Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2714 del 04/02/2011

Cassazione civile sez. trib., 04/02/2011, (ud. 11/11/2010, dep. 04/02/2011), n.2714

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. MERONE Antonio – Consigliere –

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere –

Dott. FERRARA Ettore – rel. Consigliere –

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 22511/2006 proposto da:

CATTANEO DI ALESSANDRO PERONI & C SAS già CATTANEO SPA, in

persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA VIA G B DE ROSSI 37 presso lo studio dell’avvocato VOLO GRAZIA,

rappresentato e difeso dall’avvocato GOBBI FABRIZIO, giusta delega in

calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI MILANO (OMISSIS);

– intimato –

sul ricorso 20017/2007 proposto da:

CATTANEO DI ALESSANDRO PERONI & C SAS, in persona del

socio

accomandatario e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA VIA A. GRAMSCI 16 presso lo studio dell’avvocato

GIGLIO ANTONELLA, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato LEONE MAURIZIO, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE GENERALE, in persona del Direttore

pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

sul ricorso 20018/2007 proposto da:

CATTANEO DI ALESSANDRO PERONI & C SAS, in persona del

socio

accomandatario e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA VIA A. GRAMSCI 16 presso lo studio dell’avvocato

GIGLIO ANTONELLA, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato LEONE MAURIZIO, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE GENERALE, in persona del Direttore

pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso le sentenze n. 55/2006-10/2007-11/2007 della COMM.TRIB.REG.

di MILANO, depositate il 12/04/2006 e 09/03/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/11/2010 dal Consigliere Dott. ETTORE FERRARA;

uditi per il ricorrente l’Avvocato GOBBI FABRIZIO per R.G. 22511/06 e

l’Avvocato GIGLIO ANTONELLA per R.G. 20017/07 e R.G. 20018/07, che

hanno chiesto l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato SANTORO MASSIMO, che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano la Cattaneo s.a.s. di Alessandro Peroni, già Cattaneo s.p.a. fino al 3.5.2000, impugnava il diniego di definizione agevolata adottato dall’Ufficio delle Entrate L. n. 289 del 2002, ex art. 15, sulla richiesta formulata in data 22.5.2003 con riferimento alle risultanze di un processo verbale della G.d.F. del 10.6.2000, relativo agli anni 1997 e 1998, così come motivato con riferimento alla sentenza di condanna emessa in data 3.10.2002 dal GIP presso il Tribunale di Crema a carico di P.P. nella sua qualità di Amministratore delegato della società, e alla inammissibilità del condono prevista dall’art. 15 cit. “per i soggetti nei cui confronti è stata esercitata l’azione penale per i reati previsti dal su citato D.Lgs. 10 marzo 2002, n. 74”. Chiedeva la ricorrente l’annullamento dell’atto impugnato, assumendo che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di un amministratore non sarebbe causa ostativa per l’ammissibilità del condono fiscale da parte della società.

Il giudice adito rigettava il ricorso con decisione che, appellata dalla contribuente, veniva successivamente confermata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia con sentenza n. 55/1/2006, depositata il 12.4.2006.

Per la cassazione della citata sentenza proponeva ricorso R.G. n. 22511/06 la società nei confronti dell’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Milano (OMISSIS), articolando due motivi successivamente sostenuti anche con memoria aggiunta.

Nessuna difesa svolgeva nel suddetto giudizio di legittimità l’Amministrazione finanziaria.

Parallelamente alla vicenda di cui innanzi, sempre a seguito e per effetto della verifica fiscale di cui si è detto, a sua volta scaturita da analoga precedente verifica eseguita nei confronti della società Carpenteria Metallica di Valcarenghi Pietro & C. s.a.s.

società fornitrice della Cattaneo s.a.s. l’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Milano (OMISSIS), notificava a quest’ultima società gli avvisi di accertamento n. (OMISSIS) e n. (OMISSIS) con i quali, contestato l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, con conseguente indeducibilità dei relativi costi ai fini delle imposte dirette, venivano accertati per gli anni 1997 e 1998 imponibili ai fini IRPEG e ILOR maggiori rispetto a quelli dichiarati.

La società contribuente impugnava con due distinti ricorsi gli avvisi di accertamento in questione deducendo di aver proposto istanza di definizione agevolata per le liti potenziali conseguenti al processo verbale di constatazione di cui innanzi, e che la relativa vicenda era ancora sub iudice. Tanto premesso chiedeva sospendersi i due processi in attesa della definizione dei giudizi relativi al condono, e nel merito annullarsi gli accertamenti perchè fondati su prova insufficiente.

Il giudice adito in entrambi i casi, disattesa l’istanza di sospensione, rigettava i ricorsi con decisioni che, a seguito di appello della contribuente, venivano successivamente confermate dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia con le sentenze n. 11/43/07, per Tanno 1997, e n. 10/43/07 per l’anno 1998, depositate il 9.3.2007.

Anche per la cassazione di queste due sentenze di appello proponeva distinti ricorsi, iscritti rispettivamente sub R.G. n. 20018/07 e 20017/07, la Cattaneo s.a.s. di Alessandro Peroni & C. articolando tre motivi, successivamente sostenuti con memoria aggiunta.

All’accoglimento dei due ricorsi resisteva con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente rileva la Corte doversi procedere alla riunione dei ricorsi R.G. n. 20017/07 e n. 20018/07 a quello R.G. n. 22511/06, ex art. 274 c.p.c., trattandosi di ricorsi tra le stesse parti relativi a cause connesse, in quanto inerenti nel primo caso il medesimo anno d’imposta, e nel secondo annualità contigua, conseguenti ad un’unica verifica fiscale, (cfr. Cass. 11.5.2007, n. 10792).

Passando quindi all’esame dei singoli ricorsi, rileva questa Suprema Corte che essi risultano tutti e tre inammissibili.

1 – Ed invero a sostegno del ricorso R.G. n. 22511/06 deduce la contribuente i vizi di “violazione di norme di diritto in relazione alla L 27 dicembre 2002, n. 289, art. 15, comma 1 u. cpv..

Insufficiente motivazione in ordine al fatto controverso dell’avvenuta “formale conoscenza” dell’esercizio di un’azione penale, ai sensi della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 15, comma 1, da parte della Cattaneo s.a.s.”.

A tal riguardo la ricorrente, dopo aver ricordato che l’art. 15 in questione prevede l’inammissibilità della definizione agevolata “per i soggetti nei cui confronti sia stata esercitata l’azione penale per i reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, di cui il contribuente ha avuto formale conoscenza entro la data di perfezionamento della definizione”, lamenta che il giudice di merito avrebbe rigettato il ricorso sugli erronei presupposti: a) della automatica immedesimazione tra società e organo, onde la riferibilità alla prima dell’azione penale promossa contro il secondo; b) della estensibilità alla società della conoscenza dell’azione penale acquisita dall’ex amministratore P. P., benchè al riguardo la norma richieda la “formale conoscenza” della circostanza da parte della contribuente; e) della produzione dell’effetto di cui ai punto b) che precede benchè al momento dell’azione penale (27.9.2001) il P.P. non rivestisse più nessuna carica rappresentativa all’interno della società.

Sennonchè, per quel che riguarda il primo dei vizi dedotti, pur riguardando l’impugnazione una sentenza pubblicata il 12.4.2006, e quindi successivamente all’entrata in vigore dell’art. 366 bis c.p.c., nel testo conseguente alla riforma di cui al D.Lgs. n. 2 febbraio 2006, n. 40, (2.3.2006), l’illustrazione, concernente il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, non si conclude con la formulazione di quesiti di diritto rispettosi della prescrizione introdotta con la citata norma.

Ed infatti il ricorso, dopo l’enunciazione dei vizi di cui innanzi e un’articolata e diffusa illustrazione delle ragioni addotte a sostegno dell’impugnazione, peraltro svolta unitariamente e senza distinzione alcuna tra le argomentazioni esposte a conforto dell’una o dell’altra censura, si conclude con la generica seguente proposizione: “Per i motivi esposti, si chiede che la Suprema Corte di Cassazione voglia affermare che la L. n. 289 del 2002, art. 15, prevede l’ipotesi di una distinzione tra contribuente e soggetto imputato in un procedimento penale e richiede in questo caso che “la formate conoscenza” dell’esercizio dell’azione penale debba realizzarsi in capo al contribuente perchè si possa realizzare la condizione ostativa alla definizione delle liti potenziali. Si chiede quindi, in accoglimento del presente ricorso, l’annullamento della sentenza impugnata”.

Tale enunciazione, così come formulata, se pur idonea a integrare le “conclusioni” di un atto introduttivo di un giudizio ordinario ex art. 163 c.p.c., n. 4, non vale certamente a soddisfare le ben più impegnative esigenze sottese alla formulazione della nuova norma, espressamente prevista per il giudizio di cassazione.

Con espresso riferimento ai contenuti del nuovo art. 366 bis c.p.c., e al quesito di diritto da tale norma obbligatoriamente previsto in caso di denunzia dei vizi di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4, così da integrare un requisito di forma-contenuto essenziale per l’ammissibilità del ricorso, questa Suprema Corte ha, con giurisprudenza oramai consolidata, in più occasioni avuto modo di precisare che:

– il quesito di diritto deve non solo concludere ogni singolo motivo esposto, ma anche essere formulato “con la necessaria evidenza grafica” (v. Cass. SS.UU. ord. 15.7.2008, n. 19348);

– Non può essere unico per l’intero ricorso, ma deve essere formulato separatamente rispetto a ciascuna censura sollevata (cfr.

Cass. Sez. 3^ ord. 19.12.2006 n. 27130; Sez. 5^, sent. 23.7.2007, n. 16275);

– Deve essere riferibile alla fattispecie concreta in esame, e non può essere formulato in maniera generica, così da risultare privo di qualsiasi specificità in ordine alla corrispondenza della ratio decidendi della sentenza impugnata, alla vicenda in esame (v. Cass. SS. UU. Ord. 27.3.2009, n. 7433; sent. 11.3.2008, n. 6420; sent.

28.9.2007, n. 20360; Sez. Lavoro, sent. 7.4.2009, n. 8463; Sez. 5^, sent. 23.7.2007, n. 16275);

– Non può essere desunto implicitamente nè integrato dalla precedente illustrazione del motivo (v. Cass. SS. UU. sent.

11.3.2008, n. 6420; 28.9.2007, n. 20360; 26.3.2007, n. 7258; Sez. 3^, ord. 17.7.2008, n. 19769);

– Deve in definitiva essere formulato in maniera tale che la Corte possa comprendere dalla semplice lettura di esso, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, Terrore di diritto compiuto dal giudice e quale sia, secondo la prospettazione dei ricorrenti, la regola da applicare al caso in esame (v. Cass. SS.UU. ord. 27.3.2009, n. 7433; sent. 30.10.2008, n. 26020; ord. 5.2.2008, n. 2658; Sez. Lsent. 7.4.2009, n. 8463).

Tanto premesso, il ricorso in esame non risulta rispettoso della prescrizione in questione posto che nè enuncia un quesito rispondente a quel minimo di formalità necessarie per dare un significato alla riforma voluta dal legislatore dei 2006, e consentire l’individuazione nel testo del nuovo art. 366 bis c.p.c., di un quid pluris rispetto alle generiche “conclusioni” di un qualsiasi atto introduttivo di un giudizio, nè contempla uno o più quesiti formulati in maniera doverosamente distinta per ciascuna delle questioni poste, concludendosi con un unico interrogativo finale, indipendentemente dalle plurime censure articolate (immedesimazione amministratore-società quanto all’esercizio dell’azione penale, alfa formale conoscenza del procedimento penale….). E soprattutto perchè, anche a voler ritenere la formulazione adottata dalla ricorrente nelle conclusioni del suo ricorso, idonea a soddisfare le esigenze formali poste dall’art. 366 bis c.p.c., ne verrebbe comunque fuori un quesito assolutamente privo di qualsiasi riferimento concreto alla fattispecie oggetto del giudizio, e pertanto sicuramente inidoneo a consentire al giudice di legittimità di enunciare una regola juris funzionale a definire univocamente la controversia portata al suo esame, con l’accoglimento o il rigetto del gravame (In proposito v. in particolare Cass. SS.UU. sent. 30.10.2008, n. 26020 cit. secondo la quale: “l’ammissibilità del motivo è condizionata alla formulazione di un quesito, compiuta e autosufficiente, dalla cui risoluzione scaturisca necessariamente il segno della decisione; cfr. Cass. Sez. un. N. 18759 del 2008; n. 3519 del 2008”). Ciò non fosse altro che per l’assenza di qualsiasi riferimento alla dedotta circostanza dell’avvenuta cessazione di qualsiasi carica sociale da parte di P.P., e soprattutto alla data in cui ciò si sarebbe verificato, circostanza quest’ultima di fondamentale importanza ai fini dell’eventuale accoglimento della tesi in diritto sostenuta dalla difesa della ricorrente, come qui di seguito ancor meglio risulterà.

Proprio a questo proposito, peraltro, a ulteriore conforto di quanto in premessa già anticipato non può altresì non rilevarsi che, alle argomentazioni esposte dal giudice di merito per ritenere realizzati i due presupposti richiesti dall’art. 15 cit. ed escludere la condonabilità della lite fiscale da parte della soc. Cattaneo (esercizio dell’azione penale nei confronti della contribuente e formale conoscenza di tale circostanza da parte della stessa), così come fondate sul rapporto di immedesimazione organica esistente tra amministratore ( P.P.) e società, la ricorrente ha inteso sostanzialmente replicare deducendo l’inapplicabilità del principio di immedesimazione al caso di specie, in conseguenza della cessazione di qualsiasi carica sociale da parte del citato P. dopo l’intervenuta trasformazione della originaria Cattaneo s.p.a. in Cattaneo s.a.s. (3.5.2000), e quindi molto tempo prima che lo stesso P. avesse conoscenza dell’avviso di fissazione di udienza preliminare nel processo a suo carico, primo atto di avviso della pendenza del processo medesimo: secondo la tesi difensiva della ricorrente, se P.P. al momento dell’esercizio dell’azione penale e della comunicazione della stessa all’interessato non era più amministratore, e quindi legale rappresentante della società, il rapporto di immedesimazione organica sul quale si fonda la sentenza di merito non avrebbe potuto giammai operare, restando con ciò esclusi entrambi i presupposti cumulativamente richiesti dalla legge per l’esclusione della condonabilità della lite fiscale da parte della società.

Ma se così è non può non replicarsi che la decisiva circostanza (quanto meno nella prospettazione della ricorrente) della cessazione di qualsiasi carica sociale da parte di P.P. a far data dal 3.5.2000, non risulta affatto accertata dal giudice di merito, nè sul punto, che pure dovrebbe essere determinante ai fini della decisione, vi è specifica censura in ricorso. Ed è invece su quell’aspetto della sentenza impugnata che la ricorrente avrebbe dovuto censura re la decisione, non già con riferimento al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, ma o sotto il profilo dell’omessa pronuncia (con conseguente onere di indicare come, dove e quando la relativa domanda sarebbe stata posta), o con riferimento alla previsione del successivo n. 5 c.p.c. la qual cosa non può dirsi avvenuta.

Il secondo dei vizi denunciato con il ricorso R.G. n. 22511/06, per insufficiente motivazione dell’avvenuta “formale conoscenza” dell’esercizio di un’azione penale, da parte della Cattaneo s.a.s.

non risulta infatti autonomamente motivato, nè adeguatamente articolato con concreto riferimento alla specifica circostanza della quale innanzi ampiamente si è detto.

Fatta salva la formale denuncia del vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, nella parte iniziale del ricorso, congiuntamente all’altro vizio denunciato, il ricorso difetta infatti di una specifica illustrazione di tale censura, in nessun modo riproposta nelle “conclusioni del ricorso”, così che le “ragioni” della dedotta insufficienza della motivazione della sentenza di appello, dovrebbero essere dedotte dalle argomentazioni esposte a fondamento del primo vizio denunciato. L’esatta individuazione dei contenuti del denunziato vizio di motivazione risulterebbe pertanto, nel caso in esame, rimessa all’attività esegetica del motivo da parte della Corte, la qual cosa, già inammissibile nel vigore della originaria disciplina processuale, ancor più lo è dopo l’introduzione dell’art. 366 bis c.p.c., che in tema di formulazione dei motivi, e con specifico riferimento al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, espressamente richiede che il motivo esponga, a completamento dell’esposizione del vizio denunciato, la sintetica e riassuntiva indicazione: a) del fatto controverso, b) degli elementi di prova la cui valutazione avrebbe dovuto condurre a diversa conclusione; c) degli argomenti logici per i quali tale diversa valutazione sarebbe stata necessaria (v. Cass. Ord. 17.7.2008, n. 19769).

Tutto ciò senza considerare che la censura inerente la circostanza della quale si discute, qualora pure dovesse rintracciarsi nel corpo del ricorso, sembrerebbe risolversi in omesso esame di un documento, nel qual caso ulteriore motivo di inammissibilità inevitabilmente deriverebbe dalla mancata integrale riproduzione del documento nel ricorso medesimo, secondo quanto imposto dal principio di autosufficienza (v. Cass. Sent. 1.8.2008, n. 21032; 29.3.2007, n. 7767; 25.8.2006, n. 18506; 28.2.2006, n. 4405). Onde l’inevitabile conseguenza già innanzi anticipata.

2 – Passando quindi all’esame dei ricorsi n. 20018/07 e 20017/07, rileva preliminarmente questa Suprema Corte che gli stessi possono essere congiuntamente trattati presentando identici contenuti.

In proposito, premesso che il giudice di merito risulta aver in entrambe le procedure rigettato la istanza di sospensione dei processi formulata con riferimento ai giudizi di impugnazione del diniego di definizione agevolata, negando l’esistenza di un rapporto di pregiudizialità giuridica tra i due processi, e ritenendo non provata l’attualità della pendenza del processo relativo al diniego di condono, con i primi due motivi deduce la ricorrente: 1) ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 295 c.p.c., per aver il giudice di merito negato ricorrere i presupposti per la sospensione necessaria del processo, sul presupposto, del tutto ininfluente, che diverso fosse il petitum dei due giudizi, e nonostante l’evidente rapporto di pregiudizialità esistente tra gli stessi; 2) il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, con riferimento al punto della decisione appellata relativo alla prova della pendenza del procedimento relativo al ricorso avverso il diniego di condono.

Ciò premesso, avuto riguardo al giudicato oramai formatosi nel proc. R.G. n. 22511/06 sulla non spettanza della definizione agevolata richiesta dalla società, inequivocabilmente ne discende l’inammissibilità dei due motivi in esame, per carenza d’interesse:

tanto dovendo necessariamente ammettersi non solo con riferimento al ricorso R.G. n. 20018/07 (relativo all’accertamento per l’anno 1997, al quale anche si riferisce il diniego di condono impugnato nel proc. R.G. n. 22511/06), ma anche con riferimento al ricorso R.G. n. 20017/07, relativo all’anno d’imposta 1998, posto che il diniego di condono risulta per entrambe le annualità motivato con le medesime ragioni.

D’altronde, sotto altra prospettiva, agevole risulta affermare che ad analoga conclusione dovrebbe necessariamente pervenirsi anche per ulteriori ragioni. Ed invero delle due censure preliminare risulta l’esame della seconda, relativamente alla quale l’Agenzia deduce l’inammissibilità della doglianza sotto un duplice profilo, e cioè perchè la valutazione della prova costituirebbe una valutazione di fatto rimessa al giudice di merito, e perchè la relativa questione sarebbe assorbita dalla inesistenza del rapporto di pregiudizialità inappellabilmente accertata dal giudice di merito.

Orbene, avuto riguardo al primo profilo, la ricorrente si difende evidenziando che “copia del ricorso contro il diniego del condono era stata prodotta sin dal primo grado del giudizio come allegato n. 4 al ricorso e, pertanto, lo stato del procedimento era perfettamente controllabile e conoscibile”. In questi termini posta la questione, evidente è che con il motivo in esame la parte tende a far valere in Cassazione una valutazione dei fatti e delle prove difforme da quella compiuta dal giudice di merito, la qual cosa è da ritenersi effettivamente inammissibile laddove la decisione sia sorretta da motivazione immune da vizi logici e giuridici, come appunto è nel caso di specie (cfr. v. Cass. Sent. 28.9.2007, n. 20391; 18.3.1995, n. 3025; 3.10.1994, n. 8006).

Posto invero che gravava senza dubbio sulla ricorrente l’onere probatorio in ordine alla pendenza dell’altro giudizio, tale onere la società ricorrente assume di aver assolto con l’avvenuta allegazione ai ricorsi avverso gli accertamenti, dei ricorsi avverso il diniego di condono.

I giudici del gravame con le sentenze in questa sede impugnate non hanno ignorato il documento allegato, ma, dopo aver in narrativa rilevato che la risultanza istruttoria da esso desumibile era stata già ritenuta superata dal giudice di primo grado, in considerazione delle decisioni nel frattempo emesse dalla CTP sui ricorsi avverso il diniego di condono, hanno correttamente ribadito l’assenza di prova in ordine all’attualità della pendenza dell’ipotetico giudizio “presupposto”, intendendo con ciò evidentemente censurare la mancanza di prova in ordine alla proposizione di impugnazione avverso quelle decisioni. E tale censura non può non considerarsi assolutamente corretta gravando indubbiamente sulla contribuente l’onere di provare nella fattispecie la proposizione dell’ulteriore impugnazione La prova per ottenere la sospensione necessaria di un giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c., incombe alla parte che la invoca e deve riguardare l’esistenza in concreto della situazione che la giustifica, sicchè a soddisfare il relativo onere non è sufficiente la sola pendenza del termine legale per impugnare la sentenza pronunciata nel giudizio di cui si assume la pregiudizialità, la quale crea una mera aspettativa che può anche non realizzarsi, ma è invece necessaria la produzione di documentazione attestante l’avvenuta impugnazione (v. in termini Cass. Sent. 13.6.1987 n. 5209, nonchè sul problema più in generale Cass. 17.5.1997, n. 4399, e 1.8.2007, n. 16992). Nè rilievo alcuno ai fini della decisione può assumere, relativamente al ricorso n. 20017/07, l’errore nel quale è incorsa la C.T.R. nello svolgimento del processo esposto nel corpo della sentenza n. 10/43/07 in questa sede impugnata, per aver riferito di un’affermazione del difensore avente ad oggetto l’avvenuta proposizione di ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello nel procedimento avente ad oggetto diniego di condono per l’anno 1998 (affermazione in realtà riferibile al procedimento relativo al diniego di condono per l’anno 1997, costituente oggetto del processo R.G. n. 22511/06 innanzi trattato); ed infatti, indipendentemente dall’errore dedotto, resta il fatto che la contribuente non ha neanche in quella procedura provato, o quanto meno non ha nel presente giudizio dedotto come e quando avrebbe provato, l’attualità, al momento della decisione sull’istanza di sospensione, della pendenza del giudizio di impugnazione avverso la sentenza di primo grado relativa al diniego di definizione agevolata per l’anno 1998.

Ed è appena il caso di rilevare, con riferimento a quanto in proposito pur sostenuto in ricorso, che giammai la contribuente sulla quale gravava l’onere di provare la pendenza del giudizio sul diniego di condono, potrebbe a sua difesa invocare conseguenza alcuna per il mancato esercizio da parte del giudice di poteri istruttori d’ufficio ai fini dell’accertamento della relativa circostanza, trattandosi di poteri ampiamente discrezionali, e comunque non invoca bili per colmare lacune istruttorie nelle quali sia incorsa la parte. Lacune che, per altro verso, neanche potrebbero in alcun modo essere colmate dalla parte nel giudizio di legittimità, come pure nella fattispecie la ricorrente pretenderebbe di fare relativamente al ricorso n. 20017/2007 con la produzione di certificazione attestante la pendenza dinanzi alla C.T.R. della Lombardia del procedimento relativo al ricorso avverso il diniego di condono per l’anno 1998 (v. Cass. Ord. N. 17745 del 30.8.2004).

Le decisioni dei giudici di merito sulle richieste di sospensione dei processi appaiono quindi correttamente motivate in maniera certamente sintetica, ma tale da apparire comunque immuni da vizi logici, onde anche per questa ragione ne discende l’inammissibilità del motivo articolato per dedurre vizio di motivazione al riguardo, con inevitabile assorbimento della censura esposta con il primo dei due motivi di ricorso in esame.

Quanto al terzo e ultimo motivo, con esso in entrambi i ricorsi denuncia la ricorrente, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il vizio di violazione del D.P.R. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, per aver i giudici di merito, con le sentenze impugnate, valutato come elementi di prova a sostegno della legittimità degli accertamenti la sentenza penale ex art. 444 c.p.p., emessa a carico dell’ex amministratore delegato della società ricorrente, nonchè le deposizioni verbali di soggetti terzi riportate nel verbale della G.d.F. senza nessuna motivazione sulle ragioni del loro convincimento.

L’Agenzia eccepisce l’inammissibilità del motivo perchè relativo a valutazione di fatto rimessa al solo giudice di merito, e comunque rileva l’infondatezza della censura.

A questo proposito osserva questa Suprema Corte che la doglianza, così come articolata, deve più correttamente essere inquadrata sotto la previsione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, avendo ad oggetto il difetto di motivazione delle sentenze impugnate in ordine alle prove invocate dai giudici di merito a sostegno delle loro decisioni. Ciò detto, peraltro, deve subito rilevarsi come nelle due sentenze impugnate il convincimento dei giudici risulti fondato, oltre che sulle prove espressamente censurate con i ricorsi in esame, su “ulteriori elementi di prova, quali le fatture rinvenute presso il domicilio del rappresentante legale società “Carpenteria metallica di Valcarenghi Pietro & C.” emesse nei confronti della ricorrente, che non trovano riscontro nelle scritture ufficiali della emittente, i riscontri bancari da cui risultano i pagamenti effettuati dalla Cattaneo s.p.a. ed i prelievi effettuati per la restituzione delle somme alla stessa Cattaneo s.p.a., dopo aver detratto una percentuale a titolo di “compenso” pari all’IVA….”. Orbene, risultando tali ulteriori elementi di prova assolutamente idonei a giustificare anche da soli il convincimento espresso dai giudici di merito, e non essendo essi minimamente investiti dalle censure innanzi esposte, inevitabilmente ne discende la formazione di un giudicato sulla base delle sole prove sicuramente validamente acquisite, e quindi la carenza di interesse della ricorrente a proporre la questione in esame. Allorchè la decisione del giudice si fonda infatti su una pluralità di prove, alcune soltanto oggetto di contestazione in giudizio, la non contestata idoneità delle altre prove acquisite e non impugnate, a giustificare da sole il convincimento del giudice, vale a determinare la formazione di un giudicato sulla decisione impugnata, tale da escludere l’interesse della parte all’esame delle contestazioni formulate in maniera così parziale.

Alla stregua delle esposte considerazioni ne consegue, come già in premessa anticipato, l’inammissibilità di tutti e tre i ricorsi riuniti.

Alla pronuncia consegue, relativamente ai due giudizi nei quali la resistente risulta costituita, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi nn. 22511/06, 20017/07 e 20018/07 e li dichiara tutti inammissibili. Condanna la ricorrente alla spese del giudizio di legittimità relativamente ai ricorsi nn. 20017/07 e 20018/07, e le liquida per il primo in Euro 16.000,00 e per il secondo in Euro 3.000,00 oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2011

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