Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27291 del 29/12/2016


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Cassazione civile, sez. trib., 29/12/2016, (ud. 16/12/2015, dep.29/12/2016),  n. 27291

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

ETRO spa, rappresentata e difesa dall’avv. Enzo Barazza e dall’avv.

Giuseppe Niccolini, presso il quale è elettivamente domiciliata in

Roma alla via Teodosio Macrobio n. 3;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma in via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia n. 133/11/07, depositata il 27 novembre 2007;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16

dicembre 2015 dal Relatore Cons. Antonio Greco;

uditi l’avv. Enzo Barazza per la ricorrente e l’avvocato dello Stato

Paola Maria Zerman per la contro ricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CUOMO Luigi, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La spa Etro propone ricorso per cassazione, con cinque motivi illustrati con successiva memoria, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia che, accogliendone parzialmente l’appello, ha confermato la fondatezza della ripresa a tassazione, ai fini dell’IRAP e dell’IRPEG per il 2002, di costi di ristorazione, valutati dalla contribuente come costi di pubblicità, per poco più di Euro 230.000, ritenendoli invece spese di rappresentanza, e come tali parzialmente deducibili in cinque anni.

Secondo il giudice d’appello, anche considerando che i costi in parola “siano costituiti da generi di ristoro offerti ai clienti provenienti da tutto il mondo, quali spese inerenti all’attività di impresa, questo non esclude che le spese stesse si sostanzino sotto il profilo della valorizzazione dell’immagine della società nel suo insieme, e non con riguardo alla pubblicità come si vuole sostenere, indirizzando un messaggio positivo… ai soggetti con i quali si è inteso stabilire o consolidare un rapporto commerciale. In mancanza, quindi, di una specifica dimostrazione, che consenta di distinguere in concreto le spese sostenute dalla società contribuente secondo la tipologia enunciata dalla Società medesima con un effettivo collegamento all’attività da cui sono derivati ricavi o altri proventi, dette spese non si possono che considerare dirette a dare, appunto, tale immagine positiva all’impresa, mettendone in evidenza la capacità economica ed il comportamento nei rapporti.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col primo motivo la società contribuente ravvisa nella sentenza impugnata contraddittorietà della motivazione in ordine al fatto controverso dell’esistenza di nesso tra spese sostenute per generi di ristoro offerti ai clienti e connessi oneri del personale addetto, e attività di vendita e di produzione dei ricavi, in quanto da una parte si riconoscerebbe “che la offerta dei generi era rivolta ai clienti, nell’ambito di un contenitore – show room – adibito a sede di vendita, con costi riconosciuti “inerenti” all’attività di impresa e dall’altra si qualificherebbero tali spese come spese di rappresentanza, svincolate dalla produzione di ricavi e unicamente dirette a dare una “immagine positiva all’impresa mettendone in evidenza la capacità economica ed il comportamento nei rapporti”.

Con il secondo motivo, denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 74 (nella vecchia numerazione), comma 2, tuir, perchè il giudice d’appello, in relazione a spese per generi di ristoro somministrati ai clienti di diversa provenienza da essa società ricorrente, che produce articoli di alta moda, nell’ambito del proprio showroom, riconosciuto dall’Ufficio quale punto fisso di vendita, in cui, per fatto non contestato, risulti acquisito (nell’anno accertato) il 73% degli ordinativi complessivi di vendita, per un controvalore di Euro 72 milioni, avrebbe qualificato tali spese come spese di rappresentanza, reputandole come unicamente “dirette a dare immagine positiva all’impresa mettendone in evidenza la capacità economica ed il comportamento nei rapporti”, assumendole con ciò come non correlate ad attività produttiva di ricavi ed indirizzate a soggetti privi di relazione commerciale con la società, anzichè quali spese di pubblicità e promozione inerenti e correlate, nell’ambito dell’attività di vendita svolta nello show room, alla produzione di ricavi.

Col terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 75, commi 1 e 5, del tuir in quanto il giudice d’appello ha escluso la integrale deducibilità nell’esercizio per i detti costi, ascrivendoli a spese di rappresentanza, deducibili solo parzialmente e su base pluriennale, reputandoli come svincolati da qualsiasi colleganza con la attività da cui derivano i ricavi.

Col quarto motivo, denunciando la violazione dei principi in tema di prova, di valutazione delle prove e del principio di non contestazione, si duole che in relazione alle dette spese per generi di ristoro il giudice d’appello abbia ritenuto non dimostrato “l’effettivo collegamento all’attività da cui sono derivati ricavi o altri proventi”, così negando la deducibilità integrale nell’esercizio dei costi stessi, e così ritenendo sussistere i presupposti per qualificarli come mere spese di rappresentanza, deducibili solo parzialmente nell’esercizio.

Con il quinto motivo, denunciando la violazione dell’art. 10, comma 3, dello statuto del contribuente, in rapporto anche al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 2 e al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8 censura la sentenza impugnata perchè, in una vertenza relativa all’esatta qualificazione giuridica da dare a spese, imputate dal contribuente al conto spese di pubblicità e riclassificate dall’ufficio quali spese di rappresentanza, oltre a confermare le pretese impositive, convalidi, anzichè disapplicarle, le sanzioni, vantate dall’ufficio, senza considerare le obiettive condizioni di incertezza sulla portata e l’ambito di applicazione delle norme vigenti in materia, vale a dire l’art. 74, coma 2, del tuir.

I primi quattro motivi, da esaminare congiuntamente in quanto strettamente legati, sono infondati.

Nel regime anteriore alla modifica recata al tuir del 1986 dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e di pubblicità va individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi, atteso che costituiscono spese di rappresentanza i costi sostenuti per accrescere il prestigio e l’immagine della società e per potenziarne le possibilità di sviluppo, senza dar luogo ad una aspettativa di incremento delle vendite, mentre sono spese di pubblicità o propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque al fine diretto di incrementare le vendite, o aventi come scopo preminente quello di informare i consumatori circa l’esistenza di beni e servizi prodotti dall’impresa, con l’evidenziazione e l’esaltazione delle loro caratteristiche e dell’idoneità a soddisfare i bisogni al fine di incrementare le vendite (Cass. n. 17602 del 2008, n. 16596 del 2015), “sicchè è necessaria una rigorosa verifica in fatto della effettiva finalità delle spese: nella specie, la S.C. ha escluso che tale verifica potesse considerarsi compiuta in presenza di una motivazione che apoditticamente collegava l’incremento del volume delle scommesse sulle corse dei cavalli con i costi sostenuti per catering, ricevimenti, ristorazione e pernottamenti all’interno di un ippodromo” (Cass. n. 16812 del 2014;), ed in altra occasione “ha escluso la qualificazione delle spese di rinfresco per l’inaugurazione di un centro commerciale quali spese pubblicitarie, non essendo provato quali prodotti o attività fossero pubblicizzati e quale fosse la diretta aspettativa di ritorno commerciale” (Cass. n. 3087 del 2016).

Nella specie è incontroverso in fatto, risultando tanto dall’avviso di accertamento, trascritto nel ricorso, che dalle deduzioni della ricorrente, che le spese erano state sostenute per i servizi di ristoro offerti gratuitamente ai clienti in visita allo showroom, che non poteva “essere considerato alla stregua di una manifestazione fieristica perchè i clienti vi accedono solo su appuntamento e quindi lo stesso può considerarsi piuttosto come un punto vendita effettivo”.

Non è perciò dato ravvisare nella sentenza impugnata i vizi ad essa addebitati: quanto al primo motivo, non sussistendo contrasto fra la “inerenza” all’attività dell’impresa delle spese di rappresentanza, e le conseguenze previste quanto alla misura e alle modalità di deduzione delle stesse; quanto al secondo motivo, perchè la sentenza impugnata non ha affatto escluso che le spese in discorso siano “correlate ad attività produttiva di ricavi” per la ragione appena esposta, e che siano “indirizzate a soggetti privi di relazione commerciale con la società”, in quanto il giudice d’appello si riferisce esplicitamente “ai clienti provenienti da tutto il mondo quanto al terzo ed al quarto motivo, perchè, come detto, il giudice d’appello non ha ritenuto le spese di rappresentanza “svincolati da qualsiasi colleganza con la attività da cui derivano i ricavi”, ma ha applicato ad esse il regime di deducibilità prescritto.

Il quinto motivo, concernente le sanzioni, è inammissibile, in quanto nel processo tributario, “improntato a criteri di speditezza e di concentrazione”, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56 impone la specifica riproposizione in appello, in modo chiaro ed univoco, sia pure “per relationem”, delle questioni non accolte dalla sentenza di primo grado, siano esse domande o eccezioni, sotto pena di definitiva rinuncia, sicchè non è sufficiente il generico richiamo del complessivo contenuto degli atti della precedente fase processuale: la volontà dell’appellato di riproporre le questioni assorbite, pur non occorrendo a tal fine alcuna impugnazione incidentale, deve essere espressa, a pena di decadenza, nell’atto di controdeduzioni da depositare nel termine previsto per la costituzione in giudizio, e non può essere manifestata in atti successivi, che esplicano una funzione meramente illustrativa (Cass. n. 26830 del 2014, n. 24267 del 2015).

Nel caso in esame la questione della non applicabilità delle sanzioni non era stata riproposto dall’appellata, vittoriosa in primo grado, come si evince dall’eccezione della controricorrente e dalla memoria della stessa ricorrente (“… la preclusione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56 opera solo relativamente alle questioni ed eccezioni non accolte nella sentenza della CTP, mentre nel caso specifico la questione non era stata rigettata, ma era rimasta assorbita nell’annullamento delle ripresa a tassazione di che trattasi”.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio vanno compensate fra le parti, in ragione del carattere della fattispecie e del quadro di riferimento del previgente regime delle spese di rappresentanza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Dichiara compensate fra le parti le spese del giudizio.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 29 dicembre 2016

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