Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27211 del 16/12/2011

Cassazione civile sez. lav., 16/12/2011, (ud. 22/11/2011, dep. 16/12/2011), n.27211

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

F.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIUSEPPE

CERBARA 64, presso lo studio dell’avvocato CASTIELLO FRANCESCO, che

lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

BANCA CREDITO COOPERATIVO DON RIZZO S.C.A.R.L., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

MONTE ZEBIO 37, presso lo studio dell’avvocato FURITANO MARCELLO,

rappresentata e difesa dall’avvocato LOMEO GUIDO, giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 642/2008 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 27/05/2008 R.G.N. 2120/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/11/2011 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito l’Avvocato CASTIELLO FRANCESCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di Appello di Palermo, con sentenza del 27.5.2008, in riforma della decisione di primo grado, rigettava la domanda proposta da F.P. con il ricorso introduttivo, rilevando la fondatezza della doglianza della Banca riferita alla errata interpretazione della transazione del 13.6.2002 posta a fondamento della pretesa azionata dall’ex dipendente, accolta in primo grado dal Tribunale, che aveva ritenuto violato il “patto di netto” convenuto in apposita postilla e specificato in calce al negozio.

Rilevava la Corte territoriale che la detta postilla, secondo cui la Banca accettava di tenere indenne il F. da qualsiasi richiesta da parte del fisco per le ritenute fiscali non effettuate dalla stessa all’atto del pagamento della somma di L. 198.801.201, aveva l’univoco significato di manlevare il predetto da eventuali pretese dell’Erario per sanzioni ed interessi per l’omessa detrazione dell’imposta al momento del pagamento e non quello, ritenuto dal giudice di primo grado, di accollare alla Banca anche l’importo delle imposte. La transazione stipulata dalle parti li 13.6.2002 prevedeva che, a titolo transattivo e quale incentivo all’esodo, la B.C.C. Don Rizzo offriva al F. la somma di Euro 516.450,00 al lordo delle ritenute di legge, dalla quale andava detratta la somma di Euro 102.672,26, già corrisposta nel corso del giudizio e che, con il pagamento della somma lorda residua di Euro 413.768,64, il F. dichiarava di non avere altro a pretendere. La interpretazione della postilla come un “patto di netto” con riferimento ad Euro 102.672,26 (L. 198.801.201) era da ritenersi erronea, tenuto conto che era disancorata dal senso letterale delle parole usate, che non potevano che indicare che l’importo delle imposte andasse detratto dalla somma erogata e non calcolato oltre la stessa e che la interpretazione sostenuta dalla Banca era l’unica coerente con il complessivo regolamento negoziale e, segnatamente, con la pattuizione iniziale, con la quale le parti avevano convenuto il prezzo della transazione nella somma di Euro 516.450,00 al lordo, tutta, delle ritenute fiscali.

Avverso detta decisione propone ricorso per cassazione il F., affidando a tre motivi la impugnazione, illustrati anche con memoria integrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Resiste, con controricorso, la Banca.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il F. deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la sentenza impugnata erroneamente affermato che l’intenzione delle parti era quella di manlevare il dipendente dalla sola responsabilità per il ritardato adempimento fiscale, imputabile al sostituto d’imposta, corrispondente al costo delle sanzioni e degli interessi che l’erario avrebbe potuto chiedere al F..

Rileva che l’interpretazione dei contratti debba essere condotta secondo il principio del gradualismo e che l’interpretazione letterale delle due iniziali clausole contrattuali induca a ritenere che la volontà delle parti era quella di riconoscere il precedente pagamento di Euro 102.672,26 al netto di eventuali oneri fiscali, in quanto, se così non fosse stato, sarebbe stato sufficiente scrivere che la transazione si raggiungeva per l’importo lordo di Euro 516,450 e che la banca si sarebbe liberata della relativa obbligazione pagando quest’ultima somma lorda da cui detrarre l’importo già pagato, con l’effetto di sottoporre tutta la somma alla ritenuta fiscale e non, come era da intendere, invece, in base alle espressioni utilizzate, che la liberazione del datore da ogni altro onere economico sarebbe avvenuta con la corresponsione della sola somma lorda residua di Euro 413.784,64, che presuppone che la parte già corrisposta sia al netto di ritenute fiscali. Osserva che il criterio di interpretazione soggettiva privilegia il criterio letterale che impone al giudice di interpretare il contratto secondo la connessione logica delle parole e delle espressioni impiegate, senza necessità di ricorrere a criteri sussidiari, quando il testo si rivela chiaro e rilevatore della comune volontà delle parti e che correttamente il Tribunale, e non la Corte territoriale, aveva proceduto a detta interpretazione letterale e sistematica, che induceva a ritenere che l’espressione “da qualunque richiesta”, riferita nel testo contrattuale alla garanzia offerta dalla Banca, non poteva che essere ampia e non limitata alle sanzioni e agli interessi. La richiesta da parte del fisco per le ritenute non effettuate non poteva che riferirsi alle somme non versate a titolo di imposte. All’esito della parte argomentativa, il ricorrente formula quesito di diritto, domandando se la clausola inserita a penna nella transazione del 13.6.2002 vada interpretata come obbligo assunto dalla Banca di tenere indenne il F. dalla sola responsabilità per ritardato pagamento fiscale corrispondente al costo delle sanzioni ed interessi, oppure vada interpretata nel senso sopra indicato e se, con la transazione, le parti abbiano voluto costituire un patto di netto, facendo gravare l’onere economico delle eventuale tassazione – per imposte sanzioni ed interessi – esclusivamente sulla Banca e non sul F..

Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., comma 11, e dell’art. 1363 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere affermato la Corte territoriale che quella resa era l’unica interpretazione coerente con il complessivo regolamento negoziale e con la pattuizione iniziale, con cui si prevedeva, quale prezzo della transazione quello di Euro 516.450,00 al lordo tutta delle ritenute di legge. Evidenzia l’impossibilità di arrestarsi, nel processo interpretativo, ad una considerazione “atomistica” delle singole clausole, neppure quando la loro interpretazione possa essere compiuta senza incertezze sulla base del senso letterale delle parole, in quanto anche questo va riferito necessariamente all’intero testo delle dichiarazioni negoziali ed afferma che l’esame dell’atto debba essere complessivo e che la lettura delle clausole debba avvenire in maniera sistematica. Ed in forza dell’applicazione di tali regole ermeneutiche era pacifico che le parti avevano modificato con la transazione il titolo del pregresso pagamento, non volendo che la tassazione sulla parte di incentivo all’esodo già corrisposta gravasse sull’ex dirigente, che tale somma aveva già percepito.

Con il terzo motivo, il F. si duole della violazione e della falsa applicazione dell’art. 1367 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la Corte d’appello, con motivazione insufficiente e contraddittoria, dichiarato, nella sentenza impugnata, che una interpretazione diversa da quella resa avrebbe privato di significato, in violazione dell’art. 1367 c.c., la richiamata clausola negoziale.

Osserva al riguardo che il richiamo all’art. 1367 c.c., il quale dispone che, al cospetto di clausole che possano interpretarsi in più sensi, vada preferito il significato utile della dichiarazione, anzichè l’altro che priverebbe d’effetto la disposizione, rilevando che la stessa Corte territoriale non abbia escluso che la clausola sia suscettibile di differenti interpretazioni e che, quindi, i criteri ermeneutici della interpretazione soggettiva non rendevano intellegibile il significato della clausola.

Per il ricorrente, dalla lettura della sentenza emergerebbe una carenza obiettiva del criterio logico e le censure si fondano sulla violazione delle regole ermeneutiche e sulla impossibilità di comprendere l’iter logico seguito nella motivazione, che, a dire dello stesso, aveva sostenuto in modo non comprensibile che la diversa interpretazione resa dal F. e condivisa dal Tribunale rendeva priva di significato la clausola negoziale.

Il ricorso deve ritenersi infondato, in quanto, come si evince dalla stessa formulazione dei quesiti ex art. 366 bis c.p.c. che sintetizzano il contenuto dei rispettivi motivi, le doglianze si sostanziano tutte e si risolvono nella richiesta di affermare la prevalenza di una interpretazione della clausole negoziali proposta alternativamente a quella seguita dalla Corte territoriale e non indicano la reguta iuris violata e quella diversa ritenuta applicabile in riferimento allo specifico oggetto della controversia.

Al riguardo deve richiamarsi il principio più volte affermato da questa Corte, secondo cui l’interpretazione delle clausole negoziali costituisce accertamento di fatto riservato al giudice di merito e può essere sindacata in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale oppure per vizio di motivazione; in tal caso, il ricorrente ha l’onere di indicare specificamente il punto ed il modo in cui l’interpretazione si discosti dai canoni di ermeneutica o la motivazione relativa risulti obiettivamente carente o logicamente contraddittoria, non potendo, invece, limitarsi a contrapporre interpretazioni o argomentazioni alternative rispetto a quelle proposte dal giudice di merito (cfr., tra le altre, Cass. 17 giugno 2005 n. 13067; Cass. 23 agosto 2006 n. 18377; Cass. 4 aprile 2008 n. 8808).

Anche i quesiti che concludono l’esposizione del secondo motivo si presentano inammissibili, perchè con gli stessi si chiede ancora una volta di affermare che le parti abbiano con la transazione in esame voluto costituire un patto di netto e se l’interpretazione indicata, compiuta anche sulla base della valutazione dell’intero testo della dichiarazione e non alla stregua di una considerazione atomistica delle singole clausole, sia quella preferibile. Per di più, il motivo, per come enunciato, si presenta privo di autosufficienza, atteso che, quando con ricorso per cassazione sia contestata la qualificazione attribuita dal giudice di merito al contratto intercorso tra le parti, le relative censure, per essere esaminabili, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, debbono essere accompagnate dalla trascrizione delle clausole individuative dell’effettiva volontà delle parti (la cui ricerca, che integra un accertamento di fatto, è preliminare alla qualificazione del contratto), al fine di consentire, in sede di legittimità, la verifica dell’erronea applicazione della disciplina normativa (cfr.

Cass. 4 giugno 2010 n. 13587). E nella specie risulta riportato il contenuto della postilla aggiunta a penna e non anche quello delle altre clausole che il motivo di censura richiama ai fini di una interpretazione complessiva dell’atto.

Deve, infine, essere disatteso anche il terzo motivo, con cui si richiama l’art. 1367 c.c., per sostenere che l’applicazione del relativo criterio ermeneutico rende palese che la valutazione delle clausole negoziali secondo il criterio letterale non è tale da rendere intellegibile il significato del regolamento negoziale, così come sostenuto dalla Corte territoriale. Al riguardo deve osservarsi in primo luogo che non si indica specificamente, in dispregio del richiamato principio di autosufficienza, il contenuto della clausola della quale si sostiene la mancanza di intelligibilità e che, in ogni caso, in via generale, è corretto il procedimento interpretativo che privilegi la complessiva coerenza del regolamento negoziale verificabile attraverso la constatazione che l’interpretazione adottata sia l’unica che non privi di significato ciascuna clausola negoziale e, nello specifico, l’iniziale pattuizione concordata tra le parti, con cui si conveniva che il prezzo della transazione pari ad Euro 516.450,00 fosse tutta al lordo delle ritenute fiscali. Ciò, invero, non sottintende il ricorso al criterio ermeneutico integrativo e sussidiario di cui all’art. 1367 c.c., ma costituisce applicazione della regola secondo cui il testo contrattuale, nelle sue espressioni letterali, debba essere valutato alla stregua di un esame complessivo e contestuale di ciascuna delle clausole di cui si compone. L’interpretazione delle disposizioni contrattuali è riservata al giudice di merito, le cui valutazioni soggiacciono, in sede di legittimità, alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione coerente e logica; i suddetti canoni (artt. 1362 – 1371 cod. civ.) sono governati da un principio di gerarchia in forza del quale quelli strettamente interpretativi (artt. 1362 – 1365 cod. civ.) prevalgono su quelli interpretativi – integrativi (artt. 1366 – 1371 cod. civ.); conseguentemente, a fronte della ricostruzione della comune volontà delle parti attraverso l’applicazione delle norme strettamente interpretative ed in particolare dello strumento della connessione logica delle espressioni usate, è esclusa la concreta operatività, tra i canoni integrativi, del criterio della conservazione del contratto previsto dall’art. 1367 cod. civ. (cfr. Cass. 5 agosto 2005 n. 16549). E nella specie, deve ritenersi che, al di là di un richiamo nominalisticamente errato all’art. 1367 c.c., il giudice del merito non abbia fatto applicazione di tale ultima norma, che si riferisce al principio di conservazione dell’intero contratto, ma alla regola dell’armonizzazione del significato di ciascuna clausola con il contenuto delle altre, alla stregua di quanto previsto dall’art. 1363 c.c..

Alla luce delle svolte argomentazioni, deve pervenirsi al rigetto del ricorso, cui consegue, per il principio della soccombenza, la condanna del F. al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 40,00 per esborsi, Euro 2500,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 22 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2011

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA