Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27149 del 27/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 27/11/2020, (ud. 23/09/2020, dep. 27/11/2020), n.27149

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5816/14 R.G. proposto da:

HOTEL NATIONAL S.R.L., in persona del legale rappresentante,

rappresentata e difesa, giusta procura a margine del ricorso,

dall’avv. Blasi Sergio, con domicilio eletto presso il suo studio in

Roma, Viale delle Milizie, n. 38;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale

dell’Emilia Romagna n. 55/16/13 depositata in data 8 luglio 2013.

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 settembre

2020 dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. La società Hotel National s.r.l. proponeva appello avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Rimini pronunciata nell’ambito di giudizio concernente l’impugnazione di due avvisi di accertamento, con i quali, in applicazione della L. n. 724 del 1994, art. 30 recante la disciplina sulle cd. società non operative, era stato determinato un reddito minimo imponibile ai fini IRES per gli anni 2006 e 2007, nonchè un valore della produzione minimo ai fini IRAP per l’anno 2007.

2. La Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna confermava la sentenza impugnata. Disattendeva, in particolare, l’eccezione di nullità degli avvisi di accertamento per violazione delle garanzie procedimentali di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, commi 4 e 5, ritenendo che le stesse, non essendo specificamente richiamate dalla L. n. 724 del 1994, non fossero suscettibili di applicazione analogica e che in ogni caso il diritto di difesa della contribuente avesse trovato ampia tutela in ragione dell’invio del questionario e del contraddittorio instauratosi prima della emissione degli atti impositivi. Riteneva, invece, non sussistenti valide ragioni oggettive esimenti dall’applicazione della disciplina delle società di comodo, non avendo la contribuente offerto prova idonea a dimostrare l’impossibilità di raggiungere l’operatività e di conseguire il reddito minimo.

3. Ricorre per la cassazione della suddetta decisione la società contribuente, affidandosi a tre motivi.

L’Agenzia delle entrate resiste mediante controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, commi 4 e 5, in quanto la decisione impugnata avrebbe erroneamente rigettato l’eccezione di nullità degli atti impositivi emessi in assenza delle garanzie procedimentali previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, commi 4 e 5, sollevata con l’atto di appello.

Richiamando la circolare n. 5/E/2007 dell’Agenzia delle entrate sostiene che la normativa in materia di società di comodo risulta inquadrabile tra le disposizioni tributarie a carattere antielusivo, posto che la L. n. 724 del 1994, art. 30 prevede la possibilità per il contribuente di presentare istanza di interpello D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 37-bis, comma 8, e che, in sede di accertamento, devono trovare applicazione le particolari garanzie procedimentali previste dal medesimo art. 37-bis.

1.1. La censura è infondata.

1.2. La L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4-bis consente, alle società che chiedono la disapplicazione della disciplina dettata per le cd. società di comodo, di formulare istanza di interpello, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 8, ma non richiama espressamente anche le disposizioni di cui al citato art. 37-bis, commi 4 e 5.

1.3. La disposizione della L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4, secondo cui l’accertamento induttivo del reddito delle cd. società di comodo deve essere effettuato, a pena di nullità, previa richiesta al contribuente, anche per lettera raccomandata, di chiarimenti, è stata implicitamente abrogata dal D.L. n. 223 del 2006, art. 35, comma 15, in vigore dal 4 luglio 2006, che si applica, secondo le disposizioni del successivo comma 16 dello stesso articolo, “a decorrere dal periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto”, ossia in relazione agli atti impositivi che riguardano i periodi di imposta dal 2006 in poi e, quindi, anche agli avvisi di accertamento per cui è giudizio.

1.4. Detto questo, nella fattispecie che ci occupa, deve comunque escludersi la denunciata violazione del diritto di difesa della contribuente, essendosi la fase amministrativa svolta nel pieno rispetto del contraddittorio; risulta, infatti, pacifico, sulla base di quanto emerge dalla sentenza impugnata e dalla narrativa dello stesso ricorso per cassazione, che, prima dell’emissione degli avvisi di accertamento, all’esito della notifica del provvedimento di rigetto dell’interpello disapplicativo, la società contribuente, in risposta al questionario inviato dall’Amministrazione finanziaria al fine di verificare l’operatività o meno della società, ha depositato documentazione contabile relativa agli anni oggetto di contestazione e, a seguito di instaurazione di contraddittorio, si è riservata di fornire ulteriori chiarimenti in merito alle cause determinative del mancato superamento del test di operatività, che non ha tuttavia mai comunicato.

Quanto appena detto risulta sufficiente a far ritenere insussistente la paventata violazione delle garanzie procedimentali richiamate, considerato che la sanzione dell’invalidità dell’atto impositivo – anche laddove non espressamente prevista, ma soprattutto in presenza di una nullità testuale – deriva dalla difformità dell’atto dal modello legale (Cass., sez. 5, 11/1172015, n. 23050).

2. Con il secondo motivo la ricorrente censura la sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, e lamenta che la motivazione della decisione sul punto del rigetto della domanda di annullamento degli atti impositivi per difetto dei presupposti è di fatto inesistente, essendo la pronuncia incentrata tutta sul rilievo che le presunzioni legali contenute nella disciplina legislativa non sarebbero contrarie alla legge.

2.1. Anche tale motivo è infondato.

2.2. Va ribadito che il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in violazione di un preciso obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111 Cost., comma 6), e cioè dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, (in materia di processo civile ordinario) e dell’omologo D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, (in materia di processo tributario), omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata; infatti, il giudice ha l’obbligo “di specificare le ragioni del suo convincimento” e l’omissione di qualsiasi motivazione in fatto e in diritto costituisce una violazione di legge di particolare gravità, dovendo considerarsi come non esistenti le decisioni di carattere giurisdizionale prive di motivazione (in termini, Cass., sez. 5, 3/02/2017, n. 2876; v. anche Cass., Sez. U., 5/08/2016, n. 16599; Cass., Sez. U, 3/11/2016, n. 22232; Cass., Sez. U, 24/03/2017, n. 7667).

2.3. La sanzione di nullità colpisce dunque non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass., Sez. U, 7/04/2014, n. 8053), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perchè dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato” (cfr. Cass., sez. 3, 25/02/2014, n. 4448), venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi” (Cass., Sez. U, 3/11/2016, n. 22232).

Come questa Corte ha più volte affermato, la motivazione è solo apparente – e la sentenza è nulla perchè affetta da error in procedendo -quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., Sez. U, n. 22232 del 2016 cit.; conf. Cass., sez. 6-5, 15/06/2017, n. 14927).

2.4. Nel caso in esame, la Commissione regionale ha ritenuto di rigettare l’appello e di confermare la sentenza di primo grado che aveva ritenuto motivata e giustificata la pretesa dell’Amministrazione, sul presupposto che la società contribuente non avesse dimostrato la sussistenza dei presupposti per la disapplicazione della normativa in materia di società di comodo; trattasi di motivazione che non può considerarsi apparente, in quanto esplicita le ragioni del decisum.

3. Con il terzo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 30 L. n. 724 del 1994, facendo rilevare che a sostegno della proprie affermazioni aveva allegato i bilanci degli anni 2002 e 2003 da cui emergeva l’avvenuto esercizio dell’attività economica ricompresa nell’oggetto sociale (ossia la gestione di una azienda alberghiera) direttamente fino al 2003 e successivamente attraverso la stipulazione di contratti di affitto dell’azienda, che pure aveva depositato, elementi di fatto costituenti di per sè prova dell’operatività dell’impresa; a fronte di tali specifiche deduzioni, le argomentazioni della Commissione regionale, ad avviso della ricorrente, si risolvono nella affermazione che la gestione da parte di una società di un contratto di affitto di azienda avente ad oggetto l’utilizzazione di beni sociali preordinati all’esercizio dell’attività economica prevista nell’oggetto sociale non costituisce esercizio dell’attività di impresa e non dimostra l’operatività della stessa.

In relazione al mancato raggiungimento della soglia di ricavi minimi stabiliti dalla norma, ribadisce che, avendo affittato l’unica azienda, non poteva che conseguire, nel periodo oggetto di accertamento, un ammontare di ricavi corrispondente all’importo dei canoni risultanti dallo stesso contratto di affitto stipulato in data 13 maggio 2003; neppure poteva opporsi che i canoni non fossero in linea con quelli di mercato perchè, nel caso dell’affitto di azienda, a differenza che nell’ipotesi di affitto di un immobile, non esistono riferimenti di mercato.

3.1. La censura è infondata e va rigettata.

3.2. La L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 30, a seguito delle modifiche apportate dal D.L. n. 223 del 2006, art. 35, comma 15, (convertito in L. n. 248 del 2006), per i periodi d’imposta in contestazione (2006 e 2007) (come stabilito dal successivo comma 16), è il seguente: ” 1. Agli effetti del presente articolo le società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata, in nome collettivo e in accomandita semplice, nonchè le società e gli enti di ogni tipo non residenti, con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, si considerano, salvo prova contraria, non operativi se l’ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico, ove prescritto, è inferiore alla somma degli importi che risultano applicando le seguenti percentuali: a) il 2 per cento al valore dei beni indicati nel testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 91, art. 85, comma 1, lett. c), del, anche se costituiscono immobilizzazioni finanziarie, aumentato del valore dei crediti; b) il 6 per cento al valore delle immobilizzazioni costituite da beni immobili e da beni indicati nel D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 8-bis, comma 1, lett. a), e successive modificazioni, anche in locazione finanziaria; c) il 15 per cento al valore delle altre immobilizzazioni, anche in locazione finanziaria. Le disposizioni del primo periodo non si applicano: 1) ai soggetti ai quali, per la particolare attività svolta, è fatto obbligo di costituirsi sotto forma di società di capitali; 2) ai soggetti che si trovano nel primo periodo di imposta; 3) alle società in amministrazione controllata o straordinaria; 4) alle società ed enti i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati italiani; 5) alle società esercenti pubblici servizi di trasporto; 6) alle società con un numero di soci non inferiore a 100.

2. Ai fini dell’applicazione del comma 1, i ricavi e i proventi nonchè i valori dei beni e delle immobilizzazioni vanno assunti in base alle risultanze medie dell’esercizio e dei due precedenti (…).

3. Fermo l’ordinario potere di accertamento, ai fini dell’imposta personale sul reddito per le società e per gli enti non operativi indicati nel comma 1 si presume che il reddito del periodo di imposta non sia inferiore all’ammontare della somma degli importi derivanti dall’applicazione, ai valori dei beni posseduti nell’esercizio, delle seguenti percentuali: a) l’1,50 per cento sul valore dei beni indicati nella lettera a) del comma 1; b) il 4,75 per cento sul valore delle immobilizzazioni costituite da beni immobili e da beni indicati nel D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 8-bis, comma 1, lett. a), e successive modificazioni, anche in locazione finanziaria; c) il 12 per cento sul valore complessivo delle altre immobilizzazioni anche in locazione finanziaria. Le perdite di esercizi precedenti possono essere computate soltanto in diminuzione della parte di reddito eccedente quello minimo di cui al presente comma …”.

3.3. A norma del comma 4-bis della medesima disposizione, in presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi, nonchè del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’I.V.A. di cui al comma 4, la società può chiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 8.

3.4. Questa Corte ha chiarito come “in materia di società di comodo, i parametri previsti dalla L. n. 724 del 1994, art. 30, nel testo risultante dalle modifiche apportate dal D.L. n. 223 del 2006, art. 35 del, convertito nella L. n. 248 del 2006, sono fondati sulla correlazione tra il valore di determinati beni patrimoniali ed un livello minimo di ricavi e proventi, il cui mancato raggiungimento costituisce elemento sintomatico della natura non operativa della società, spettando, poi, al contribuente fornire la prova contraria e dimostrare l’esistenza di situazioni oggettive (e straordinarie), specifiche ed indipendenti dalla sua volontà, che abbiano impedito il raggiungimento della soglia di operatività e di reddito minimo presunto” (Cass., sez. 5, 21/10/2015, n. 21358).

E’ stato, quindi, escluso che la normativa possa dare adito a dubbi di legittimità costituzionale per il fatto che si applica al periodo d’imposta in corso alla data della sua entrata in vigore, sottolineando, con motivazione del tutto condivisibile, che se è vero che la stessa si limita a prevedere un meccanismo di determinazione del reddito basato su presunzioni, queste sono comunque superabili con prova contraria, laddove il contribuente riesca a dimostrare la presenza di oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi e del reddito minimo presunto (Cass., sez. 5, 21/10/2015, n. 21358).

Si è, altresì, precisato che la nozione di “impossibilità” di cui alla disposizione in esame va intesa non in termini assoluti quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni del mercato (Cass., sez. 5, 28/02/2017, n. 5080; Cass., sez. 5, 20/06/2018, n. 16204; Cass., sez. 6-5, 12/02/2019, n. 4019), sicchè non si tratta di prova che non può mai essere fornita.

3.5. Alla stregua di tali criteri il giudice di merito ha, nella specie, ritenuto che la contribuente, sulla quale gravava il relativo onere, non abbia offerto la prova contraria prescritta. La Commissione regionale ha, sul punto, rilevato che le prove documentali offerte dalla società (ossia i bilanci depositati), che, secondo l’assunto difensivo della contribuente, avrebbero dovuto dimostrare la presenza di “atti economici propri di una attività economica” e “di beni non serventi rispetto al godimento dei soci”, non sono di per sè sufficienti a vincere la presunzione di legge, in quanto la contribuente si è limitata a dedurre l’esistenza di un contratto di affitto di azienda quale causa giustificativa del mancato conseguimento dell’operatività e del reddito minimo.

Le argomentazioni poste dai giudici di appello a fondamento del loro convincimento non contrastano con il dettato della norma e sono in linea con l’orientamento giurisprudenziale univoco di questa Corte. Infatti, l’unica operazione attiva dedotta dalla contribuente – ossia l’affitto di azienda avente ad oggetto la gestione dell’albergo – non costituisce da sola elemento idoneo a comprovare l’operatività della società, non potendosi escludere che l’operazione negoziale sia stata posta in essere con la mera finalità di tenere separata la proprietà del patrimonio immobiliare dal soggetto giuridico che effettivamente esercitava l’attività alberghiera, essendo incontestato, in fatto, che la ricorrente ha concesso in affitto l’azienda alberghiera di sua proprietà ad altra società (la Meeting & Resort s.r.l.) avente la medesima compagine societaria.

3.6. In proposito, la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 5/E/2007 invocata dalla ricorrente, nell’indicare a titolo esemplificativo alcune situazioni oggettive che possono rendere impossibile il conseguimento di ricavi minimi o del reddito minimo presunto, ha chiarito che è consentito alle società immobiliari o anche a società non immobiliari, in relazione agli immobili dalle stesse possedute, chiedere la disapplicazione della disciplina delle società di comodo qualora dimostrino: a) l’impossibilità di praticare canoni di locazione sufficienti per superare il “test di operatività” ovvero per conseguire un reddito effettivo superiore a quello minimo presunto; b) l’impossibilità di modificare i contratti di locazione in corso.

La circolare dell’Agenzia delle entrate n. 44/E del 9 luglio 2007, fornendo ulteriori chiarimenti, ha inoltre escluso che possa essere concessa la disapplicazione, nel caso di coincidenza tra le compagini sociali delle due società coinvolte nel contratto di locazione, non essendo in tal caso ravvisabile una oggettiva impossibilità di modificare il medesimo contratto.

3.7. Ebbene, nella fattispecie in esame i giudici regionali, richiamando espressamente le cause esimenti menzionate nella circolare n. 5/E/2007, hanno sottolineato che la ricorrente, nonostante la modificabilità del contratto di affitto di azienda, avente durata annuale, e la presenza di una medesima compagine societaria (i fratelli Grossi risultavano unici soci sia della società affittante che della affittuaria), non ha fornito prova dell’esistenza di situazioni oggettive ostative al conseguimento del reddito minimo presunto, poichè non ha offerto riscontri circa la congruità del canone praticato alle condizioni di mercato, da determinarsi ai sensi dell’art. 9 TUIR, nè tanto meno ha allegato l’impossibilità di affittare a prezzi di mercato.

L’apprezzamento di fatto svolto dai giudici di merito – non sindacabile in sede di legittimità – non può essere rimesso in discussione mediante la mera riproposizione delle medesime circostanze fattuali già sottoposte al vaglio dei giudici di appello e, quindi, tramite la denuncia di un vizio di violazione di legge che in realtà è volto a sollecitare una nuova valutazione del merito della controversia, precluso a questa Corte.

4. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono i criteri della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2020

 

 

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