Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27306 del 29/12/2016


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Cassazione civile, sez. trib., 29/12/2016, (ud. 14/10/2016, dep.29/12/2016),  n. 27306

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA AURELIO – Presidente –

Dott. LOCATELLI GIUSEPPE – Consigliere –

Dott. ESPOSITO ANTONIO FRANCESCO – Consigliere –

Dott. IANNELLO EMILIO – rel. Consigliere –

Dott. LA TORRE MARIA ENZA – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 25301/2009 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

S.I.T.M.A.R. (Società Incremento Turistico Marittimo) S.P.A., in

persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata e

difesa dall’Avv. Prof. Massimo Basilavecchia del Foro di Pescara ed

elettivamente domiciliata in Roma, Via F. Paulucci dè Calboli, 9,

presso lo studio dell’Avv. Prof. Piero Sandulli, per procura in

calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del

Piemonte n. 85/34/2010, depositata il 17/12/2010.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14

ottobre 2016 dal Relatore Cons. Emilio Iannello;

udito l’Avvocato dello Stato Paolo Gentili per la ricorrente;

udito l’Avv. Massimo Basilavecchia per la controricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.ssa

MASTROBERARDINO Paola, la quale ha concluso per l’accoglimento del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. In data 31/10/2003 la S.I.T.M.A.R. S.p.A. esponeva nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno d’imposta 2002 una eccedenza a credito Irpeg di complessivi Euro 20.222.585, che veniva interamente richiesta a rimborso.

Tale credito derivava per la sua quasi totalità, pari ad Euro 20.201.248, da una eccedenza a credito Irpeg formatasi nel periodo d’imposta 1998, inserita nella relativa dichiarazione e da allora riportata in avanti negli esercizi successivi, ai sensi dell’art. 80 T.U.I.R.: eccedenza formatasi per avere la società beneficiato, nell’anno d’imposta 1998, di un credito Irpeg ex art. 14, comma 1, T.U.I.R. (nel testo applicabile ratione temporis) sui dividendi distribuiti da una sua società controllata, realizzando, al contempo, per effetto di altre operazioni di gestione, una perdita fiscale.

In relazione a tale esercizio (1998) l’Agenzia delle entrate aveva emesso avviso di accertamento per il recupero a tassazione dei componenti negativi di reddito ivi indicati (in particolare rappresentati da una svalutazione di partecipazioni per oltre 120 miliardi di lire) che l’ufficio riteneva fittizi, ma tale accertamento era stato annullato dalla C.T.P. di Roma, con sentenza passata in giudicato, in quanto emesso da funzionario privo della necessaria qualifica dirigenziale e in assenza di delega da parte del capo dell’ufficio.

Occorre aggiungere infine – a completamento della presente premessa in fatto – che con atto del 16/6/2003 (seguito da istanza integrativa del 27/5/2004) la società aveva altresì presentato, ai sensi della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 9 dichiarazione integrativa per definizione automatica delle imposte sui redditi relative al 1997 e alle ulteriori annualità comprese tra il 1999 e il 2002; tale istanza era stata però respinta dall’ufficio proprio in ragione della indicazione nella dichiarazione relativa al 2002 del credito Irpeg derivato dall’anno d’imposta 1998, che l’ufficio riteneva, come detto, di carattere fittizio; avverso il diniego di condono la società ha proposto ricorso, respinto in primo grado, ma accolto in appello, con sentenza avverso la quale è stato proposto ricorso per cassazione tuttora pendente, iscritto al numero 21051/2011 R.G..

2. Avverso il silenzio-rifiuto formatosi sulla predetta istanza di rimborso la società proponeva, in data 9/1/2009, ricorso avanti la competente C.T.P., chiedendo la condanna dell’amministrazione al pagamento del vantato credito Irpeg oltre interessi di mora; deduceva trattarsi di credito certo, liquido ed esigibile, poichè derivante dalla eccedenza d’imposta indicata nella dichiarazione dei redditi del periodo d’imposta 1998, mai legittimamente rettificata da parte del competente Ufficio ed ormai non più suscettibile di diverso accertamento, per essere ampiamente decorsi i termini di decadenza di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43.

L’ufficio controdeduceva rilevando che: a) la chiesta definizione automatica L. n. 289 del 2002, ex art. 9 implicava la rinuncia al rimborso; b) il condono non può mai consolidare crediti inesistenti; c) non vi era alcun giudicato esterno formatosi sulla annualità 1998, dato che l’accertamento per quel periodo d’imposta era stato annullato dalla Commissione tributaria provinciale di Roma per meri vizi formali; d) anche se gli elementi posti a base di quegli accertamenti erano riferibili all’anno d’imposta 1998, tuttavia l’annualità d’imposta interessata dal rimborso era in effetti il 2002 e non il 1998, così che, denegato il condono, l’annualità 2002 restava soggetta ad accertamento.

3. Con sentenza del 16/6/2009, la C.T.P. di Alessandria accoglieva integralmente il ricorso osservando che “… la mancanza di una legittima rettifica della dichiarazione dei redditi della SITMAR da parte della Amministrazione finanziaria, nei termini per la liquidazione o la rettifica… previsti, rispettivamente, dal D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 36-bis e 43 ha prodotto il consolidamento del credito vantato… e ha determinato l’obbligo della amministrazione al rimborso”.

4. Con sentenza del 16/11/2010, la C.T.R. Piemonte rigettava l’appello dell’ufficio e, in accoglimento dell’appello incidentale proposto dalla società, condannava l’Agenzia delle entrate al pagamento degli interessi di mora sulle somme stabilite nella sentenza di primo grado. Ritenevano i giudici del gravame che, da un lato, la mancata impugnazione della sentenza (C.T.P. Roma) che aveva annullato l’avviso di accertamento emesso dall’ufficio con riferimento all’anno d’imposta 1998 e, dall’altro, la mancata riproposizione nei termini dell’atto annullato, avevano reso certo, liquido ed esigibile il credito vantato dalla società e che, inoltre, la presentazione di istanza di condono tombale non precludeva la possibilità di chiedere il rimborso.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate, sulla base di tre motivi.

Resiste la contribuente depositando controricorso.

Con ordinanza interlocutoria resa all’udienza del 9/2/2016 questa Corte ha rinviato la causa a nuovo ruolo in attesa della decisione delle S.U. sulla questione – allora davanti ad esse ancora pendente – della c.d. cristallizzazione o meno del diritto al rimborso una volta scaduti per l’amministrazione i termini di decadenza previsti per l’accertamento in rettifica della dichiarazione (questione in questa sede rilevante in relazione al secondo motivo di ricorso).

La società ha depositato ulteriore memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

5. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per avere la C.T.R. ritenuto che il giudicato formatosi sulla sentenza della C.T.P. di Roma che ha annullato, per vizi formali, l’avviso di accertamento emesso per l’anno 1998 (con il quale l’amministrazione aveva disconosciuto i costi per svalutazione di partecipazioni evidenziati dalla società), valesse a rendere incontestabile il credito chiesto a rimborso.

Rileva che l’oggetto dei due giudizi è del tutto distinto e che, pertanto, nessuna efficacia preclusiva può spiegare, in quello presente, il giudicato formatosi nel primo. Ciò anzitutto perchè con l’avviso di accertamento relativo al 1998 venivano recuperati a tassazione costi ritenuti inesistenti mentre il provvedimento in questa sede impugnato concerne il diniego di rimborso del credito risultante dalla dichiarazione nella quale quei costi erano indicati: con esso, pertanto, non viene operato un recupero a tassazione di questi ultimi ma solo se ne assume l’inidoneità a supportare la richiesta di rimborso. In secondo luogo perchè la sentenza che ha annullato quell’avviso non esaminava nel merito la natura artificiosa o fraudolenta dei costi e delle conseguenti perdite fiscali evidenziate dalla società nel 1998, bensì si limitava a rilevare un vizio di forma costituito dalla sottoscrizione dell’avviso medesimo da parte di funzionario incompetente.

6. Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43 e D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 80 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto che il mancato rinnovato esercizio nei termini (dopo l’annullamento disposto dalla C.T.P. di Roma) del potere di rettifica della dichiarazione relativa al 1998 precludesse all’amministrazione di contestare la sussistenza del credito chiesto a rimborso.

Rileva in sintesi che la scelta del contribuente di avvalersi in un certo anno di imposta della facoltà, specificamente attribuitagli dalla legge, di chiedere il rimborso delle eccedenze a credito dichiarate e via via riportate negli anni precedenti, dà vita ad un rapporto giuridico nuovo – il rapporto di rimborso – il quale è del tutto autonomo dal rapporto di imposta da cui originò il fatto (credito di imposta su dividendi, o altro) che ha dato luogo all’eccedenza pregressa.

Assume che, una volta chiesto il rimborso, il contribuente è soggetto al termine ordinario di prescrizione decennale per coltivare la propria pretesa e l’Ufficio è soggetto al medesimo termine per contrastare la pretesa del contribuente opponendogli tutti i fatti estintivi o impeditivi che sia in grado di dimostrare, rimanendo invece del tutto irrilevante la circostanza che nel rapporto giuridico di imposta originario, relativo all’anno in cui si manifestò per la prima volta il fatto generatore dell’eccedenza a credito, l’Ufficio abbia omesso di esercitare poteri di accertamento.

Si tratterebbe, in altre parole, secondo la ricorrente di fare applicazione del principio “temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum”: per il mancato esercizio del potere di rettifica, l’Ufficio non può contestare l’esistenza del fatto (potenzialmente) generatore di eccedenza (credito di imposta su dividendi, o altro) allegato dal contribuente, nè recuperare a tassazione il maggior imponibile occultato dal contribuente; ma ben può eccepire che il contribuente non ha diritto ad alcun rimborso perchè in concreto, a causa dell’occultamento di maggiori imponibili, nessuna eccedenza sussisteva in realtà.

7. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 9, comma 9 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto irrilevante la circostanza che, per l’anno con riferimento al quale la società aveva chiesto il rimborso (2002), la stessa aveva presentato istanza di condono tombale, non accolta dall’ufficio.

Richiamati precedenti di questa Corte, e segnatamente l’arresto di Cass. Sez. U, n. 14828 del 05/06/2008 (Rv. 603316), nonchè l’ordinanza della Corte costituzionale n. 340 del 27 luglio 2005, sostiene la ricorrente che la previsione contenuta nella citata disposizione, secondo cui “la definizione automatica non modifica l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, dell’imposta sul valore aggiunto, nonchè dell’imposta regionale sulle attività produttive” vale solo a precisare che la dichiarazione integrativa si limita a determinare il debito d’imposta del contribuente per gli anni condonati e non ha altro effetto o significato ulteriore: in particolare essa non priva l’ufficio del potere di negare la sussistenza dei crediti e del diritto al loro rimborso qualora ne sia inesistente il presupposto, come nel caso di attività fraudolente poste in essere dal contribuente proprio al fine di costituire componenti negativi di reddito atti a far emergere poste rimborsabili.

8. E’ fondato il primo motivo di ricorso.

Come questa Corte ha avuto modo di evidenziare in fattispecie analoghe, affinchè possa esplicarsi l’efficacia del giudicato è necessaria non solo l’identità dei soggetti dei due giudizi, ma anche la c.d. identità oggettiva tra rapporto definito e rapporto da definire, da valutarsi attraverso la comparazione degli elementi identificativi della domanda proposta in ciascun giudizio: petitum e causa petendi (v. ex plurimis Cass. n. 19720 del 25/09/2007; n. 2113, del 12/02/2003; n. 19252/02) in rapporto al decisum e segnatamente alle ragioni che hanno condotto all’accoglimento (o al rigetto) della domanda.

Tale identità sicuramente non ricorre nel caso di specie posto che, nel giudizio definito, l’oggetto della controversia era più ampio e solo in parte coincidente con quello del presente giudizio; in quello si verteva, infatti, della legittimità del potere di rettifica esercitato dall’Amministrazione Finanziaria attraverso l’emissione di un atto impositivo del quale la ricorrente chiedeva l’annullamento: legittimità contestata non solo per ragioni di merito (sussistenza dei componenti negativi invece negati dall’ufficio e pertanto dallo stesso recuperati a tassazione: questione questa che, se decisa con effetto di giudicato, avrebbe effettivamente avuto incidenza nel presente giudizio nel quale pure la stessa allegazione si pone a fondamento della domanda di rimborso) ma anche per ragioni formali (nullità dell’avviso di accertamento in quanto sottoscritto da soggetto privo della necessaria legittimazione: questione del tutto diversa e indipendente dall’altra, come rende evidente la considerazione che all’annullamento dell’accertamento in ragione del predetto vizio formale può e deve pervenirsi pur in presenza di una pretesa impositiva in astratto pienamente fondata nel merito e che, viceversa, la legittimità formale dell’accertamento non ne preclude ovviamente l’annullamento per l’eventuale infondatezza nel merito delle ragioni di fatto e di diritto che ne sono poste a fondamento).

Appare assorbente in tal senso il rilievo che, come questa Corte ha avuto modo di evidenziare, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la pronuncia di una sentenza che dichiari la nullità dell’avviso di accertamento per motivi di forma, sia o meno passata in giudicato, non solo non preclude la possibilità ma impone all’Amministrazione finanziaria di emettere un nuovo avviso, il quale autoannullerà, se necessario, il precedente, purchè siano rispettati i termini di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, commi 1 e 2 e ciò in quanto, se ancora in tempo, non è in potere dell’Amministrazione rinunciare con l’inerzia all’azione di recupero del credito fiscale (Sez. 5, n. 10376 del 12/05/2011, Rv. 617925).

Il che del resto è quanto afferma anche la sentenza impugnata laddove affianca, un pò contraddittoriamente, quale ragione idonea a rendere certo, liquido ed esigibile il credito vantato dalla Sitmar, al giudicato formatosi sulla sentenza di annullamento anche la mancata ripresentazione nei termini dell’avviso di accertamento: ciò che, da un lato, vale a evidenziare che, anche a giudizio (sul punto del tutto corretto) della C.T.R., in realtà l’annullamento per ragioni formali dell’atto impositivo non poneva alcuna preclusione processuale a un successivo rilievo da parte dell’amministrazione della insussistenza delle componenti negative di reddito da cui origina l’eccedenza d’imposta; dall’altro sposta interamente il peso della decisione sul secondo argomento, quello per l’appunto secondo cui la mancata rinnovazione nei termini dell’accertamento annullato di per sè precluderebbe all’amministrazione di eccepire, a fronte della domanda di rimborso del credito predetto, l’insussistenza dei fatti che ne sono posti a fondamento.

9. Anche tale argomento però deve ritenersi destituito di fondamento, meritando in tal senso accoglimento, per quanto di ragione, anche il secondo motivo di ricorso.

La questione con esso posta ha trovato soluzione – nel senso prospettato dalla ricorrente – nella sentenza delle Sezioni unite di questa Corte n. 5069 del 15/03/2016 che, nel contrasto tra i precedenti diversi orientamenti sul punto, ha espresso adesione a quello meno recente ma maggioritario secondo il quale “in tema di rimborso d’imposte, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio “quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum”” (v. Sez. 5, n. 9524 del 22/04/2009, Rv. 607965; cui adde Sez. 5, n. 2918 del 10/02/2010, Rv. 611875; Sez. 5, n. 11444 del 25/05/2011, Rv. 617247; Sez. 5, n. 7899 del 18/05/2012, Rv. 622391; Sez. 5, n. 12557 del 17/06/2016 (Rv. 640075).

L’obiezione della società ricorrente, argomentata nella memoria da ultimo depositata ex art. 378 cod. proc. civ., secondo cui tale principio non si attaglierebbe alla fattispecie – dal momento che, in questa, il credito d’imposta Irpeg, indicato nella dichiarazione presentata per l’anno 1998, e vantato ai sensi dell’art. 14 T.U.I.R. (nel testo allora vigente) sui dividendi distribuiti da società partecipate, è in sè incontestato, basandosi invece il diniego dell’ufficio sulla pretesa compensazione con controcredito derivante dal disconoscimento di componenti negativi del reddito indicati nella medesima dichiarazione – non coglie nel segno.

Diversamente da quanto con essa postulato, invero, tale disconoscimento non può ritenersi volto ad opporre al diritto al rimborso un fatto impeditivo, modificativo o estintivo di un credito già di per sè sorto e azionabile ma incide piuttosto su un mero fattore di calcolo del saldo risultante dalla dichiarazione dei redditi e che, pertanto, concorre (con segno algebrico negativo) al perfezionamento del fatto costitutivo del credito che in questa sede è posto ad oggetto dell’istanza di rimborso.

Varrà al riguardo anzitutto rammentare che il credito d’imposta concesso ex art. 14, comma 1, T.U.I.R. (nel testo applicabile alla fattispecie) non costituisce un credito pecuniario immediatamente azionabile dal contribuente ma dà solo diritto ad una corrispondente detrazione, da indicarsi nella dichiarazione dei redditi dello stesso anno, dalla imposta lorda da calcolarsi sulla base del reddito imponibile. Assai chiaro in tal senso il disposto del comma 5, stesso art., a mente del quale “la detrazione del credito di imposta deve essere richiesta, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta in cui gli utili sono stati percepiti e non spetta in caso di omessa presentazione della dichiarazione o di omessa indicazione degli utili nella dichiarazione presentata”. Solo all’esito di tale detrazione sarà dunque possibile verificare l’esistenza e l’ammontare di una eccedenza d’imposta: questa sì suscettibile di formare oggetto di istanza di rimborso ovvero, in alternativa, di essere portata in compensazione per il successivo anno d’imposta.

L’equivoco che sta alla base dell’argomento difensivo in esame consiste, dunque, nella identificazione dell’oggetto dell’istanza di rimborso con il credito d’imposta spettante sui dividendi versati dalle società partecipate ex art. 14 T.U.I.R., anzichè sull’eccedenza d’imposta risultante dalla dichiarazione (ossia sulla differenza tra imposta dovuta, da calcolarsi ovviamente sulla base del reddito imponibile al netto delle altre eventuali detrazioni, e credito medesimo), rispetto alla quale ovviamente il primo rappresenta solo uno degli elementi di calcolo.

Sembra appena il caso al riguardo di evidenziare che non necessariamente in presenza di un credito d’imposta da portare in detrazione si ha sempre anche una eccedenza d’imposta da chiedere a rimborso o da portare in compensazione per gli anni successivi, ciò verificandosi solo quando il primo è di ammontare superiore all’imposta netta da calcolarsi secondo i criteri di legge (art. 22, comma 2, T.U.I.R.) e solo nella misura in cui risulti superiore, ben potendosi invece verificare che esso risulti pari o inferiore all’imposta, nei quali casi il credito varrà solo ad azzerare ovvero a ridurre il debito d’imposta, ma non legittimerà certo alcuna pretesa di rimborso da parte del contribuente. Per tornare al caso di specie è evidente che se, per ipotesi, il credito d’imposta ex art. 14 T.U.I.R. fosse stato d’importo pari o inferiore all’imposta netta: a) da un lato, nessun rimborso si sarebbe potuto ipotizzare e nessuna istanza avrebbe potuto essere avanzata; b) dall’altro, ogni contestazione dell’amministrazione circa la determinazione dell’imponibile avrebbe potuto essere funzionale solo al recupero di pretese maggiori imposte e sarebbe stata pertanto – essa sì – preclusa dalla scadenza dei termini per la liquidazione o per l’accertamento.

Appare chiaro dunque che il rifiuto opposto dall’amministrazione, nel caso in esame, all’istanza di rimborso non discende dalla prospettazione – a fronte di un credito già certo, liquido ed esigibile – di un controcredito quale fatto estintivo opposto in compensazione (al qual fine si richiederebbe che lo stesso sia parimenti certo, liquido ed esigibile), ma ben diversamente dalla negazione proprio delle ragioni fattuali e contabili poste a base del credito stesso, ossia dalla contestazione (mera difesa) del fatto costitutivo del credito chiesto a rimborso.

Alla luce di tali considerazioni nessun dubbio può dunque sussistere sulla piena applicabilità alla fattispecie del principio – sopra testualmente richiamato – affermato da Cass., Sez. U, n. 5069 del 15/03/2016. La questione qui esaminata e la sua possibile ricorrenza in altri casi consigliano peraltro di ulteriormente specificare la portata di detto principio nei seguenti termini: in tema di rimborso d’imposta – precisato che il suo oggetto va identificato con l’eccedenza a credito risultante dalla dichiarazione e non con i crediti portati in detrazione nella stessa dichiarazione – costituisce mera contestazione del fatto costitutivo del diritto al rimborso dedotto dal contribuente (come tale suscettibile di essere opposta dall’amministrazione anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento) quella con la quale l’amministrazione, pur non negando il credito portato in detrazione (nella specie ex art. 14, comma 1, T.U.I.R. vecchio testo), deduca l’esistenza, con riferimento allo stesso anno d’imposta, di un maggiore reddito imponibile (nella specie in ragione della ritenuta fittizia svalutazione di partecipazioni societarie) e conseguentemente di una maggiore imposta lorda, al solo fine di negare l’eccedenza d’imposta, altrimenti risultante dalla differenza tra il credito d’imposta esposto in dichiarazione e l’imposta calcolata sulla base del reddito imponibile indicato dal contribuente.

10. E’ infine inammissibile il terzo motivo, in quanto inconferente rispetto all’effettiva ratio decidendi adottata nella sentenza impugnata.

Con esso la ricorrente sembra postulare che la C.T.R. abbia ritenuto irrilevante la presentazione dell’istanza di condono, poichè la stessa non consentirebbe comunque nella situazione data all’ufficio di contestare la pretesa; di contro la ricorrente sostiene che, invece, questa circostanza “faceva insorgere un ulteriore titolo per l’ufficio, chiamato a valutare l’ammissibilità della richiesta di condono, per esaminare la domanda di rimborso e la sua accoglibilità”.

In realtà però i giudici d’appello hanno ben diversamente affermato che la presentazione di istanza di condono non preclude alla contribuente di chiedere il rimborso, nè impone al contribuente alcuna rinuncia al credito, nè ancora preclude all’amministrazione il rimborso.

Affermazione quest’ultima in sè corretta (dal momento che non esclude ma anzi sembra anche implicare l’inversa possibilità che l’amministrazione, pur in presenza di adesione al condono, neghi il rimborso ove riconosca l’infondatezza della relativa domanda) ma con ogni evidenza non idonea di per sè a sorreggere (una volta esclusa la validità delle prima viste argomentazioni) il confermato accoglimento, nella specie, del ricorso della contribuente.

Varrà comunque rammentare sul tema che la giurisprudenza di questa Corte ha già affermato (v. ex aliis Cass. n. 2597/2014; 20679/2011; 375/2009, Cass. S.U. n. 14828/2008), in modo condivisibile, che il condono fiscale elide sì il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, i quali restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’ufficio; conclusione questa che, conformemente a quanto ritenuto anche dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 340/2005, non è impedita dalla previsione normativa secondo cui “la definizione automatica non modifica l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate…”, dovendo questa essere interpretata nel senso che nessuna modifica di tali importi può essere determinata dalla definizione automatica, non nel senso che questa sottragga all’ufficio il potere di contestare il credito esposto dal contribuente.

Di conseguenza, concernendo la vertenza proprio la legittimità del credito d’imposta utilizzato dalla contribuente per l’anno 2002 e non assumendo rilievo condizionante l’adesione, per detto anno d’imposta, della società al condono L. n. 289 del 2002, ex art. 9 (e di conseguenza nemmeno il separato giudizio pendente sulla legittimità del relativo diniego) la controversia andava decisa all’esito dell’esame nel merito delle contestazioni mosse dall’ufficio sulla effettiva sussistenza dell’eccedenza d’imposta richiesta a rimborso.

Ragione per cui la sentenza va cassata con rinvio alla C.T.R. Piemonte, in diversa composizione, per nuovo esame che tenga conto dei principi sopra enunciati, oltre che per il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso; dichiara inammissibile il terzo; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla C.T.R. Piemonte, in diversa composizione, anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 14 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 dicembre 2016

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