Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27197 del 27/11/2020

Cassazione civile sez. II, 27/11/2020, (ud. 14/10/2020, dep. 27/11/2020), n.27197

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26944/2019 proposto da:

O.O., rappresentato e difeso dall’Avvocato VALERIA GERACE,

presso il cui studio a Roma, via Augusto Riboty 23, elettivamente

domicilia, per procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, rappresentato e difeso dall’Avvocatura

Generale dello Stato, presso i cui uffici a Roma, via dei Portoghesi

12, domicilia per legge;

– controricorrente –

avverso la SENTENZA n. 440/2019 della CORTE D’APPELLO DI ANCONA,

depositata il 29/3/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 14/10/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE

DONGIACOMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha respinto l’appello che O.O., nato in (OMISSIS), aveva proposto avverso l’ordinanza con la quale il tribunale aveva, a sua volta, rigettato la domanda di protezione internazionale da lui presentata.

O.O., con ricorso notificato il 5/9/2019, ha chiesto, per due motivi, la cassazione della sentenza.

Il ministero dell’interno ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione della Convenzione di Ginevra e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato.

1.2. In realtà, ha osservato il ricorrente, la Convenzione di Ginevra prevede che, ai fini della sussistenza del timore di atti di persecuzione, non v’è bisogno della frequenza o della ripetizione degli accadimenti essendo sufficiente anche un solo episodio che, per sua natura, rappresenti una violazione dei diritti umani fondamentali inderogabili.

1.3. Il giudice, del resto, ha aggiunto il ricorrente, ha il dovere di cooperare nell’accertamento dei fatti che possono condurre al riconoscimento allo straniero della protezione internazionale. La corte d’appello, quindi, non avendo messo in discussione la provenienza del ricorrente dalla Nigeria, avrebbe dovuto approfondire, pur ritenendo non credibile la storia di persecuzione personale narrata dal richiedente, la situazione generale del Paese. In Nigeria, in effetti, alla luce delle notizie reperibili dal rapporto di Amnesty International 2017-2018, esiste una situazione che mette a repentaglio la vita degli individui senza che lo Stato sia in grado di assicurare protezione ai suoi cittadini.

1.4. D’altra parte, ha aggiunto il ricorrente, il richiedente non ha saputo riferire di fatti che lo stesso ha vissuto in giovanissima età. Il giudizio sulla credibilità deve, infatti, tener conto anche del fatto che il minore ha una limitata conoscenza della situazione del suo Paese d’origine.

1.5. La corte d’appello, infine, ha concluso il ricorrente, non ha considerato che, a fronte dell’inadeguatezza delle condizioni di vita del richiedente nel suo Paese d’origine, il suo rimpatrio provocherebbe la violazione degli obblighi costituzionali ed internazionali dell’Italia, ponendo il richiedente in una situazione di estrema difficoltà economica e sociale, imponendogli, in sostanza, condizioni di vita del tutto inadeguate.

2.1. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione della Direttiva Europea 2004/83/CE del 2974/2004 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, in relazione all’onere della prova, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello non ha considerato che il richiedente aveva fatto, in linea con le sue possibilità, ogni ragionevole sforzo per provare i fatti dedotti, raccontando con dovizia di particolari la propria storia.

2.2. Il giudice, al contrario, non ha preso in considerazione la storia narrata dal richiedente e non ha compreso, nonostante le informazioni che su punto circolano sul web, che questi è stato vittima del cultismo che, in Nigeria, è molto diffuso.

3.1. I motivi, da trattare congiuntamente, sono infondati.

3.2. Il ricorrente, infatti, non si confronta con la sentenza che ha impugnato: la quale, a ben vedere, ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato sul rilievo che la narrazione svolta dal richiedente, incontestatamente esposta a p. 4, è risultata generica, contraddittoria e poco circostanziata.

In tema di protezione internazionale, in effetti, l’accertamento del giudice del merito deve avere, anzitutto, ad oggetto la credibilità soggettiva del richiedente il quale, infatti, ha l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati (cfr. Cass. n. 27503 del 2018).

Il richiedente, invero, è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, ed, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora lo stesso, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass. n. 8367 del 2020, in motiv.; Cass. n. 15794 del 2019; conf., Cass. n. 19197 del 2015).

La valutazione d’inattendibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente costituisce, peraltro, un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (Cass. n. 27503 del 2018) che, in quanto tale, può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e cioè per omesso esame di una o più di circostanze, dedotte in giudizio, la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dei fatti differente e, come tale, idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata (cfr. Cass. n. 3340 del 2019; Cass. n. 13578 del 2020).

3.3. Nel caso di specie, la corte d’appello, come detto, ha ritenuto che il racconto del ricorrente non fosse credibile.

Ora, a fronte di tale apprezzamento, del quale la corte ha esposto le ragioni in modo nient’affatto apparente o contraddittorio, il ricorrente non ha specificamente indicato i fatti, principali ovvero secondari, il cui esame, pur se dedotti in giudizio, sia stato del tutto omesso dal giudice di merito, nè, infine, la loro decisività ai fini di una diversa pronuncia a lui favorevole, limitandosi, piuttosto, a sollecitare una inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio.

Ed è, peraltro, noto che l’inattendibilità del racconto del richiedente, così come (oramai incontestabilmente) accertata dai giudici di merito, costituisce motivo sufficiente per negare il riconoscimento dello status di rifugiato senza che sia a tal fine necessario alcun approfondimento istruttorio officioso.

3.4. Nè possono sul punto rilevare le circostanze che, a dire del ricorrente, la corte d’appello, nello svolgimento del giudizio di credibilità del richiedente, avrebbe omesso di esaminare, vale a dire la giovane età dello stesso al momento dei fatti narrati e il suo effettivo livello culturale se non altro perchè, ad onta di quanto ritenuto dalle Sezioni Unite di questa Corte (n. 8053 del 2014), il ricorrente non ha adempiuto all’onere, previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, di indicare specificamente l’atto processuale in cui il richiedente aveva dedotto in giudizio i fatti storici, come sopra descritti, che la corte, benchè decisivi ed oggetto di discussione tra le parti nel corso del giudizio, avrebbe omesso di esaminare.

3.5. Il giudizio d’inattendibilità svolto dalla corte si sottrae, del resto, alle censure (sostanzialmente) svolte dal ricorrente sotto il profilo dell’omessa valutazione della dedotta corrispondenza tra l’allegato rischio per la vita o l’incolumità fisica del richiedente e la situazione socio-politica in cui, come attestato da fonti ufficiali, versa il Paese di provenienza.

E’, in effetti, senz’altro vero che, in tema di protezione internazionale e umanitaria, la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente non è affidata alla mera opinione del giudice ma è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi ma alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e, inoltre, tenendo conto “della situazione individuale e della circostanze personali del richiedente” (di cui all’art. 5, comma 3, lett. c, del D.Lgs. cit.), con riguardo alla sua condizione sociale e all’età, non potendo darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati quando si ritiene sussistente l’accadimento, sicchè è compito dell’autorità amministrativa e del giudice dell’impugnazione di decisioni negative della Commissione territoriale, svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorandosi dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, mediante l’esercizio di poteri-doveri d’indagine officiosi e l’acquisizione di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente, al fine di accertarne la situazione reale (cfr. Cass. n. 26921 del 2017).

Tale principio, tuttavia, non esclude affatto che, con particolare riguardo alla vicenda personale del richiedente, posta a fondamento della domanda di protezione, il giudice debba vagliare la credibilità delle dichiarazioni del ricorrente, ove non suffragate da prove, anche sul piano della loro tenuta logica.

Ed invero, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, al comma 5, stabilisce che “qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che:… c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone;… e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”.

Alla stregua del chiaro dato normativo, dunque, le dichiarazioni del richiedente ben possono essere suffragate da prove. Se così non è, viceversa, tali dichiarazioni sono sottoposte ad una verifica di credibilità (“… essi sono considerati veritieri…”).

Tale verifica comporta, oltre che un duplice controllo di coerenza (la coerenza intrinseca del racconto e quella estrinseca concernente le informazioni generali e specifiche di cui si dispone), anche un equiordinato controllo di plausibilità, sicchè il racconto deve essere per l’appunto accettabile, sul piano razionale, sia quanto a coerenza, sia quanto a plausibilità, e deve essere cioè attendibile e convincente, come dimostrato dall’uso della congiunzione “e” (“…coerenti e plausibili e non sono in contraddizione…”).

Tale giudizio di plausibilità, direttamente riferito alle dichiarazioni, si risolve, infine, nel complessivo scrutinio di attendibilità del richiedente previsto alla lett. e) della disposizione, da compiersi a mezzo dei “riscontri effettuati”, espressione da intendersi riferita non soltanto ad eventuali riscontri esterni, ove disponibili, ma anche alla verifica di logicità del racconto, per cui i riscontri non attengono soltanto al dato estrinseco delle “informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso”, ma anche all’intrinseca credibilità razionale della narrazione.

Il menzionato controllo di logicità, lungi dal presentarsi quale appesantimento della posizione del richiedente, è viceversa espressione del favore che l’ordinamento riserva alla domanda di protezione internazionale, la quale, come emerge dal principio poc’anzi richiamato, non è rigidamente governata dal principio dell’onere della prova, giacchè non soltanto il giudice, in determinati frangenti, ha il dovere di acquisire d’ufficio il necessario materiale probatorio, in particolare quello che concerne la situazione del paese di provenienza (si veda il comma 3 della richiamata disposizione), ma gli è consentito addirittura di ritenere provate circostanze che non lo sono affatto: e tuttavia, proprio perchè si tratta di ritenere provati fatti che non lo sono, occorre almeno che essi reggano ad un giudizio di controllo di logicità, senza di che non resterebbe al giudice, una volta operata la verifica di coerenza intrinseca ed estrinseca, che prendere supinamente atto della domanda proposta, accogliendola in ogni caso, per quanto strampalata possa apparire, per l’ovvia considerazione che il giudice, se è in condizione di stabilire quale sia la situazione complessiva in cui versa il Paese di provenienza non ha la benchè minima possibilità di accertare in concreto se la narrazione dei fatti riferita dal richiedente sia vera o inventata di sana pianta.

In definitiva, una volta che il giudice di merito abbia doverosamente effettuato il controllo di logicità del racconto del richiedente, la valutazione compiuta sul punto non è sindacabile in sede di legittimità sul piano della violazione di legge, ma solo nei limiti del sindacato motivazionale consentito dall’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, trovando applicazione il principio per cui, in materia di protezione internazionale, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, obbliga il giudice a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna ma anche – com’è accaduto nel caso di specie – ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda, che è sottratta al controllo di legittimità al di fuori dei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. n. 21142 del 2019, in motiv.; così anche Cass. n. 11925 del 2020, per cui, in materia di protezione internazionale, la valutazione di affidabilità del richiedente è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione che deve essere svolta alla luce dei criteri specifici, indicati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, oltre che di quelli generali di ordine presuntivo, idonei ad illuminare circa la veridicità delle dichiarazioni rese, per cui il giudice è tenuto a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda, i cui esiti in termini di inattendibilità costituiscono apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti dell’art. 360 c.p.c., n. 5).

La corte, infatti, ha ritenuto la narrazione dei fatti svolta dal richiedente costituisca “un racconto a dir poco stereotipato, generico, poco credibile” ed ha, quindi, correttamente escluso, in mancanza della necessaria plausibilità, ogni rilievo alla situazione socio-politica del suo Paese di provenienza.

Del resto, come questa Corte ha avuto modo di chiarire, i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato politico sono la condizione socio-politica e normativa del Paese di provenienza e la correlazione di questa con la specifica posizione del richiedente, senza che possa ricavarsi sillogisticamente la seconda dalla prima, rilevando, invece, la situazione persecutoria di chi (per l’appartenenza ad etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze o stili di vita) rischi verosimilmente specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità fisica o libertà personale (Cass. n. 26822 del 2007).

4.6. La protezione umanitaria, infine, è una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass. 5358 del 2019; Cass. n. 23604 del 2017). I seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, prima dell’intervento attuato con il D.L. n. 113 del 2018, erano accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili (Cass. n. 4455 del 2018).

4.2. Nel caso di specie, la corte d’appello ha rigettato la domanda di protezione umanitaria proposta dal ricorrente rilevando l’insussistenza di una situazione di personale vulnerabilità del richiedente.

Si tratta di un apprezzamento in fatto che, come detto, può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e cioè per omesso esame di una o più di circostanze decisive che, però, il ricorrente, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, non ha specificamente indicato.

5. I motivi articolati in ricorso si rivelano, quindi, del tutto infondati. Peraltro, poichè il giudice di merito ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità, senza che il ricorrente abbia offerto ragioni sufficienti per mutare tali orientamenti, il ricorso, a norma dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, è manifestamente inammissibile.

6. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

7. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte così provvede: dichiara l’inammissibilità del ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare al ministero dell’interno le spese di lite, che liquida in Euro. 2.100,00, oltre spese prenotate a debito; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 14 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2020

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