del citato art. 39, comma 1, alla determinazione induttiva dei ricavi sulla scorta delle percentuali di ricarico, ma poichè queste costituiscono presunzioni semplici, che debbono essere assistite dai requisiti di cui all’art. 2729 c.c. e desunte da dati di comune esperienza, oltrechè da concreti e significativi elementi desunti dalla singola fattispecie, non è sufficiente, ai fini dell’accertamento di maggiori ricavi, il solo rilievo dell’applicazione da parte del contribuente di una percentuale di ricarico aritmeticamente diversa da quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza, in quanto le medie matematiche, ponderate o no, non costituiscono un “fatto noto”, cioè storicamente provato, dal quale argomentare, con giudizio critico, il fatto ignoto da provare, ma soltanto il risultato di un’estrapolazione ragionata di dati. Ne consegue che tali percentuali non sono di per sè sole inidonee a integrare gli estremi di una prova per presunzioni, occorrendo quantomeno che emerga l’abnormità o l’irragionevolezza della percentuale quale elemento ulteriore (cfr. Cass. n. 19498 e n. 19839 del 2016, n. 27488 del 2013, n. 20201 del 2010, n. 12032 del 2009, n. 26388 del 2005). In particolare l’abnormità e l’irragionevolezza della difformità è stata esclusa nel caso di scostamenti di pochi punti percentuali (es. sulla irrilevanza di uno scostamento di quattro e sette punti v. Cass. n. 26007 del 2014 e n. 12032 del 2009).

7.2. Ciò posto, osserva la Corte che nel caso di specie le risultanze dell’accertamento impugnato riferiscono di un ricarico operato dalla parte nella misura dell’8,12% a fronte di un ricarico medio di settore del 12%. Dunque, seppure i giudici di appello abbiano dato atto che quella applicata in concreto dalla società è “una percentuale di redditività per un cantiere di rilevanti dimensioni… molto bassa”, la differenza del 3,88% non può ritenersi nè abnorme nè fuori dalle dinamiche economiche (in termini, sempre Cass. n. 23831 e 23832 del 2016).

8. Con il sesto motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il vizio di omessa motivazione sulla domanda proposta in primo grado e ribadita in grado di appello, con riferimento all’errata applicazione delle norme tributarie che presiedono all’imputazione temporale dei componenti di reddito e, segnatamente, dell’art. 60 (attualmente, a seguito della riforma del 2004, art. 93) TUIR (D.P.R. n. 917 del 1986).

8.1. Il motivo è inammissibile per erronea sussunzione del vizio denunciato nell’una o nell’altra fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c. (Cass. 17.9.2013, n. 21165).

8.2. Costituisce ius receptum il principio secondo cui il vizio di motivazione denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, presuppone che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente scorretto ovvero senza giustificare o non giustificando adeguatamente la decisione resa, mentre l’omessa pronunzia da parte del giudice di merito integra un difetto di attività che deve essere fatto valere dinanzi alla Corte di cassazione attraverso la deduzione del relativo “error in procedendo” e della violazione dell’art. 112 c.p.c., non già con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale o del suddetto vizio motivazionale (in termini, Cass. n. 329 del 2016; id. n. 7871 del 2012).

8.3. Nella specie il giudice di appello, pur avendo dato atto, nella parte espositiva dello svolgimento del processo, della questione posta dalla società contribuente in ordine all’imputazione temporale dei maggiori ricavi accertati, ha del tutto omesso di pronunciare sulla questione, di cui non è rinvenibile traccia alcuna di considerazione nella motivazione della sentenza impugnata, e ciò configura un vizio di attività che la ricorrente avrebbe dovuto censurare ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e non deducendo, come invece ha fatto, un vizio motivazionale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

9. Con il settimo motivo la società ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa motivazione sulla domanda, proposta in primo grado e ribadita in grado di appello, di illegittimità dell’atto impositivo per errata applicazione delle aliquote IVA ai maggiori imponibili accertati. Sostiene di aver dedotto che l’Ufficio finanziario, pur avendo premesso (a pag. 3 dell’avviso di accertamento) che ai maggiori ricavi conseguiti per la realizzazione di un complesso immobiliare andasse applicata l’aliquota del 10% e a quelli derivanti dalla dei beni immobili (box ed area scoperta) andasse invece applicata l’aliquota del 4%, nel prospetto di liquidazione aveva invertito le aliquote, ma che i giudici di appello avevano del tutto omesso di esaminare la censura.

9.1. Il motivo, che si profila inammissibile per difetto di autosufficienza, non essendo stato riprodotto il contenuto dell’avviso di accertamento, è comunque da ritenersi assorbito dalla statuizione di accoglimento del secondo, terzo e quinto motivo.

10. Conclusivamente, quindi, vanno dichiarati inammissibili il primo, il quarto ed il sesto motivo, vanno accolti il secondo ed il terzo, assorbiti il quinto e settimo, la sentenza gravata va cassata in relazione ai motivi accolti e la causa rinviata, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, in diversa composizione.

PQM

La Corte dichiara inammissibili il primo, il quarto ed il sesto motivo, accoglie il secondo ed il terzo, assorbiti il quinto ed il settimo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 5 sezione civile, il 6 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 dicembre 2016

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