Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27175 del 16/12/2011

Cassazione civile sez. trib., 16/12/2011, (ud. 11/10/2011, dep. 16/12/2011), n.27175

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 2316/2008 proposto da:

B.M., elettivamente domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR,

presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato MALAGONI Angelo, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI MAROSTICA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 67/2006 della COMM. TRIB. REG. di VENEZIA,

depositata il 31/08/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/10/2011 dal Consigliere Dott. VINCENZO DIDOMENICO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

POLICASTRO Aldo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

B.M. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della CTR del Veneto depositata il 31/08/2007 che aveva, rigettando l’appello della medesima, confermato la sentenza della CTP di Vicenza che aveva rigettato il ricorso della contribuente avverso l’avviso di accertamento del Comune di Marostica per il recupero dell’ICI per l’anno 2000 per un terreno ritenuto edificabile anzichè agricolo quale dichiarato.

La ricorrente pone a fondamento del ricorso nove motivi (indicati quali capitoli) fondati sulla violazione di legge e vizio motivazionale, corredati da quesiti. Il Comune non ha resistito. La causa è stata rimessa alla decisione in pubblica udienza.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col primo motivo la contribuente deduce “nullità della sentenza per carenza de requisiti minimi” proponendo il seguente quesito che si trascrive testualmente: “la sentenza odiernamente opposta cade anch’essa nel difetto di carenza dei requisiti minimi eccepiti per la sentenza appellata, sì da essere viziata da nullità (violazione D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4 + art. 132 c.p.c., comma 4, art. 277 c.p.c., comma 1 + art. 118 disp. att. c.p.c. + art. 111 Cost. a seguito della Legge Cost. 23 novembre 1999, art. 2 che inserisce i principi del giusto processo dell’art. 111 Cost.) per assoluta carenza dei motivi e delle fonti di convincimento per rendere palese l’iter logico giuridico posto a fondamento della sentenza?” Il motivo è inammissibile in quanto il quesito fa astratto riferimento a disposizioni normative senza alcun preciso e concreto aggancio al caso concreto e ha la caratteristica dell’autoreferenzialità, in quanto contiene in sè la risposta.

Anche l’esame del motivo non consente la individuazione dei requisiti minimi della cui carenza si duole la ricorrente. Invero il motivo manca di autosufficienza circa la deduzione della “eccezione” il cui esame sarebbe stato pretermesso e le ragioni di appello, non trascritte nè indicate con precisione.

Col secondo motivo deduce “illegittimità della tassazione come area edificabile perchè soggetta a piano attuativo (violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 2 bis), corredandolo del seguente quesito (con eliminazione, per sobrietà espositiva, dei triplici punti interrogativi che li corredano): “la rigida applicazione della L. n. 211 del 200 in tema di norme d’interpretazione consente o meno che la semplice locuzione utilizzata dal legislatore” un’area è da considerarsi possa acquisire un significato così dirompente da provocare effetti negativi per i contribuenti? – sussiste l’incostituzionalità D.L. n. 223 del 2006, art. 36, comma 2 per violazione dell’art. 111 Cost. che presuppone una posizione di parità delle parti nel processo posto che l’Amministrazione Finanziaria ha avuto il privilegio di rivestire il doppio ruolo di legislatore e parte in causa in cui tuttavia ha sempre l’obbligo di essere imparziale ex art. 97 Cost. anch’esso violato? sussiste violazione dell’art. 53 Cost., atteso che l’ICI è un’imposta su un valore parametrato per le aree edificabili sul valore venale in comune commercio che si realizza solo nell’utilizzo patrimoniale del bene?” A ritenerli quesiti autonomi, gli ultimi due sono palesemente immotivati non essendovi alcuna illustrazione nel corpo del motivo.

Per quanto concerne il primo quesito le SS.UU. di questa Corte (n. 25506/06) hanno ritenuto che, a seguito dell’entrata in vigore del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 36, comma 2, convertito con modificazioni dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, che ha fornito l’interpretazione autentica del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, l’edificabilità di un’area, deve essere desunta dalla qualificazione ad essa attribuita nel piano regolatore generale adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione dello stesso da parte della Regione e dall’adozione di strumenti urbanistici attuativi; che l’inizio del procedimento di trasformazione urbanistica è infatti sufficiente a far lievitare il valore venale dell’immobile, senza che assumano alcun rilievo eventuali vicende successive incidenti sulla sua edificabilità, quali la mancata approvazione o la modificazione dello strumento urbanistico, in quanto la valutazione del bene deve essere compiuta in riferimento al momento del suo trasferimento, che costituisce il fatto imponibile, avente carattere istantaneo.

Nè sussiste la lamentata retroattività della norma di interpretazione autentica di cui al D.L. n. 203 del 2005 come convertito dalla L. n. 248 del 2005, e pertanto il dedotto contrasto con lo Statuto del contribuente, in quanto a parte il rilievo che lo Statuto non vieta le norme interpretative ma da un monito al legislatore di farne uso limitato ai casi eccezionali, deve comunque osservarsi che con la legge retroattiva si estende al passato una norma prima non esistente mentre con la legge interpretativa si rende certa una interpretazione già esistente ma controversa, e ciò sin dall’entrata in vigore della norma interpretata.

Deve comunque osservarsi che questa Corte (Cass. n. 8254/2009) ha già osservato che, in ordine all’eventuale contrasto con la L. n. 212 del 2000, “la norma di legge ordinaria che, in deroga alla L. n. 212 del 2000, art. 3, comma 2, e successivamente alla L. n. 212 stessa, prescriva adempimenti anteriori a 60 giorni l’entrata in vigore della stessa legge (tale la L. n. 289 del 2002, art. 62, comma 1, lett. a), è pienamente efficace, nonostante il divieto di deroga implicita alle norme della L. n. 212, previsto dall’art. 1 della stessa legge, per la medesima forza delle due norme nel sistema delle fonti, e in nessun caso può essere disapplicata”.

Osserva ancora la Corte ” che le norme della L. n. 212 del 2000 (c.d.

Statuto del contribuente), che sono state emanate “in attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost.” e “costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario” (art. 1), oltre ad essere in alcuni casi idonee a prescrivere specifici obblighi a carico dell’amministrazione finanziaria (v., ad es., l’art. 7, in tema di motivazione degli atti impositivi), costituiscono altresì, in quanto espressione di principi già immanenti nell’ordinamento, criteri guida per il giudice, in sede di applicazione ed interpretazione delle norme tributarie (anche anteriormente vigenti), per risolvere eventuali dubbi ermeneutici (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 17576 del 2002, 7080 del 2004, 9407 del 2005). Tuttavia, le norme stesse non hanno, nella gerarchia delle fonti, rango superiore alla legge ordinaria (tant’è che ne è ammessa la modifica o la deroga, purchè espressa e non ad opera di leggi speciali: art. 1), con la conseguenza che una norma legislativa che si ponga in contrasto con esse, senza che ricorrano le dette condizioni, come non può, per ciò solo, essere oggetto di questione di legittimità costituzionale (non potendo le disposizioni dello Statuto fungere direttamente da norme parametro di costituzionalità: cfr., proprio con riferimento all’art. 3 cit., Corte cost., ord. n. 180 del 2007), così non può, ovviamente, essere suscettibile di disapplicazione. “Nel caso sottoposto alla Corte si esaminava il caso della norma di legge ordinaria che, in deroga alla L. 212 del 2000, art. 3, comma 2, e successivamente alla L. n. 212 stessa, prescriveva adempimenti anteriori a 60 giorni l’entrata in vigore della stessa legge (tale la L. n. 289 del 2002, art. 62, comma 1, lett. a).

Pur definendo la ricorrente acritica la tesi delle SS.UU. sopra indicata, la stessa non adduce alcuna ragione che possa porre in discussione il principio, di immediata percezione e di comune condivisione, che la qualifica di un’area quale edificabile fa immediatamente lievitare il valore,che è alla base sostanziale della pronunzia.

Il motivo è, pertanto, in parte inammissibile e in parte infondato.

Con il terzo motivo deduce “decisione extra petitum (violazione dell’art. 112 c.p.c.) rispetto all’eccepito . . corredato del seguente quesito: “per quanto esposto ai punti a)+ b)sono state violate le norme di cui in rubrica?” Il motivo è inammissibile per inammissibilità del quesito. Questa Corte (Cass. n. 7197/2009) ha affermato che “il quesito di diritto deve essere formulato, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., in termini tali da costituire una sintesi logico-giuridica della questione, così da consentire al giudice di legittimità di enunciare una “regula iuris” suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Ne consegue che è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione sia del tutto inidonea ad assumere rilevanza ai fini della decisione del motivo e a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta controversia”), mentre, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione (Cass. 3441/2008, 2697/2008). Pertanto, la relativa censura (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) “deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), costituente una parte del motivo che si presenti, a ciò specificamente e riassuntivamente destinata, che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità”.

Col quarto motivo deduce omessa considerazione/valutazione della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà resa dal titolare dell’azienda agricola, B.I., circa l’uso agricolo del fondo.

Il motivo è palesemente infondato in quanto alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà non può attribuirsi l’invocata efficacia di prova della verità del contenuto della dichiarazione.

Se trattasi di una dichiarazione di parte, nel nostro ordinamento giuridico, essa ha valore di prova solo ove contenga affermazioni contrarie alla parte (confessione) non essendo invece ammesse altre forme (quali dichiarazioni giurate) con le quali la parte intendesse ottenere esiti probatori favorevoli. La normativa amministrativa in tema di dichiarazioni sostitutive ha la funzione di velocizzare l’attività amministrativa, esimendo la parte dal produrre un originale documento o una certificazione pubblica, ma sempre con riserva di produzione all’esito del procedimento o di accertamento d’ufficio, senza con ciò influire sull’efficacia probatoria della dichiarazione di parte. Questa corte, in caso analogo, ha osservato che “pur dovendosi infatti riconoscere che l’atto notorio prodotto dalla contribuente a riprova della propria asserita attività “artigianale” – formato, tra l’altro, dopo l’instaurazione della causa – non poteva assumere dignità di prova – a fronte di una differente certificazione amministrativa (in quanto la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore, ai fini dell’osservanza dell’onere di cui all’art. 2697 c.c. da proprie dichiarazioni non asseverate da terzi: Cass. 5321/2006;26937/2006)”.

Continua ancora la Corte che la dichiarazione di notorietà prodotta dal contribuente può dunque costituire indizio valutabile in relazione agli altri elementi acquisiti soprattutto in caso di non contestazione da parte dell’Ufficio.

Nel caso in esame in cui si tratta di dichiarazione di un terzo (tale B.I., titolare dell’azienda agricola, di cui la ricorrente dichiara di essere collaboratrice familiare) la contribuente non può invocare una sovra ordinazione probatoria di tale dichiarazione alla certificazione Inps del 24/01/2005, soggette entrambe alla valutazione del giudice con giudizio di fatto insindacabile in cassazione se non per vizio motivazionale, censura in questa sede non proposta.

Orbene nel caso in esame la CTR ha effettuato una valutazione completa di tutti gli elementi acquisiti, mentre il motivo e i quesiti deducono violazione di legge in ordine al valore probatorio di tali documenti e non un vizio motivazionale ex art. 360 c.p.c., n. 5.

Col quinto motivo deduce” (violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 2 bis), per avere il giudice negato la continuazione.

Il motivo è del tutto non autosufficiente non trascrivendo o riportando con sufficiente determinazione i provvedimenti impugnati nelle parti in cui applicavano le sanzioni.

Col sesto motivo deduce omessa motivazione sulla disapplicazione delle sanzioni corredato dei seguenti quesiti: “per l’omessa motivazione viola il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 3 + art. 132 c.p.c., comma 4, art. 277 c.p.c.? – è legittima la disapplicazione della sanzione ex art.6 D.Lgs. n. 472 del 1997, ex art. 6?”.

I quesiti sono inammissibili per il mancato aggancio alla fattispecie concreta; il motivo si appalesa nuovo, risultando dal contesto della sentenza e comunque non essendo il ricorso autosufficiente sul punto, che l’unica doglianza sulle sanzioni era quella della continuazione e non della inapplicabilità delle sanzioni.

Col settimo motivo deduce la illegittimità della proroga del potere accertativo del Comune assumendo che il termine di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, era perentorio e non poteva essere prorogato dopo la scadenza in quanto le leggi di proroga e, in particolare, la L. n. 350 del 2003 e la L. n. 311 del 2004, erano entrate in vigore il 1/01/2004 e 1/01/2005, comunque dopo la scadenza del termine di accertamento al 31/12/2003, in applicazione dei principi della L. 212 del 2000 art 3 che prevede la irretroattività della leggi finanziarie.

Il motivo è infondato.

La l. n. 350 del 2003, art. 2, comma 33, prevede. “In deroga alle disposizioni della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, comma 3, concernente l’efficacia temporale delle norme tributarie, i termini per la liquidazione e l’accertamento dell’imposta comunale sugli immobili, che scadono il 31 dicembre 2003, sono prorogati al 31 dicembre 2004, limitatamente alle annualità di imposta 1999 e successive”.

Analogamente la L. n. 331 del 2004, art. 1, comma 67, prevede: “In deroga alle disposizioni della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, comma 3, concernente l’efficacia temporale delle norme tributarie, i termini per l’accertamento dell’imposta comunale sugli immobili che scadono il 31 dicembre 2004 sono prorogati al 31 dicembre 2005, limitatamente alle annualità d’imposta 2000 e successive”.

Orbene il legislatore ha consapevolmente derogato alle disposizioni dello Statuto del contribuente con disposizione espressa come consentito dalla L. n. 212 del 2000, art. 1, comma 1.

Si richiama, in ogni caso, quanto sopra osservato in relazione al secondo motivo sulla inconfigurabilità di un vizio di legittimità costituzionale di una legge che collida con lo Statuto del contribuente.

Coll’ottavo motivo deduce la “omissione in iudicando sulla inefficacia del valore/mq accertato dal comune (violazione D.Lgs. n. 56 del 1992, art. 36, lett. A + art. 112 + art. 277 c.p.c., comma 1” proponendo il seguente quesito: l’omissione viola le norme citate in rubrica? Il quesito è inammissibile per la sua astrattezza; il motivo manca di autosufficienza non trascrivendo o indicando le parti rilevanti della perizia invocata.

Col nono motivo intestato “quantificazione superficie edificabile” propone il seguente quesito: “per quanto sopra esposto, sono violati il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4 + art. 132, comma 4, + art. 118 disp. att. cod. proc. civ. + art. 111 Cost. a seguito della Legge Cost. 23 novembre 1999, n. 2, che inserisce i principi del giusto processo nell’art. 111 Cost.?”.

Il motivo è inammissibile; la quantificazione è un giudizio di fatto e il superiori quesiti certo non contengono il momento di sintesi della questione(di fatto) controversa come richiesto da costante giurisprudenza di questa Corte sopra citata.

Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

Non si provvede sulle spese non essendosi il Comune difeso.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 11 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2011

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