Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27294 del 29/12/2016


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Cassazione civile, sez. trib., 29/12/2016, (ud. 09/09/2016, dep.29/12/2016),  n. 27294

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHIRO’ Stefano – Presidente –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –

Dott. ZOSO Liana M. T. – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11951-2013 proposto da:

LATTERIA DI SOLIGO SAC in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI MONTI PARIOLI 48,

presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MARINI, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato CARLO AMATO giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI FARRA DI SOLIGO in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIALE GIULIO CESARE 21, presso lo

studio dell’avvocato LORENZO SCIUBBA, rappresentato e difeso dagli

avvocati ANTONIO MOLLO, RUGGERO MOLLO giusta delega in calce;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 19/2012 della COMM.TRIB.REG. di VENEZIA,

depositata il 19/03/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/09/2016 dal Consigliere Dott. ORONZO DE MASI;

udito per il ricorrente l’Avvocato RENATO MARINI per delega

dell’Avvocato GIUSEPPE MARINI che si riporta agli atti;

udito per il controricorrente l’Avvocato RUGGERO MOLLO che ha chiesto

l’inammissibilità e deposita una cartolina A/R;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata che ha concluso per la riunione dei ricorsi nn. 7,

11, 12 r.g. 14966/11, 11951/13, 18009/14 e per il rigetto del

ricorso.

Fatto

IN FATTO

La Latteria di Soligo s.a.c. impugnava gli avvisi di accertamento per omessa denuncia Ici n. (OMISSIS) e n. (OMISSIS), per gli anni d’imposta 2003 e 2004, emessi dal Comune di Farra di Soligo in relazione ad un fabbricato sociale accatastato in categoria D/7, sostenendo la non assoggettabilità al tributo del cespite, perchè in possesso dei requisiti necessari per essere considerato rurale trattandosi di bene strumentale all’attività agricola dei soci della Cooperativa ed essendo ininfluente la categoria catastale ad esso attribuita, comunque parificata dalla Circolare Ministero delle Finanze 9 aprile 1998 n. 96/T alla categoria D/10. Lamentava, altresì, la nullità dei predetti avvisi per mancanza di motivazione e la violazione della normativa in materia di comminazione delle sanzioni tributarie.

Resisteva il Comune di Farra di Soligo contestando la fondatezza del ricorso e chiedendone il rigetto.

La Commissione Tributaria Provinciale di Treviso, con la sentenza n. 90 del 13/10/2009, respingeva il ricorso non condividendo le tesi esposte dal contribuente e la decisione veniva confermata dalla Commissione Tributaria Regionale di Venezia-Mestre che, con sentenza n. 19 del 7/11/2011, depositata il 19/3/2012, respingeva l’appello proposto dalla Cooperativa, ribadendo la legittimità degli impugnati avvisi di accertamento in ragione del classamento dell’immobile, per ciascun anno d’imposta, in categoria D/7 (“Fabbricati costruiti o adattati per le speciali esigenze di un’attività industriale e non suscettibile di destinazione diversa senza radicali trasformazioni”) e compensava tra le parti le spese di giudizio.

La Cooperativa ricorre per la cassazione della sentenza d’appello con quattro motivi. Resiste il predetto Comune con controricorso e depositando memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con un primo motivo la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della impugnata sentenza per non avere i giudici di appello tenuto conto dell’intervenuta modifica del classamento a seguito di apposita procedura DOCFA del 16/3/2011, giusta richiesta di variazione catastale per l’attribuzione della categoria A/6, agli immobili ad uso abitativo, e della categoria D/10, agli immobili strumentali all’attività agricola.

La censura non coglie nel segno atteso che gli avvisi di accertamento riguardano anni d’imposta d’imposta 2003 e 2004 e, in tema di ICI, questa Corte ha avuto modo di precisare che “le variazioni della categoria catastale del D.L. n. 70 del 2011, ex art. 7, comma 2 bis convertito con modificazioni nella L. n. 106 del 2011, producono effetti, ai fini del riconoscimento del requisito della ruralità degli immobili, dal quinquennio antecedente alla presentazione della domanda, in virtù della norma d’interpretazione autentica di cui al D.L. n. 102 del 2013, art. 2, comma 5 ter convertito in L. n. 124 del 2013”.

Posto che la domanda si colloca temporalmente nell’anno 2011, ne consegue che il riconoscimento del requisito della ruralità al fabbricato in questione non può che decorrere dall’anno 2006.

Con un secondo motivo la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione di norme di diritto, segnatamente, D.L. n. 207 del 2008, art. 23, comma 1 bis, D.P.R. n. 917 del 1986, art. 39, D.M. 11 gennaio 1991, D.P.R. n. 139 del 1998, art. 2, comma 3 bis e art. 113 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sussistendo i requisiti di ruralità dell’immobile strumentale, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, per esservi effettivamente svolta attività agricola, consistente nella manipolazione in comune del latte prodotto da vacche dei fondi dei soci mediante la conservazione in burro e in formaggio, come peraltro richiesto dall’art. 29 TUIR, con conseguente impossibilità di assoggettamento ad Ici, non dovendosi fare esclusivo riferimento, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito, alla classificazione catastale della costruzione.

Con un terzo motivo deduce violazione o falsa applicazione di norme di diritto, segnatamente, l’art. 2135 c.c., D.L. n. 557 del 1993, art. 9, D.P.R. n. 139 del 1998, art. 2, comma 3 bis in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè la CTR del Veneto avrebbe dovuto considerare “agricole” non solo le attività rientranti nell’ambito dell’art. 29 TUIR ma tutte quelle di cui al citato art. 2135 c.c., in forza del D.L. n. 557 del 1993, art. 9 essendo il fabbricato in questione, di proprietà della Cooperativa, asservito ai terreni dei soci conferenti e non potendosi considerare la Cooperativa ente giuridico distinto dalle persone dei soci. Evidenzia, altresì, la ricorrente che risulta del tutto contraria al principio di economicità dei processi l’affermazione, contenuta nella sentenza di secondo grado, secondo cui l’attribuzione all’immobile di una diversa categoria catastale avrebbe dovuto essere specificatamente impugnata dal contribuente.

I suesposti motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente attesa la omogeneità delle censure, sono infondati.

Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che “In tema di ICI, per la dimostrazione della ruralità dei fabbricati, ai fini del trattamento esonerativo, è rilevante l’oggettiva classificazione catastale con attribuzione della relativa categoria (A/6 o D/10), per cui l’immobile che sia stato iscritto come “rurale”, in conseguenza della riconosciuta ricorrenza dei requisiti previsti dal D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, art. 9, conv. in L. 26 febbraio 1994, n. 133) non è soggetto all’imposta, ai sensi del D.L. 30 dicembre 2008, n. 207, art. 23, comma 1 bis (conv. in L. 27 febbraio 2009, n. 14) e del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 2, comma 1, lett. a; ne consegue che qualora l’immobile sia iscritto in una diversa categoria catastale, nella specie D/1, è onere del contribuente, che pretenda l’esenzione dall’imposta, impugnare l’atto di classamento per la ritenuta ruralità del fabbricato, restandovi, altrimenti, quest’ultimo assoggettato e, allo stesso modo, il Comune deve impugnare autonomamente l’attribuzione della categoria catastale A/6 o D/10, al fine di poter legittimamente pretendere l’assoggettamento del fabbricato all’imposta” (Cass. Sez. Un. n. 18565/2009; Cass. n. 16737/2015; Cass. n. 5167/2014; Cass. n. 19872/2012; Cass. n. 2001/2011).

Pertanto, solo per i fabbricati non iscritti in catasto “l’accertamento della “ruralità” può essere direttamente e immediatamente compiuto dal giudice che sia investito dalla pretesa del contribuente di conseguire il rimborso dell’ICI pagata per il fabbricato al quale ritenga spetti il riconoscimento come “fabbricato rurale”; trattandosi, in questo caso, di domanda fondata su una pretesa esenzione dall’imposta, spetta al contribuente dimostrare la sussistenza dei requisiti indicati nel D.L. n. 557 del 1993, art. 9, commi 3 e 3 bis”.

Orbene, nel riformare la sentenza di primo grado, la CTR di Venezia-Mestre ha puntualmente rilevato che il fabbricato in questione, con riferimento ai periodi d’imposta che qui interessano, risulta classato nella categoria D/1 e che “l’attribuzione all’immobile di una diversa categoria catastale deve essere impugnata specificamente dal contribuente che pretenda la non soggezione all’imposta per la ritenuta ruralità del fabbricato, restando altrimenti quest’ultimo assoggettato ad Ici”.

In tal modo i giudici di appello si sono uniformati all’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il requisito della ruralità, ai fini qui considerati, è legato all’iscrizione nella categoria D/10 o A/6 (per le abitazioni), tanto più che gli immobili rurali strumentali ben possono rientrare anche in categorie ordinarie (C/6, C/2, D/1 o D/7), mentre improprio risulta il riferimento alla Circolare n. 96/T10 destinata a disciplinare, in via transitoria, nelle more cioè della pubblicazione del decreto attuativo della L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 156, che ha introdotto la specifica categoria D/10, il contenuto dei documenti di aggiornamento prodotti con il DOCFA, trattandosi di ipotesi estranea alla fattispecie qui esaminata.

Nè vale il richiamo della ricorrente al D.L. 30 dicembre 2008, n. 207, art. 23, comma 1 bis (convertito, con modificazioni, dalla L. 27 febbraio 2009, n. 14), ai fini dell’invocato trattamento esonerativo per dimostrato possesso del requisito di ruralità dei fabbricati, in quanto, come questa Corte, nella sua più autorevole composizione, ha chiarito, “la norma interpretativa sostanzialmente conferma che la “ruralità” del fabbricato direttamente e immediatamente rileva ai fini della relativa classificazione catastale, ma pur sempre ricollega a questa conseguita classificazione l’esclusione del “fabbricato (catastalmente riconosciuto come) rurale” dalla (stessa) “nozione” di “fabbricato imponibile” (ai fini ICI)… con la conseguenza che il fabbricato che sia stato classificato “rurale”, con attribuzione della relativa categoria, perchè in possesso dei requisiti indicati dalla richiamata norma, sarà automaticamente escluso dall’area di imponibilità ai fini ICI, per effetto della disposizione di interpretazione autentica più volte ricordata”.

Ciò significa che, “qualora un “fabbricato” sia stato catastalmente classificato come “rurale” (categoria A/6 per le unità abitative, categoria D/10 per gli immobili strumentali alle attività agricole) resta precluso ogni accertamento, in funzione della pretesa assoggettabilità ad ICI del fabbricato in questione, che non sia connesso ad una specifica impugnazione della classificazione catastale riconosciuta nei riguardi dell’amministrazione competente… (prima l’UTE, ora l’Agenzia del Territorio)”.

E, contrariamente a quanto sostenuto dalla Cooperativa ricorrente, “l’accertamento dei predetti requisiti in difformità della attribuita categoria catastale non può… essere incidentalmente compiuto dal giudice tributario” atteso che “il classamento… è rispetto alla pretesa tributaria concretamente opposta, l’atto presupposto e in ragione del “carattere impugnatorio del processo tributario, avente un oggetto circoscritto agli atti che scandiscono le varie fasi del rapporto d’imposta, e nel quale il potere di disapplicazione del giudice è limitato ai regolamenti ed agli atti amministrativi generali,… legittimati a contraddire in merito all’impugnativa dell’atto presupposto (possono essere) unicamente gli organi che l’hanno adottato” (cfr. Sez. Un. n. 18565/2009).

Con un quarto motivo la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione di norme di diritto, segnatamente, il D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per inosservanza dell’onere motivazionale e di quello probatorio, avendo il Comune omesso di indicare, nell’avviso di accertamento notificato al contribuente, gli elementi seguiti per la determinazione del valore del cespite, in tal modo non consentendo la verifica del procedimento logico-formativo dell’accertamento, nè l’esercizio del diritto di difesa.

Anche tale doglianza va disattesa in quanto inammissibile prima ancora che infondata.

Il motivo del ricorso, innanzitutto, è inammissibile, in base al principio per cui con il ricorso in cassazione si impugna solo la sentenza di appello, la quale costituisce l’unico oggetto del giudizio di legittimità, e non anche, direttamente, l’avviso di accertamento (Cass. n. 841/2014; n. 6134/2009; n. 9963/2003; n. 8265/2002; n. 8852/2001; n. 3986/1999; n. 5083/1998) richiamando.

Il ricorrente, inoltre, non si confronta affatto con le argomentazioni della sentenza impugnata, che, in coerenza con il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui l’obbligo motivazionale dell’accertamento deve ritenersi adempiuto tutte le volte che il contribuente sia stato messo in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestare efficacemente “an” e “quantum”.

Il requisito motivazionale dell’accertamento esige, infatti, oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi ed oggettivi della posizione creditoria dedotta, soltanto l’indicazione di fatti astrattamente giustificativi di essa, che consentano di delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’Ufficio nell’eventuale successiva fase contenziosa, restando, poi, affidate al giudizio di impugnazione dell’atto le questioni riguardanti l’effettivo verificarsi dei fatti stessi e la loro idoneità a dare sostegno alla pretesa impositiva (ex multis, Cass. n. 23615/2011) e, nel caso in esame, la presenza nell’accertamento di tali elementi è stata accertata dai giudici di appello “in quanto il Comune, così come emerge dalla lettura di detti avvisi, non ha determinato alcun valore presunto ma ha fornito congrue motivazioni, nel rispetto della normativa vigente, ossia il D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 2 e la L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 4, che hanno garantito il diritto di difesa”, con valutazione incensurabile in sede di legittimità.

Ciò, peraltro, in coerenza con il carattere di “provocatio ad opponendum” riconosciuto all’avviso di accertamento e, quindi, con l’esigenza ch’esso consenta al contribuente di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali onde poterla efficacemente contrastare (Cass. n. 1209/2000).

E’ appena il caso di ricordare, stante la natura assorbente delle considerazioni che precedono, che nelle ordinanze n. 24184 e n. 2485 del 2010, espressamente richiamate nella impugnata sentenza, questa Corte, decidendo su analoghi ricorsi proposti dalla predetta Cooperativa, afferenti a precedenti annualità Ici, ha avuto modo di evidenziare che “l’obbligo motivazionale dell’accertamento deve ritenersi adempiuto tutte le volte in cui il contribuente sia stato posto in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestare efficacemente l’an ed il quantum dell’imposta. In particolare, il requisito motivazionale esige, oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi ed oggettivi della posizione creditoria dedotta, soltanto l’indicazione dei fatti astrattamente giustificativi di essa, che consentano di delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’ente impositore nell’eventuale successiva fase contenziosa, restando, poi, affidate al giudizio di impugnazione dell’atto le questioni riguardanti l’effettivo verificarsi dei fatti stessi e la loro idoneità a dare sostegno alla pretesa impositiva (Cass. n. 21571/2004, n. 14700/2001, n. 14566/2001)” e che grava sul ricorrente “l’onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’art. 366 c.p.c., n. 4, qualunque sia il tipo di errore (in procedendo o in iudicando) per cui è proposto, non può essere assolto per relationem con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello, senza la esplicazione del loro contenuto (Cass. n. 20454/2005; n. 14075/2002), essendovi il preciso onere, ribadito ed esplicitato con le novelle introdotte dall’art. 366 c.p.c., n. 6) e art. 369 c.p.c., n. 4, di indicare in modo puntuale gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, nonchè le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione, e dovendo contenere, in sè, tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere, ex actis, al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata (Cass. n. 849/2002; n. 2613/2001, n. 9368/2006; n. 1014/2006; n. 22979/2004).

Ebbene, alla luce di tali argomentazioni, ed attesa inoltre l’assoluta genericità della censura, appare dirimente, ai fini qui considerati, la circostanza che l’unità immobiliare risultava iscritta in catasto nella categoria D/1, con attribuzione di rendita, costituente la base imponibile dell’imposta, secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza che sono liquidate come in dispositivo. Infine, atteso il tenore della decisione, ratione temporis trova applicazione il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione: ai sensi di tale disposizione, il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che la definisce, a dare atto – senza ulteriori valutazioni discrezionali – della sussistenza dei presupposti (rigetto integrale o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) per il versamento, da parte dell’impugnante totalmente soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lui proposta, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento della spese del giudizio che liquida in Euro 7.500,00, oltre rimborso spese forfettarie e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 dicembre 2016

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