Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27142 del 04/12/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 27142 Anno 2013
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: ARIENZO ROSA

SENTENZA

sul ricorso 20665-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio
dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013

contro

3052

CIMINI ANNA C.F. CMNNNA62S48A488C,

elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo
studio

dell’avvocato

VACIRCA

SERGIO,

che

la

Data pubblicazione: 04/12/2013

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI
CLAUDIO, giusta delega in atti;
– controri corrente –

avverso la sentenza n. 963/2007 della CORTE D’APPELLO
(51) OgA ‘AQUILA, depositata il 22/08/2007 R.G.N.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 24/10/2013 dal Consigliere Dott. ROSA
ARIENZO;
udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega PESSI
ROBERTO;
udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA
rigetto del ricorso.

)

che ha concluso per il

157/2006;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 22.8.2007, la Corte di Appello dett’Aquila i in accoglimento del gravame
proposto da Cimini Anna avverso la decisione resa dal Tribunale di Teramo, che aveva
rigettato il ricorso della predetta, inteso ad ottenere la declaratoria di nullità del termine
apposto al contratto stipulato per il periodo dall’8.6 al 30.10.1999 per esigenze eccezionali
ex art. 8 c.c.n.l. del 1994 come integrato dall’accordo del 25.9.1997, e l’accertamento della

ordine alla società di riammissione al lavoro della Cimini con condanna delle Poste al
pagamento di tutte le retribuzioni maturate. Rilevava la Corte d’appello che doveva
ritenersi illegittimo il termine apposto al contratto stipulato dopo il termine del 30.4.1998 per “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione degli assetti
occupazionali…” con riferimento a quanto previsto dall’ad. 8 del c.c.n.l. 26.11.1994 – ed, in
particolare al contratto del 8.6.1999 e che dopo la data suindicata fosse venuta meno la
contrattazione autorizzatoria, non potendo attribuirsi ai successivi accordi intercorsi
valenza solo ricognitiva della persistenza delle ragioni giustificative del ricorso alla
stipulazione a termine. Alla stregua di tali considerazioni, accoglieva il ricorso nei sensi
suindicati e fissava la decorrenza del risarcimento a far data dal 25.2.2003 (tentativo
obbligatorio di conciliazione), disponendo la detrazione dell’aliunde perceptum dalla
somma dovuta a titolo risarcitorio.
Per la cassazione di tale pronunzia ricorre la società con quattro motivi, illustrati nella
memoria depositata ai sensi dell’ad. 378 c.p.c. Resiste, con controricorso, la Cimini, che
ugualmente deposita memoria illustrativa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la società ricorrente denunzia violazione e/o falsa applicazione degli
artt. 1362, 1363 e ss. c. c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione
circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’ art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., rilevando la
natura non negoziale ma meramente ricognitiva degli accordi successivi a quello del
25.9.1997 e la erroneità della tesi della limitata efficacia temporale dell’accordo del
25.9.1997, interpretato in violazione degli artt. 1362 e 1363 c. c. e senza considerare gli
accordi ulteriori, con limitazione al senso letterale delle disposizioni. Evidenzia il
permanere delle esigenze della ristrutturazione aziendale poste a fondamento della
stipula, rispetto alle quali anche gli accordi successivi si configuravano come mere prese
1

intercorrenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con

d’atto, richiamando in particolare il contenuto dell’accordo del 18.1.2001. Con quesito di
diritto, domanda se un accordo collettivo nazionale, pure in mancanza di una espressa
proiezione temporale ultrattiva, debba o meno interpretarsi, alla luce degli artt. 1367 e ss.
c. c. e, segnatamente, alla luce del comportamento successivo delle parti stipulanti, nel
senso di escludere l’apposizione di un termine finale e perciò nel senso di dare copertura
alle assunzioni a tempo determinato anche per periodi successivi al 30.4.1998.

c. c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso
e decisivo per il giudizio, ex art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. rilevando l’erroneità della decisione
in ordine alla eccezione di risoluzione per mutuo dissenso, in rapporto ad una inerzia del
lavoratore protrattasi in un arco temporale considerevole dopo la scadenza del rapporto a
tempo determinato ed all’accettazione da parte del predetto del TFR senza riserve.
Si duole, poi, con il terzo motivo, della violazione ed erronea applicazione dell’art. 2697 c.
c. ei degli artt. 421 e 437 c.p.c., nonché dell’omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione circa un fatto decisivo e controverso, ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.,
rispetto della clausola di contingentamento ed all’onere probatorio relativo, rilevando la
mancata considerazione dell’omessa adozione d’ufficio da parte del giudice del merito
degli atti istruttori idonei a superare incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione.
Infine, con il quarto motivo, la ricorrente ascrive alla decisione impugnata la violazione e la
falsa applicazione di norme di diritto, nonché vizio motivazionale con riguardo all’ onere
per il lavoratore di allegare e provare il danno equivalente alle retribuzioni perdute a causa
della mancata esecuzione delle prestazioni lavorative ed alla necessità di un’offerta delle
stesse seguita dall’ illegittimo rifiuto del datore di avvalersene.
Con il primo dei motivi, viene dedotto che l’art. 8 del ccnI del 1994, così come integrato
dall’accordo 25-9-97, subordina la sua applicazione unicamente all’esistenza di un
processo di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali dell’azienda e si
assume che l’interpretazione di tale accordo compiuta dalla Corte d0tAquila risulta viziata,
oltre che dall’erronea lettura dell’art. 23 della legge n. 56/1987, che ha condizionato,
viziandola irrimediabilmente, anche la successiva esegesi della disciplina contrattuale,
anche dall’autonoma e concorrente violazione delle regole ermeneutiche legali di cui agli
artt. 1362 e ss. c.c. ed, in particolare, del criterio letterale e del comportamento delle parti
posteriore alla stipulazione.
2

Con il secondo motivo, lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 comma1 e 2

Le censure non possono essere accolte.
In base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento
al sistema vigente anteriormente al d.lgs. n. 368 del 2001), sulla scia di Cass. S.U. 2-32006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23
della legge n. 56 del 1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine
rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di

idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite
della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a
quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di
individuare ipotesi specifiche di Collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di
riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare
contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad
assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006
n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta
di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari,
non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle
previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in
materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n.
21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).
In tale quadro, ove, però, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua
inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre
Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha più volte affermato, “in materia di assunzioni a
termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo
dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto
in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della
situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente
ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di
attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la
• legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del
presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione
degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962 n.
3

considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro

230” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608, Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass.
18378/2006 cit.).
Alla stregua di tale orientamento, ormai consolidato, deve, quindi, ritenersi illegittimo il
• termine apposto al contratto in esame per il solo fatto che lo stesso è stato stipulato dopo il
30 aprile 1998 ed è pertanto privo di presupposto normativo. Né a diverse conclusioni può
giungersi dall’esame dell’accordo del 18.1.2001, ovvero della disposizione di cui all’art. 25

Si ha riguardo ad un accordo — stipulato ad oltre due anni di distanza dall’ultima prorogache non potrebbe coprire mai il “vuoto” normativo creatosi nel periodo precedente, rendendo
legittimi comportamenti posti in essere in contrasto con norme imperative di legge. Ed in
ogni caso il nuovo accordo non potrebbe mai travolgere diritti già acquisiti nel patrimonio di
terzi nel periodo intermedio ( cfr. in termini Cass. n. 15331 del 7.8.2004).
Risulta, dunque, irrilevante il richiamo all’art. 25 del c.c.n.l. del 2001, sia perché esso si
riferisce chiaramente alle sole assunzioni da effettuare dopo l’entrata in vigore del nuovo
contratto, sia perché la possibilità di procedere ad assunzioni a termine “per esigenze di
carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione” è subordinata all’esito di
confronto con la controparte sindacale a livello nazionale ovvero a livello regionale, il che, a
ben vedere, conferma l’inesistenza di qualsiasi pregresso accordo generale per tale tipo di
assunzioni.
Con riguardo al secondo motivo, lo stesso va disatteso in virtù di considerazioni già
espresse da questa Corte, con le quali si è rilevato che “nel giudizio instaurato ai fini del
riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul
presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto,
affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario
che sia accertata — sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo
contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali
circostanze significative — una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo e che la valutazione del significato e della
portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui
conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori
di diritto” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n.
23554, Cass. 11-12-2001 n. 15621).
4

del c.c.n.l. del 2001, pure invocati dalle Poste a sostegno del proprio assunto.

Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevando, inoltre che, come pure è
stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo
consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e
certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 212-2002 n. 17070).
Nella specie la Corte d’Appello ha implicitamente e correttamente ritenuto che non vi era

acquiescenza alla risoluzione del rapporto e che il solo decorrere del tempo tra la
cessazione di quest’ultimo ed il tentativo di conciliazione non poteva essere in alcun modo
interpretato come volontà di accettazione della risoluzione per mutuo consenso.
Merita di essere disatteso anche il terzo motivo. La facoltà di apposizione del termine è,
invero, subordinata dall’art. 23 alla determinazione delle percentuali di lavoratori che
possono essere assunti con contratto a termine sul totale dei dipendenti; pertanto, non è
sufficiente l’indicazione del numero massimo di contratti a termine, occorrendo altresì, a
garanzia di trasparenza ed a pena di invalidità dell’apposizione del termine nei contratti
stipulati in base all’ipotesi individuata ex art. 23 citato, l’indicazione del numero dei
lavoratori assunti a tempo indeterminato, sì da potersi verificare il rapporto percentuale tra
lavoratori stabili e a termine. L’onere della prova dell’osservanza di detto rapporto è a
carico del datore di lavoro, in base alle regole di cui all’art. 3 della legge 18 aprile 1962, n.
230, secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle
condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro (cfr. Cass.
19.1.2010 n. 839).
Quanto al rilievo formulato nel quarto motivo di impugnazione, relativo alla mora accipiendi,
vale osservare che la relativa prospettazione non è idonea a consentirne l’esame, in quanto,
pur evidenziandosi l’idoneità della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione a
configurare valido atto di messa in mora, non se ne riporta il contenuto, al fine di consentire
alla Corte di valutare la fondatezza della censura. Deve, quindi, dichiararsene
l’inammissibilità.
Infine, osserva il Collegio che, con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la società
ricorrente, invoca, in via subordinata, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato
dall’art. 32, commi 5 0 , 6° e 7° della legge 4 novembre 2010 n. 183, in vigore dal 24
novembre 2010.
5

stato alcun comportamento del lavoratore che potesse far presumere una sua

Orbene, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter
applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia
retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in
qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione
della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di
ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070). Tale condizione

determinazione del risarcimento, il che preclude ogni esame della questione.
Il ricorso va, in conclusione, complessivamente respinto e le spese del presente giudizio,
per il principio della soccombenza, cedono a carico della società ricorrente nella misura
indicata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società al pagamento delle spese del presente
giudizio, liquidate in euro 100,00 per esborsi ed in euro 3500,00 per compensi
professionali, oltre accessori come per legge
Così deciso in ROMA, il 24.10.2013

non sussiste nella fattispecie, poiché nessun motivo vede specificamente sulla

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