Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27259 del 24/10/2019

Cassazione civile sez. VI, 24/10/2019, (ud. 16/05/2019, dep. 24/10/2019), n.27259

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20864-2018 proposto da:

P.V., P.E., P.L., tutti in

qualità di eredi testamentari della sig.ra P.M.,

elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la

CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentati e difesi dagli

avvocati D’ORTO ANTONIO, DELL’ACQUA VALENTINA;

– ricorrenti –

contro

P.A., PA.RO., in proprio e quali eredi del

rispettivo padre e coniuge P.D., elettivamente

domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE

di CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato MONTESANTO

COSTANTINO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 399/2018 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 27/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 16/05/2019 dal Consigliere Relatore Dott. TEDESCO

GIUSEPPE.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

In relazione alla successione testamentaria di D.L.A., deceduto senza prole l’11 ottobre 1992, lasciando i beni mobili e l’usufrutto sugli immobili al coniuge P.M. e la nuda proprietà degli stessi immobili al nipote P.A., la Corte d’appello di Salerno, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rigettava l’appello principale di P.M. (poi proseguito dagli eredi di lei P.V., P.L. e P.E.), inteso ad ottenere l’accoglimento dell’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie, mentre accoglieva l’appello incidentale, riconoscendo che P.A., e per lui i suoi eredi P.A., Pa.Ro. e P.D., erano titolari della metà delle somme giacenti su una gestione patrimoniale, già intestata a P.M. e al medesimo P.A. (cioè ai beneficiari delle disposizioni testamentarie).

La corte condivideva la valutazione del primo giudice in ordine all’impossibilità, in considerazione della mancata produzione dei titoli di provenienza, di operare la ricostruzione del patrimonio del de cuius e, di conseguenza, di verificare la sussistenza della lesione di legittima dedotta dal coniuge superstite.

Nello stesso tempo la corte rilevava che il consulente tecnico, nominato in primo grado, aveva comunque escluso la sussistenza della dedotta lesione.

In ordine all’appello incidentale, la corte ne rilevava la fondatezza in base al rilievo che la cointestataria aveva già ritirato la metà delle giacenze esistente sulla gestione patrimoniale, essendo quindi infondata l’opposizione, manifestata dalla stessa cointestataria alla banca, di operare la liquidazione della altra metà in favore del cointestatario.

Per la cassazione della sentenza P.V., P.L. e P.E. hanno proposto ricorso, affidato a due motivi.

P.A. e Pa.Ro., anche nella loro qualità di eredi di P.D., hanno resistito con controricorso.

Il primo motivo denuncia nullità della sentenza per motivazione apparente, assunta senza tenere conto delle critiche formulate con l’atto di appello contro la sentenza di primo grado (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

Il secondo motivo denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

La corte non avrebbe tenuto conto che “la presunta mancata indicazione della provenienza dell’atto indicato nel n. 9 non è veritiera, poichè la provenienza si desume dalla lettera “n” del rogito notarile P. dell’1.12.1996; lo stesso vale per gli immobili di cui al n. 10 e al n. 11 indicati nell’atto introduttivo”. La sentenza è poi censurata per avere la corte di merito recepito le conclusioni della consulenza tecnica, nonostante le molteplici critiche rivolte con i motivi di appello. La decisione è censurata inoltre in relazione alle somme giacenti sulla gestione patrimoniale.

Su proposta del relatore, che riteneva che il ricorso potesse essere rigettato per manifesta inammissibilità, con la conseguente possibilità di definizione nelle forme di cui all’art. 380-bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

In vista dell’adunanza i ricorrenti hanno depositato memoria.

Il primo motivo è infondato.

La lettura della motivazione consente di identificare le ragioni della decisione, che possono compendiarsi, da un lato, nel fatto che l’attrice non avesse dato prova degli elementi essenziali ai fini della ricostruzione dell’asse ereditaria, dall’altro, che la consulenza effettuata in primo grado aveva comunque escluso la sussistenza della lesione.

Secondo i ricorrenti la decisione sarebbe stata assunta senza considerare che nel giudizio erano stati indicati i beni inclusi nell’asse e la loro provenienza.

Ma è facile rilevare che, in questo modo, la ricorrente, non pone un problema di motivazione, ma di coerenza della decisione con gli elementi di prova, che non è attualmente denunciabile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 sotto il profilo del vizio motivazionale (Cass., S.U., n. 8053/2014; n. 27415/2018)

Si deve aggiungere che nessuna critica è formulata con il motivo in esame relativamente all’ulteriore considerazione della corte, sufficiente da sola a giustificare la decisione negativa sulla domanda di riduzione (Cass. n. 2108/2012), circa la insussistenza della lesione di legittima secondo la valutazione del consulente tecnico.

Il secondo motivo presenta più profili di inammissibilità.

Si lamenta la mancata considerazione di documenti, dei quali non si indica minimamente il contenuto, là dove colui in sede di legittimità “denunci l’omessa valutazione di prove documentali, per il principio di autosufficienza ha l’onere di trascrivere il testo integrale, o la parte significativa del documento nel ricorso per cassazione, al fine di consentire il vaglio di decisività” (Cass. n. 18506/2006; n. 21621/2007).

Il giudice d’appello non avrebbe poi considerato le critiche rivolte alla consulenza tecnica, pur essendo stati formulati al riguardo motivi di appello.

Si dimentica, però, che la mancata considerazione dei motivi d’appello non integra vizio di omesso esame di un fatto, ma semmai costituisce violazione denunciabile ai sensi dell’art. 112 c.p.c., attraverso il riferimento alla nullità della sentenza, che nella specie è mancato (Cass., S.U., 17931/2913; n. 10862/2018).

Ad ogni modo si deve osservare che non sussiste alcuna omissione, perchè la corte di merito ha assunto una posizione esplicita sul punto. Essa ha condiviso le conclusioni dell’esperto, ritenendo che non ci fossero ragioni per discostarsene.

La critica proposta col motivo in esame, pertanto, si risolve nella proporre alla corte di legittimità una diversa valutazione della consulenza tecnica, in assenza tuttavia di una specifica indicazione delle circostanze trascurate dall’elaborato peritale e la cui valutazione avrebbe giustificato una decisione diversa (Cass. n. 21632/2915).

Si richiama infatti la relazione di consulenza in modo generico, senza indicare e trascrivere i passaggi dai quali dovrebbe emergere il denunciato errore metodologico, in contrasto con il principio secondo cui “in tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, la parte che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione” (Cass. n. 16368/2014; n. 13845/2007).

Si rimprovera poi alla corte di non avere tenuto conto che i titoli esistenti sul conto cointestato fra P.M. e il nipote erano stati acquistati quando il coniuge era ancora in vita, in costanza del regime di comunione, essendo quindi la metà di quei titoli già di proprietà del coniuge superstite.

Il senso della censura non è immediatamente comprensibile.

Il riferimento al regime di comunione legale avrebbe avuto un senso qualora si fosse trattato di giacenze intestate al solo de cuius e il coniuge avesse inteso rivendicare la metà del saldo iure proprio, mentre nel caso in esame il conto, al momento della morte, era già cointestato in nome del coniuge e del nipote.

Non si comprende quindi come il mero riferimento al regime legale esistente fra il de cuius e il coniuge bastasse di per sè a privare di giustificazione la divisione per quote uguali fra i due intestatari avallata dalla corte d’appello. In verità, ai fini della rivendicazione di diritti sulla metà intestata a P.A., non era sufficiente il riferimento alla titolarità originaria delle somme utilizzate per l’acquisto dei titoli (a ciò sembrerebbe preludere il riferimento al regime legale fra la P. e il de cuius, ancora ripreso dai ricorrenti con la memoria), ma implicava la deduzione di fatti, e ancora prima la proposizione di domande, intese a privare di efficacia la intestazione congiunta delle somme e la presunzione di pari appartenenza su di essa fondata ex art. 1298 c.c., comma 2.

Infine, in quanto ai rilievi sull’errata valutazione dei mobili e dell’usufrutto, si richiama quanto sopra detto sulla inammissibilità in cassazione di censure che si risolvano nella proposta di una lettura delle prove diversa da quella data dai giudici di merito.

Il ricorso, pertanto, va rigettato, con addebito di spese.

Ci sono le condizioni per dare atto della sussistenza dei presupposti dell’obbligo del versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettaria nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; dichiara ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 16 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2019

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