Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2732 del 08/02/2010

Cassazione civile sez. lav., 08/02/2010, (ud. 10/12/2009, dep. 08/02/2010), n.2732

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9282-2006 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato TRIFIROD SALVATORE, giusta mandato a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.K., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ALBERICO II

N. 33, presso lo studio dell’avvocato GALLEANO SERGIO, che la

rappresenta e difende, giusta mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 206/2005 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 19/03/2005 r.g.n. 474/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/12/2009 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato MARIO MICELI per delega ROBERTO PESSI;

udito l’Avvocato GALLEANO SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

La Corte:

premesso che con ricorso notificato il 17 marzo 2006 la s.p.a. Poste Italiane ha chiesto a questa Corte suprema l’annullamento della sentenza depositata il 19 marzo 2005, con la quale la Corte d’appello di Venezia ha respinto l’appello avverso la sentenza del Tribunale di Vicenza che aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato tra K.C. e la società per il periodo dal (OMISSIS), in pretesa applicazione dell’art 8, secondo comma del C.C.N.L. 26 novembre 1994 come integrato con l’accordo 25 settembre 1997 (“per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso e in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane “), – cui erano seguiti altri tre contratti – e pertanto la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dall’inizio del primo contratto, con le condanne conseguenti;

che il ricorso è argomentato con quattro motivi, relativi rispettivamente, 1) al vizio di motivazione in ordine alla ritenuta necessità di giustificare la causale collettiva per esigenze di ristrutturazione determinata della L. n. 56 del 1987, ex art. 23 in relazione alla situazione particolare di ogni reparto aziendale; 2) violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 e vizio di motivazione, laddove la corte ha ritenuto che la causale giustificativa utilizzata avesse perso efficacia successivamente al 30 aprile 1998; 3) violazione delle norme legali di ermeneutica contrattuale nell’interpretazione degli accordi collettivi citati nel contratto di lavoro e vizio di motivazione al riguardo; 4) violazione di legge (artt 1218, 1219, 1223, 1227 e 2697 c.c. e art. 18 S.L.) e vizio di motivazione laddove la Corte territoriale, pur in assenza di controprestazione e nella evidente inapplicabilità al caso in esame dell’art. 18, S.L. aveva condannato la società a pagare alla controparte la retribuzione contrattuale dal 22 maggio 2002 alla effettiva riammissione in servizio;

che K.C. si è difesa con rituale controricorso;

che la società ha depositato memoria si sensi dell’art. 378 c.p.c.;

tutto ciò premesso, il ricorso è infondato.

La Corte territoriale non ha affermato che l’ipotesi considerata dalla contrattazione collettiva a ciò autorizzata dalla L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 debba essere necessariamente limitata nel tempo, ma solo che, in forza degli accordi attuativi del 1997 e 1998 citati in sentenza, un termine è stato imposto alla causale relativa alle esigenze legate alla ristrutturazione aziendale e che questo termine è scaduto il 30 aprile 1998.

In proposito, va ricordato che, secondo la ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 4588/06 e le successive conformi della sezione lavoro, tra le quali, da ultimo, Cass. n. 6913/09), la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 ha operato una sorta di “delega in bianco” alla contrattazione collettiva ivi considerata, quanto alla individuazione di ipotesi ulteriori di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro, sottratte pertanto a vincoli di conformazione derivanti dalla L. n. 230 del 1962 e soggette unicamente ai limiti e condizionamenti contrattualmente stabiliti.

Siffatta individuazione di ipotesi aggiuntive può essere operata anche direttamente, attraverso l’accertamento da parte dei contraenti collettivi di determinate situazioni di fatto e la valutazione delle stesse come idonea causale del contratto a termine (cfr., ad es., Cass. 20 aprile 2006 n. 9245 e 4 agosto 2008 n. 21063).

Quanto al tipo di contrattazione collettiva autorizzata a tale ampliamento, il L. n. 56, citato art. 23 si esprime in termini di “apposizione di un termine … consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale”.

Nel caso in esame, come ricordato anche dalla ricorrente, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, sottoscritto dai tre maggiori sindacati nazionali, era stata introdotta nel testo dell’art. 8, comma 2 del C.C.N.L. del 1994, quale ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro (oltre quelle originariamente previste ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23) il caso di “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”.

Inoltre, in pari data, le medesime parti collettive avevano stipulato un accordo attuativo, col quale si davano atto che fino al 31 gennaio 1998 l’impresa versava nelle condizioni legittimanti la stipula del contratto a termine per affrontare il processo di ristrutturazione e con successivi accordi attuativi avevano accertato che tali condizioni erano proseguite fino al 30 aprile 1998.

Orbene, con numerose sentenze questa Corte suprema (cfr., per tutte, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866, 28 novembre 2008 n. 28450 e 20 marzo 2009 n. 6913), decidendo in ordine a fattispecie analoghe alla presente, coinvolgenti l’interpretazione delle norme contrattuali collettive indicate, ha ripetutamente confermato, con orientamento ormai consolidato, le decisioni dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto dopo il 30 aprile 1998 a contratti di lavoro stipulati in base alla previsione di cui all’accordo integrativo del 25 settembre 1997 e cassato le poche decisioni di segno opposto.

Pur negando, sulla base della considerazione dell’autonomia delle ipotesi aggiuntive la cui previsione è affidata ai contraenti collettivi indicati, la necessità che quella di cui all’accordo in questione debba essere istituzionalmente contenuta in limiti temporali predeterminati, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito secondo cui, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data e ai successivi accordi attuativi sottoscritti in data 16 gennaio 1998 e in data 27 aprile 1998, le parti avevano convenuto di limitare il riconoscimento, da esse direttamente operato, della sussistenza della situazione descritta nell’accordo integrativo unicamente fino al 31 gennaio e poi fino al 30 aprile 1998, per cui, per far fronte alle esigenze in tale sede indicate, l’impresa poteva procedere ad assunzioni di personale con contratto a tempo determinato unicamente fino al 30 aprile 1998, con la conseguente illegittimità dei contratti stipulati successivamente a tale data.

Tale uniforme giurisprudenza di questa Corte ha infatti rilevato che siffatta interpretazione:

– non viola il canone ermeneutico che rimanda al significato letterale degli accordi, laddove questo è stato valutato dai giudici di merito come evidente ed univoco e quindi non necessitante di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti;

– è comunque rispettosa del canone di cui all’art. 1367 c.c. a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, in quanto ritenendo che gli accordi attuativi non avrebbero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, essi risulterebbero privi di un qualunque utile effetto;

– appare altresì corretta laddove ha ritenuto irrilevante, nella ricostruzione della volontà delle parti, l’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e quindi quando il diritto del lavoratore alla stabilità del rapporto si era già perfezionato.

Da tali conclusioni della giurisprudenza non vi è ora ragione di discostarsi, in quanto le opposte valutazioni sviluppate nelle difese della ricorrente sono sorrette da argomenti ripetutamente scrutinati nelle molteplici occasioni ricordate e non appaiono comunque talmente evidenti e gravi da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti (ancorchè non intesi nel caso di specie in senso tecnico, trattandosi della interpretazione di contratti collettivi di diritto comune, il cui controllo in sede di legittimità non è diretto, come poi stabilito per le sentenze depositate successivamente al 1 marzo 2006 dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 e art. 27, comma 2), sul quale si fonda per larga parte l’assolvimento della funzione ad essa affidata di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.

La decisione impugnata, relativa all’accertata illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro della C. per la causale indicata, si sottrae pertanto alle censure svolte dalla ricorrente, sopra riassunte, in quanto stipulata successivamente alla data del 30 aprile 1998.

Nè incide su tale valutazione la fondatezza della censura di cui al primo motivo del ricorso, attinente ad un profilo di ritenuta illegittimità ulteriore nel contesto della motivazione della sentenza impugnata.

Infine appare infondato anche l’ultimo motivo di ricorso, sostenuto dall’equivoco di ritenere che la condanna pecuniaria attenga direttamente alle retribuzioni contrattuali e non piuttosto a queste in quanto misura del risarcimento danni conseguenti all’ingiustificato rifiuto della datrice di lavoro di ripristinare la correntezza del rapporto, a seguito della dichiarazione della nullità del termine apposto al relativo contratto e dell’atto di messa in mora da parte della lavoratrice, come implicitamente ritenuto dai giudici, interpretando la domanda, in conformità del resto alla giurisprudenza delle sezioni unite di questa Corte (cfr.

Cass. S.U. 8 ottobre 2002 n. 14381).

Concludendo, sulla base delle considerazioni esposte, il ricorso va respinto e la ricorrente va condannata a rifondere alla resistente le spese di questo giudizio, secondo la liquidazione fattane in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 41,00 per spese ed Euro 3.000,00, oltre accessori, per onorari.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2010

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