Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27321 del 17/11/2017


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 27321 Anno 2017
Presidente: MAZZACANE VINCENZO
Relatore: GIUSTI ALBERTO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MACOFIN s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,
rappresentata e difesa dall’Avvocato Luigi Remus, con domicilio eletto
presso lo studio dell’Avvocato Domenico Concetti in Roma, piazza
Martiri di Belfiore, n. 2;

– ricorrente CO ntro
DE TOGNI RENZO & C. s.a.s.; BOSONI Gilberto, DE TOGNI Renzo e
SIGNORELLI Carla, questi ultimi quali ex soci della De Togni Renzo &
C. s.a.s.;

– intimati e nei confronti
BILLA AKTIENGESELLSHAFT, in persona dei legali rappresentanti pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocato Fernando Pepe, con

Data pubblicazione: 17/11/2017

domicilio eletto nello studio dell’Avvocato Margherita Valentini in Roma, via Quintino Sella, n. 41;
– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia n. 72/13 in data

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 26 settembre 2017 dal Consigliere Alberto Giusti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Sergio Del Core, che ha concluso per il rigetto dei primi quattro
motivi e dei motivi dal sesto all’ottavo, per l’accoglimento del quinto
motivo e per quanto di ragione del nono motivo, assorbiti i restanti
motivi del ricorso; in via subordinata, per l’accoglimento del ricorso
per quanto di ragione;
udito l’Avvocato Michela Concetti, per delega dell’Avvocato Luigi Remus.

FATTI DI CAUSA
1. – Con atto di citazione notificato il 17 novembre 2004 Macofin
s.p.a. conveniva in giudizio De Togni Renzo & C. s.a.s. davanti al Tribunale di Brescia, deducendo: che con contratto preliminare in data
14 gennaio 2003 la convenuta aveva promesso in vendita ad essa attrice un negozio con parti comuni, inserito nel centro commerciale del
Comune di Desenzano del Garda, come pervenuto alla promittente
venditrice con atto notarile del 23 dicembre 1991; che essa aveva
versato, a titolo di caparra confirmatoria, euro 100.000 e aveva accettato quale termine per il trasferimento della proprietà il 30 luglio
2003, poi prorogato al 30 settembre 2003.
Poiché nel periodo anteriore al rogito era emerso che sull’unità
immobiliare oggetto della promessa di vendita gravava il limite di godimento e di utilizzazione previsto a favore di Standa s.p.a. da “patto

– 2 –

16 gennaio 2013.

speciale, particolare, essenziale” contenuto nei titoli di provenienza
(atti notarili del 15 novembre 1990 e del 23 dicembre 1991), e poiché
detto vincolo che non era stato rimosso, nonostante la richiesta avanzata con lettera di 4 febbraio 2004, Macofin chiedeva, in principalità,
di dichiarare la legittimità del proprio recesso ex art. 1385, secondo

doppio della caparra; in subordine, di dichiarare la risoluzione del
contratto per inadempimento della promittente, con condanna della
stessa alla restituzione della somma di euro 100.000, oltre al risarcimento del danno; in ulteriore subordine, di dichiarare l’intervenuta risoluzione consensuale del contratto, con condanna alla restituzione
della caparra oltre interessi legali.
Costituitasi in giudizio, De Togni Renzo & C. s.a.s. chiedeva il rigetto delle domande, rilevando che la promissaria era a conoscenza
dell’esistenza della clausola. Deduceva, inoltre, che la clausola aveva
natura obbligatoria e, in ogni caso, era nulla perché in contrasto con il
principio della libera iniziativa economica e imprenditoriale privata. A
tal fine, ossia per la declaratoria di nullità della clausola, la convenuta
chiedeva e veniva autorizzata a chiamare nel processo Billa AG, avente causa da Standa s.p.a.
Billa AG, nel costituirsi in giudizio, chiedeva di dichiarare il proprio
difetto di legittimazione passiva in relazione alle domande proposte e,
per l’effetto di respingerle, esponendo di essere, quale cessionaria di
rami di azienda di Standa Commerciale s.p.a. (soggetto diverso da
Standa s.p.a.), subentrata nei rapporti di locazione degli spazi presenti nel centro commerciale, in qualità di conduttrice. Standa s.p.a.,
invece, si era resa acquirente, dal costruttore Garfin s.p.a., di altri locali del centro commerciale, e nei suoi confronti o degli eventuali suoi
aventi causa andavano proposte le domande di nullità, dal momento
che il patto speciale, particolare ed essenziale era contenuto e ri-

comma, cod. civ. e di condannare parte convenuta a corrisponderle il

chiamato negli atti di acquisto delle unità immobiliari, debitamente
trascritti, succedutisi nel tempo.
2. – Il Tribunale di Brescia, con sentenza in data 27 settembre
2007, rigettava le domande proposte da Macofin e dichiarava cessata
la materia del contendere nel rapporto processuale tra De Togni Ren-

le spese di lite.
2.1. – Il Tribunale così argomentava. La clausola ha natura obbligatoria, in quanto con la stessa non si è voluto imporre una servitù di
non facere a favore di determinati fondi e a carico di un altrettanto
determinato fondo, ma un obbligo di non fare da parte di alcuni proprietari di fondi a favore del conduttore di un fondo, Standa s.p.a., e
gli aventi causa dalla medesima. Poiché l’obbligazione in questione non illegittima né illecita – non ha natura reale, la stessa non può ritenersi opponibile di per sé a Macofin quale avente causa di De Togni
Renzo & C., non avendo a sua volta Macofin assunto tale obbligazione
nei confronti di Standa o degli aventi causa dalla medesima. Manca
inoltre la prova della volontà delle parti di scioglimento consensuale
del contratto preliminare.
3. – Pronunciando sull’appello principale proposto da Macofin e
sull’appello incidentale proposto da Billa, e nel contraddittorio anche
con tutti i soci della disciolta società De Togni, la Corte d’appello di
Brescia, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria
il 16 gennaio 2013, in parziale accoglimento dell’appello incidentale,
ha condannato De Togni Renzo & C. s.a.s. a rifondere a Billa le spese
processuali del primo grado, mentre ha rigettato l’appello principale e
per l’effetto ha confermato la sentenza impugnata.
3.1. – Per quanto ancora rileva in questa sede, la Corte territoriale ha affermato che la clausola oggetto del contendere è di natura
obbligatoria e non reale: impegnarsi ad adottare un preventivo accordo con Standa e garantire che le attività dei futuri acquirenti non en-

zo & C. s.a.s. e Billa AG; disponeva la compensazione tra le parti del-

trino in concorrenza con le attività commerciali di Standa sono sinonimo di obbligazioni personali che nulla hanno a che vedere con le limitazioni a carattere reale, non essendo la volontà dei contraenti
Garfin e Standa finalizzata al miglior godimento del bene immobile
compravenduto.

renti futuri, poiché nulla si dice circa il suo limite temporale, e Macofin
avrebbe potuto opporsi alla introduzione nell’atto definitivo di una
clausola simile, essendo nulla.
Essendo receduta prima di tale momento – ha rilevato la Corte di
Brescia – Macofin si è resa inadempiente agli obblighi assunti.
Infine, la Corte distrettuale non ha ravvisato “una volontà concorde di addivenire ad una risoluzione consensuale salvo successivo ravvedimento, poiché non può assumere alcun significato un comportamento omissivo”.
4. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello Maconfin ha proposto ricorso, sulla base di dodici motivi.
De Togni Renzo & C. s.a.s. e i soci della disciolta società sono rimasti intimati.
La società Billa, anch’essa destinataria della notifica del ricorso,
ha resistito con controricorso.
In prossimità dell’udienza la ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo (violazione dell’art. 2909 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) la ricorrente
deduce che il Tribunale aveva escluso l’illegittimità e l’illiceità del vincolo imposto dalla clausola: e poiché tale capo autonomo della sentenza non è stato impugnato da alcuno, sul medesimo si è formato il
giudicato interno. Ad avviso della ricorrente, la Corte d’appello non
poteva riprendere un tema già coperto da giudicato, sancendo la nul-

Secondo la Corte d’appello, tale clausola è inopponibile agli acqui-

lità della clausola denominata “patto speciale particolare ed essenziale”.
Il secondo mezzo denuncia violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.
Era stata la società De Togni a richiedere la declaratoria di nullità della clausola de qua: ma poiché la stessa aveva abbandonato tale do-

proposta in secondo grado, la Corte d’appello non poteva, se non violando il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, dichiarare la nullità della clausola in questione.
Con il terzo motivo (violazione dell’art. 102 cod. proc. civ.) la ricorrente lamenta che la nullità della clausola non poteva essere dichiarata dal giudice senza la previa instaurazione del contraddittorio
nei confronti di Standa, titolare del diritto introdotto dalla clausola. Il
contraddittorio avrebbe dovuto essere esteso anche nei confronti di
Garfin, dante causa di De Togni, che aveva stipulato la clausola nel
contratto a monte.
Un altro error in procedendo è prospettato con il quarto motivo
(violazione dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ.), con cui si
deduce che il giudice di secondo grado avrebbe dovuto chiamare le
parti, prima di dichiarare la nullità della clausola, a esporre sul punto
le proprie argomentazioni.
Con il quinto mezzo (violazione degli artt. 41 Cost. e 1418 cod.
civ.) la ricorrente sostiene che la pattuita limitazione dell’esercizio ad
libitum di attività mercantili nel centro commerciale di Desenzano del
Garda non potrebbe qualificarsi come indebita restrizione dell’attività
economica privata.
Il sesto motivo (violazione dell’art. 1322 cod. civ.) prospetta che
non vi sarebbe alcuna violazione di legge nell’omettere un limite temporale alla durata del patto in questione.
Con il settimo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art.
1362 cod. civ., sostenendo che il vincolo discendente dalla clausola

manda in sede di precisazione delle conclusioni e non l’aveva più ri-

avrebbe natura reale, sul rilievo che se il vincolo cadesse al primo e
successivo atto di vendita, l’equilibrio economico complessivo del centro commerciale rischierebbe di venir meno. Ciò sarebbe altresì confermato: dalla “volontà di profondità temporale” e dalla “prospettiva
futura”; dal “preciso obbligo, assunto dai paciscenti, di ricondurre ai

vendita la clausola de qua e, quindi, a maggior ragione, di ottemperarle”; dalla “mancanza di limite temporale all’efficacia della clausola
de qua” e dalla “sua trascrizione”; dall’importanza che le parti originarie hanno assegnato alla clausola, dichiarandola “patto speciale,
particolare ed essenziale” in rapporto al sinallagma; dal fatto che la
clausola venne stipulata nell’interesse di Standa, che non era la conduttrice (come ritenuto dal giudice di primo grado, seguito pedissequamente dalla Corte d’appello), ma la proprietaria.
Con l’ottavo mezzo (violazione dell’art. 1372 cod. civ.) la ricorrente sostiene che “la volontà comune scambiata tra le parti era quella di
compravendere un bene libero da ogni vincolo” e che questo giustificava il comportamento oppositivo da parte di Macofin rispetto
all’introduzione della clausola de qua nell’atto definitivo.
Il nono motivo (violazione degli artt. 1362, secondo comma, cod.
civ. e 115 cod. proc. civ.) lamenta che la Corte d’appello non abbia
tenuto conto del comportamento tenuto dalle parti, deponente nel
senso della sussistenza di un vincolo di natura reale. Tali circostanze
sarebbero rappresentate dal fatto che in data 7 agosto 2003 le parti
decidevano di posporre il termine per la stipula del contratto di compravendita al 30 settembre 2003 proprio al fine di verificare il significato di clausole limitative dell’utilizzazione del bene in questione, contenute nell’atto di compravendita attraverso il quale la società De Togni si era resa acquirente del fondo ad uso commerciale, e non riportate nel preliminare intervenuto con Macofin. Sarebbe significativa
nella medesima direzione anche la comparsa di risposta di De Togni,

loro aventi causa l’obbligo di ricomprendere nei futuri atti di compra-

in cui si riportava che la stessa aveva chiesto e ottenuto da Billa, acquirente a titolo derivato da Standa, l’assenso alla vendita di articoli
di maglieria all’interno del negozio posto nel centro commerciale, oggetto della promessa di vendita.
Con il decimo motivo (violazione dell’art. 1362, secondo comma,

dell’ordinamento è quello della libertà delle forme e che è pacifico
che “nel caso (v. atto introduttivo di primo grado, sottoscritto dalle
parti) le parti abbiano entrambe, e reciprocamente, espresso la volontà per iscritto di non offrire più oltre esecuzione al negozio, che il
recesso di tanto è espressione così come la diffida ex art. 1454 cod.
civ.”. Perciò – prosegue la ricorrente – “c’è volontà e forma, dovendo,
al netto dell’inadempimento, tali aspetti rimanere fermi, conducendo
alla nichilizzazione delle precedenti esternazioni di volontà in forza del
principio di conservazione del negozio di risoluzione”.
L’undicesimo motivo è rubricato “violazione dell’art. 2033 cod. civ.
e dell’art. 99 cod. proc. civ.”. Riferisce la ricorrente che la sentenza di
primo grado dichiara che il contratto preliminare si è risolto per
l’intervenuto inutile decorso del termine assegnato da De Togni con la
diffida ex art. 1454 cod. civ. partecipata alla Macofin in data 3 maggio
2004. Poiché la sentenza di secondo grado ha confermato la sentenza
di primo grado e la risoluzione ai sensi dell’art. 1454 cod. civ., così
come accolta dalla Corte di merito, “comporta la nichilizzazione del
negozio e, perciò, l’insussistenza del titolo nel mantenere a proprie
mani le reciproche attribuzioni”, avrebbe errato la sentenza impugnata a non disporre, a fronte della ripetute domande avanzate da Macofin, la restituzione della caparra.
Il dodicesimo motivo prospetta violazione degli artt. 1175, 1375 e
1453 cod. civ. La ricorrente sostiene che sia “difficile pensare che
possa giocare in danno alla deducente un vincolo, che si era, in sede
di acquisto del bene, liberamente assunta, dapprima, De Togni s.a.s.

– 8 –

cod. civ.) la ricorrente deduce che uno dei principi cardine

e che, di poi, s’era obbligata … a vendere senza vincoli …”. La difesa
di Macofin ricorda che nel nostro ordinamento vige il principio per cui
nemo contra factum proprium venire potest e ritiene che “appioppare

… un inadempimento fondato sul presupposto della partecipata diffida
ad adempiere, inosservata dalla promissaria l’acquisto, nella comunque, perdurante presenza della trascrizione di quel vincolo, non ha

senso alcuno, neanche giudiziario”.
2. – E’ preliminare in ordine logico l’esame del settimo e del nono
motivo di ricorso, i quali, stante la stretta connessione, possono essere scrutinati congiuntamente, censurando, entrambi, la statuizione
della Corte d’appello nel senso della natura obbligatoria, e non reale,
dell’impegno riveniente dal “patto speciale, particolare, essenziale”
contenuto nei titoli di provenienza della promittente venditrice (atti
notarili del 15 novembre 1990 e del 23 dicembre 1991).
La complessiva doglianza è infondata.
Occorre premettere che la clausola oggetto del contendere è del
seguente tenore: “resta quindi stabilito che gli acquirenti di porzioni
immobiliari del Centro Commerciale ai fini di poter esercitare attività
commerciali nei locali che acquistano dovranno preventivamente
prendere accordi: a) con la Standa s.p.a. e/o suoi aventi causa senza
limiti di tempo …” in relazione ai punti A) e B). Il punto A) prevede
l’impegno da parte di Garfin s.p.a. (venditrice) nei confronti di Standa
(acquirente), “in considerazione che l’immobile del presente atto è inserito in un più ampio complesso destinato a Centro Commerciale”, a
concordare preventivamente con l’acquirente stessa le attività di vendita complementari che potranno essere attivate negli spazi che saranno direttamente gestiti dalla venditrice o ceduti a terzi in proprietà, locazione o leasing, in modo da offrire la migliore e più diversificata offerta di prodotti e servizi complementari e non concorrenziali
all’attività svolta dalla parte acquirente. Con il punto B) Garfin s.p.a.
garantisce che, nei locali (diversi da quelli ceduti a Standa s.p.a.) che
v\
– 9 –

saranno posti in vendita, non si svolgeranno, da parte dei futuri acquirenti, attività di vendita al dettaglio di orologeria, gioielleria, oreficeria e cine-foto-ottica.
La Corte di Brescia ha giudicato la clausola in questione di natura
obbligatoria e non reale per le espressioni usate.

e garantire che le attività dei futuri acquirenti non entrino in concorrenza con le attività commerciali di Standa s.p.a. – ha affermato la
Corte territoriale – sono sinonimo di obbligazioni personali che nulla
hanno a che vedere con le limitazioni di carattere reale, non essendo
la volontà dei contraenti Garfin e Standa finalizzata al miglior godimento del bene immobile compravenduto, ma semplicemente a porre
un divieto di carattere obbligatorio che non interferisca con gli interessi commerciali squisitamente e prettamente di Standa che per
prima aveva acquistato.
La Corte d’appello ha quindi condiviso la conclusione cui era già
pervenuto il Tribunale, il quale aveva osservato come con la clausola
in questione non si è voluto imporre una servitù di non facere a favore di determinati fondi e a carico di un altro determinato fondo, ma
un obbligo di non facere a favore della Standa e dei suoi aventi causa.
Tanto premesso, occorre rilevare che la realità del vincolo può
configurarsi solo ove sia ipotizzabile un rapporto tra fondi, così da riprodurre gli estremi della predialità in cui si compendia l’essenza della
servitù: se il vantaggio della non concorrenza è utile non già al fondo
ma alla azienda commerciale che in esso sia stata installata, non si
può parlare di servitù giacché l’azienda commerciale non si può identificare con il fondo nel quale essa opera (Cass., Sez. II, 7 dicembre
1962, n. 3298; Cass., Sez. II, 24 agosto 1977, n. 3852).
Nella specie i giudici del merito, interpretando il contenuto del
“patto speciale, particolare ed essenziale” nel rispetto dei canoni er-

Impegnarsi ad adottare un preventivo accordo con Standa s.p.a.

meneutici di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ., hanno evidenziato che
il vantaggio della non concorrenza (espresso attraverso l’impegno del
costruttore-venditore Garfin, proprietario di altre porzioni immobiliari
nel centro commerciale, di concordare preventivamente con la stessa
acquirente Standa le attività di vendita complementari che potranno

direttamente gestiti dalla venditrice o ceduti a terzi, e di non esercitare, in detti locali, attività commerciali al dettaglio di gioielleria, oreficeria, orologeria e cine-foto-ottica) è utile, non al fondo acquistato da
Standa, ma all’azienda che l’acquirente esercita su di esso, sicché non
si può parlare di servitù perché l’azienda come tale non costituisce
fondo.
Avendo riconosciuto, in aderenza ai principi enunciati da questa
Corte di legittimità, la natura personale dei diritti nascenti dal patto
inter alios, rettamente la Corte territoriale ha ritenuto il vincolo in
questione, in quanto esorbitante dalle coordinate della realità, non
opponibile “agli acquirenti futuri”, tra cui Macofin, che non ha assunto
direttamente tale obbligazione.
Il patto obbligatorio di non concorrenza prevedente un vincolo di
modo nell’utilizzo di un cespite immobiliare, infatti, astringe il soggetto che l’ha stipulato, ma non il suo avente causa; esso, per vincolare
il nuovo acquirente, deve essere specificamente richiamato nell’atto
di acquisto del terzo.
Nella specie — hanno accertato incensurabilmente i giudici del merito — il contratto preliminare stipulato da Macofin non faceva alcuna
menzione di tale vincolo, il precedente rogito di acquisto essendo richiamato solo quale atto di provenienza del bene, e non quale negozio costitutivo di obblighi nei confronti della promissaria Macofin.
E poiché Macofin non si è assunta alcun vincolo nei confronti di
Standa o dei suoi aventi causa (non essendo ad essa opponibile
l’obbligo sussistente in capo ai danti causa Garfin o De Togni), non

essere attivate nei restanti spazi del centro commerciale che saranno

hanno neppure rilievo decisivo le circostanze di cui la ricorrente lamenta l’omesso esame: lo slittamento della data di stipulazione del
contratto definitivo al fine di verificare il significato di clausole limitative dell’utilizzazione del bene contenuto nel precedente atto di compravendita; l’assenso all’ampliamento della gamma degli articoli ven-

aveva ottenuto (da Standa o) da Billa AG.
3. – I primi sei motivi sono, a questo punto, inammissibili.
Invero, essi investono una ulteriore ratio decidendi, riguardante la
nullità del “patto speciale, particolare ed essenziale” perché frapponente “ostacoli alla libera iniziativa economica, diritto costituzionalmente garantito”, senza alcun “limite temporale”.
Ma poiché la prima ratio decidendi – efficacia soltanto obbligatoria
del vincolo esorbitante dalle coordinate della predialità, come tale non
vincolante l’avente causa Macofin, soggetto terzo rispetto alla stipulazione del patto e non assuntore in proprio dell’obbligo – è da sola sufficiente a sostenere la decisione impugnata, trova applicazione il principio secondo cui quando una decisione di merito, impugnata in sede
di legittimità, si fonda su distinte ed autonome rationes decidendi
ognuna delle quali idonea, da sola, a sorreggerla, perché possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile, da un lato, che il
soccombente censuri tutte le riferite rationes, dall’altro che tali censure risultino tutte fondate; ne consegue che, rigettato il motivo che investe una delle riferite argomentazioni, a sostegno della sentenza impugnata, sono inammissibili, per difetto di interesse, i restanti motivi,
atteso che anche se questi ultimi dovessero risultare fondati, non per
questo potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata, che rimarrebbe pur sempre ferma sulla base della ratio ritenuta corretta (Cass., Sez. III, 24 maggio 2006, n. 12372).
4. – L’ottavo motivo è inammissibile perché non coglie la ragione
che sostiene la pronuncia impugnata. La Corte d’appello, infatti, ha

dibili all’interno del negozio oggetto del preliminare che De Togni

dichiarato l’inadempienza di Macofin per il fatto di essere illegittimamente receduta dal contratto pur non essendo ad essa opponibile il
“patto speciale, particolare ed essenziale”, non specificamente richiamato nel preliminare con cui si era impegnata ad acquistare il bene dalla De Togni. Perciò, ha ritenuto, confermando la sentenza di

seguito dell’invio della diffida ad adempiere del 3 maggio 2004, rimasta inevasa.
5. – Il decimo mezzo è infondato.
In tema di risoluzione consensuale del contratto, il mutuo dissenso, realizzando per concorde volontà delle parti la ritrattazione bilaterale del negozio, dà vita a un nuovo contratto, di natura solutoria e
liberatoria, con contenuto eguale e contrario a quello del contratto
originario (Cass., Sez. II, 30 agosto 2005, n. 17503; Cass., Sez. III,
10 luglio 2008, n. 18859).
La Corte d’appello ha escluso che nella specie sia stata raggiunta
la prova della volontà delle parti di sciogliere consensualmente il contratto.
La statuizione della Corte di Brescia si sottrae alla censura articolata con il motivo, giacché la risoluzione consensuale postula
l’esigenza di un idem placitum, non rinvenibile nel recesso di un contraente e nella diffida da parte dell’altro contraente, l’uno e l’altra
fondati sui contrapposti inadempimenti e sull’addebito delle rispettive

primo grado, che il contratto si è risolto per fatto e colpa di Macofin, a

colpe (cfr. Cass., Sez. III, 6 novembre 1981, n. 5865).
E nella specie – ripetesi – è stata Macofin, destinataria di diffida
ad adempiere, a rendersi inadempiente all’obbligazione assunta di
prestare il consenso alla stipulazione del contratto definitivo di compravendita.
6. – L’undicesimo motivo è infondato, perché i diritti che la caparra confirmatoria attribuisce alla parte fedele sopravvivono alla risoluzione di diritto per diffida ad adempiere ex art. 1454 cod. civ. Infatti,

(PA
– 13 –

la risoluzione di diritto del contratto per diffida ad adempiere, ai sensi
del citato art. 1454, non preclude alla parte adempiente, nel caso in
cui sia stata contrattualmente prevista una caparra confirmatoria,
l’esercizio della facoltà di ottenere, secondo il disposto dell’art. 1385
cod. civ., invece del risarcimento del danno, la ritenzione della capar-

ne spetti al giudice di accertare che l’inadempimento dell’altra parte
non sia di scarsa importanza, non è poi onere della parte adempiente
provare anche il danno nell’an e nel quantum debeatur (Cass., Sez.
III, 28 febbraio 2012, n. 2999). In altri termini, la parte non inadempiente, provocata la risoluzione mediante diffida ad adempiere, ha diritto di ritenere quanto ricevuto a titolo di caparra confirmatoria come
liquidazione convenzionale del danno da inadempimento (Cass., Sez.
I, 13 marzo 2015, n. 5095).
7. – Anche il dodicesimo motivo è infondato.
E’ inconferente il richiamo al divieto di venire contro il fatto proprio, non essendovi alcuna contraddizione nell’essersi De Togni impegnata, con il preliminare, ad alienare un immobile privo di vincoli, attesa la natura personale dell’obbligo nascente dal “patto speciale,
particolare ed essenziale” di non concorrenza” che essa aveva assunto nel proprio titolo di acquisto.
8. – Il ricorso è rigettato.
La complessità delle questioni trattate giustifica la compensazione
tra le parti delle spese del giudizio di cassazione, tanto più che a Billa
– l’unica ad avere svolto attività difensiva in questa sede – il ricorso
per cassazione è stato notificato solo a titolo di litis denuntatio.
9. – Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai
sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. n.
115 del 2002 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte

ra (o la restituzione del suo doppio), con la conseguenza che, sebbe-

della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; dichiara compensate le spese del giudizio di cassazione; dichiara – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del

228 del 2012 – la sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis
dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, il 26 settembre 2017.
Il Presidente

Il Consigliere estensore
‘,;(k)

li Punziortnno Giudiziario
cric NERI

DEPOSITATO IN CANCELLERIA

d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n.

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