Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27218 del 30/11/2020

Cassazione civile sez. II, 30/11/2020, (ud. 11/09/2020, dep. 30/11/2020), n.27218

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23696/2019 proposto da:

D.S., rappresentato e difeso dall’avvocato AMERIGA MARIA

PETRUCCI, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 16/2019 della CORTE D’APPELLO di POTENZA,

depositata il 15/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

11/09/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che la vicenda qui al vaglio può sintetizzarsi nei termini seguenti:

– il Tribunale di Potenza rigettò l’opposizione avanzata da D.S. avverso il diniego della protezione internazionale da parte della competente Commissione territoriale;

– la Corte d’appello di Potenza, con la sentenza di cui in epigrafe, rigettò l’impugnazione proposta dall’interessato, il quale, ora, ricorre avverso quest’ultima decisione svolgendo tre motivi;

ritenuto che il Ministero resiste con controricorso;

ritenuto, in estrema sintesi, che la Corte locale disattese l’impugnazione, negando la sussistenza del diritto di rifugio, alla protezione sussidiaria e a quella umanitaria, giudicando inattendibile la narrazione del richiedente (costui aveva dichiarato che il patrigno perseguitava lui e la madre perchè entrambi frequentavano la chiesa, di talchè, temendo di essere ucciso, aveva deciso di fuggire), anche tenuto conto del pieno diritto di libertà di culto riconosciuto in Costa d’Avorio, dove, peraltro, i cristiani costituiscono quota ben rilevante della popolazione e, inoltre, valutando, sulla base dei report riportati, la situazione generale del Paese tale da non potersi affermare essere preda di violenza diffusa e indiscriminata;

ritenuto che con le tre svolte censure il ricorrente si duole del mancato riconoscimento della chiesta protezione (diritto di rifugio, protezione sussidiaria e protezione umanitaria), assumendo non essere d’ostacolo la preclusione di cui dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5, poichè, a suo dire, era mancato un vero e proprio esame dei fatti posti a fondamento della domanda, assumendo che:

– non erano contestabili le violenze subite e la fuga resasi necessaria;

– sussisteva in Costa d’Avorio una situazione di violenza diffusa e incontrollabile;

– la Corte d’appello non aveva svolto un serio e approfondito accertamento, e si era avvalsa d’informazioni parziali e generiche, venendo meno al dovere di cooperare istruttoriamente (sul punto il ricorrente riferisce di un report proveniente da Amnesty International);

– ciò si era riverberato anche sul diritto alla protezione umanitaria, ingiustamente negato;

considerato che l’insieme censuratorio è inammissibile:

a) piuttosto palesemente le critiche sono rivolte al controllo motivazionale, in spregio al contenuto dell’art. 360 c.p.c., vigente n. 5, difatti, invece che porre in rilievo l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo o l’assenza di giustificazione argomentativa della decisione, con la stessa il ricorrente, contrappone al ragionato esame della Corte il proprio avverso convincimento;

b) sul piano della narrazione soggettiva, l’inattendibilità della stessa risulta sorretta da argomenti che non possono in alcun modo considerarsi mero simulacro;

c) quanto alla situazione del Paese la decisione ha preso in esame COI del luglio 2018, informazioni provenienti dal Ministero dell’Estero del dicembre 2018 (sito (OMISSIS)), escludendo ragionatamente la sussistenza di quella situazione di violenza diffusa e incontrollata evocata dal ricorrente, le quali hanno evidenziato la situazione di sottosviluppo e d’instabilità del Paese, diffusa, peraltro, purtroppo in molte regioni del mondo, ma non la situazione di particolare criticità dalla quale può conseguire il diritto alla protezione sussidiaria, nè il ricorrente adduce che al tempo della decisione il Tribunale abbia omesso di considerare ulteriori attendibili informazioni;

d) il Giudice del merito, quindi, ha deciso applicando il principio enunciato da questa Corte, la quale ha avuto modo di chiarire che ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria; il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Sez. 6, n. 18306, 08/07/2019, Rv. 654719);

e) quanto alla protezione umanitaria va osservato che, per un verso la sentenza ha negato credibilità alla narrazione e, per altro, ha escluso, come si è visto, sussistenza di una situazione di violenza incontrollata nel Paese; nè il richiedente ha avanzato ragioni di soggettiva vulnerabilità o un processo di significativo e pregnante inserimento in Italia, che, tuttavia, non potrebbe costituire “fattore esclusivo, bensì mera circostanza che può ricorrere in una situazione di vulnerabilità personale che merita di essere tutelata” (Cass. n. 4455/2018);

f) è appena il caso di soggiungere che le ipotizzate violazioni di legge, impropriamente evocate all’interno dello svolgimento delle censure, più prossime a una richiesta di libera revisione, che alla tipicità dello schema del ricorso per cassazione, presupporrebbero un accertamento fattuale diverso e, quindi, in definitiva, tutto il ricorso invoca un inammissibile riesame di merito;

considerato che il soccombente ricorrente deve essere condannato al rimborso delle spese in favore del costituito Ministero nella misura di cui in dispositivo, tenuto conto della qualità della causa, del suo valore e delle attività svolte;

considerato che il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) è applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto;

che di recente questa Corte a sezioni unite, dopo avere affermato la natura tributaria del debito gravante sulla parte in ordine al pagamento del cd. doppio contributo, ha, altresì chiarito che la competenza a provvedere sulla revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato in relazione al giudizio di cassazione spetta al giudice del rinvio ovvero – per le ipotesi di definizione del giudizio diverse dalla cassazione con rinvio (come in questo caso) – al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato; quest’ultimo, ricevuta copia della sentenza della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 388 c.p.c., è tenuto a valutare la sussistenza delle condizioni previste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, per la revoca dell’ammissione (S.U. n. 4315, 20/2/2020).

P.Q.M.

dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese legali in favore del Ministero controricorrente, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese anticipate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 11 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 novembre 2020

 

 

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