Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27137 del 16/12/2011

Cassazione civile sez. trib., 16/12/2011, (ud. 20/04/2011, dep. 16/12/2011), n.27137

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Presidente –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 29500/2006 proposto da:

B.G., elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZALE CLODIO

12 presso lo studio dell’avvocato MAZZETTA ANTONIO, rappresentato e

difeso dall’avvocato OROPALLO Domenico, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI LATINA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 613/2005 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

LATINA, depositata il 18/07/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/04/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CARACCIOLO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di

ragione del 1^ motivo di ricorso, per il rigetto del 2^, per

l’improponibilità o l’inammissibilità del 3^.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Gli atti del giudizio di legittimità.

Il 17.10.2006 è stato notificato all’Agenzia delle Entrate (oltre che alla medesima Agenzia presso la sede locale di Latina) un ricorso di B.G. per la cassazione della sentenza descritta in epigrafe (depositata il 18.7.2005), che ha accolto l’appello dell’Agenzia contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Latina n. 645/04/2001, che aveva accolto il ricorso dello stesso contribuente avverso avviso di rettifica IVA relativa all’anno 1994.

L’Agenzia non ha svolto attività difensiva.

La controversia è stata discussa alla pubblica udienza del 20.4.2011, in cui il PG ha concluso per l’ accoglimento del primo motivo; il rigetto del secondo e l’improponibilità del terzo.

2. I fatti di causa.

Con il menzionato avviso di rettifica -adottato a seguito di verifica generale espletata dalla GdF di Latina conclusasi con PVC del 6.5.1999- l’Agenzia ha rilevato violazioni in materia di IVA afferenti (per ciò che qui interessa) l’anno 1994, e ciò in virtù dei dati risultanti dal rinvenimento di documentazione extracontabile, da cui era stata desunta l’esistenza di vendite non regolarizzate con scontrini fiscali (per L. 43 milioni circa), poi confermate dalle dichiarazioni verbali degli acquirenti. Ulteriori vendite in evasione erano state desunte dalla stessa contabilità d’impresa (ed in particolare dai saldi per il 1996 del conto “altri debiti”), in considerazione del fatto che su quest’ultimo erano affluite nel corso dell’anno 1994 “anticipazioni del titolare” per L. 495.000.000 (che avevano come contropartita il conto cassa) somma che (non risultando debiti di fornitura in corso) era stata ritenuta appunto provento di vendite in evasione d’imposta. Erano state poi contestate ulteriori detrazioni indebite per L. 2.901.000.

L’adita CTP di Latina aveva accolto il ricorso con l’argomento che il dato relativo ai saldi risultanti dal conto “altri debiti” non avrebbe potuto consentire di pervenire alle conclusioni realizzate dall’Amministrazione. L’appello proposto dall’Agenzia avverso detta sentenza è stato poi integralmente accolto dalla Commissione Regionale del Lazio.

3. La motivazione della sentenza impugnata.

La sentenza della CTR, oggetto del ricorso per cassazione, è motivata nel senso che l’evasione d’imposta per merce non fatturata per l’importo di L. 43.097.000 aveva trovato conferma nelle dichiarazioni rese dagli acquirenti, i cui nominativi erano stati desunti dalla documentazione contabile rinvenuta durante le ispezioni; che l’indebita detrazione per L. 2.901.000 non era stata mai effettivamente oggetto di contestazione, sicchè sul punto doveva intendersi la parte contribuente avesse fatto acquiescenza; che i pagamenti registrati sul conto altri debiti si riferivano (per come emergeva dalla contabilità reperita in sede di verifica) a fatture non conservate e non annotate nelle scritture obbligatorie, sicchè i ricavi conseguiti alle vendite dei materiali acquistati (per come emergevano dalle predette fatture) potevano appunto corrispondere alla somma recuperata a tassazione di L. 495.000.000. Ed infatti, se a fronte di registrazioni denominate come “anticipazioni del titolare” non vi era corrispondenza con le “esposizioni nei confronti dei fornitori”, altro non era dato di presumere se non che dette anticipazioni simulassero “vendite in evasione d’imposta”.

4. Il ricorso per cassazione Il ricorso per cassazione è sostenuto con tre distinti motivi d’impugnazione e si conclude -senza alcuna indicazione circa il valore della lite- con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con la condanna di parte avversaria al pagamento delle spese di lite.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

5. Il primo motivo d’impugnazione.

Il primo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto – art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54.

Omessa, insufficienza o contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Art. 360 c.p.c., n. 5”.

Con il predetto motivo la parte contribuente si duole del fatto che i giudici di appello abbiano ritenuto idonee le presunzioni sulle quali era stato effettuato il recupero dell’imposta asseritamente evasa, e ciò con peculiare riferimento alle induzioni derivanti dalle scritturazioni sul conto altri debiti relativo all’esercizio 1996. Da tali scritturazione l’Agenzia aveva desunto registrazione di “decrementi” (da L. 915.620.015 a L. 411.719.355) per il pagamento di fatture di importo pari a L. 503.900.660. Considerato che nel predetto conto erano affluite, nel corso dell’anno 1994, L. 495.000.000 a titolo di anticipazioni del titolare e che nel 1996 non si erano registrati altri debiti verso fornitori, l’Agenzia ne aveva presunto che dette “anticipazioni” fossero in realtà la provvista per acquisti non documentai che si erano poi trasformati in immediate vendite a prezzo corrispondente a quello di acquisto, donde il provento di vendite in evasione; L’agenzia aveva perciò determinato in L. 84.944.000, oltre accessori, l’imposta evasa.

Il sillogismo semplificatorio del giudice di appello appariva -per contro- ancor più illogico rispetto a quello valorizzato dall’Agenzia), non avendo egli dato conto della esistenza o meno di merci di corrispondente valore in magazzino, e comunque finiva per contrastare con la stessa ricostruzione proposta dall’Agenzia, che aveva imputato l’importo contabilizzato come anticipazione del titolare finalizzato ad acquisti in nero per l’anno 1994. poi immediatamente trasformati in vendita a terzi per eguale importo. Per contro, la presunzione del giudicante legava dati tra loro eterogenei (le anticipazioni dell’anno 1994 e dell’anno 1995 e la mancanza di debiti verso fornitori nell’anno 1996) per ricavarne una conclusione illogica: la vendita di merci in evasione d’imposta. Al contrario, la circostanza che nel 1996 non fossero registrati debiti verso fornitori doveva consentire di concludere che le anticipazioni effettuate nel 1994 erano state impiegate proprio per l’estinzione di detti debiti, ovviamente prima dell’inizio del 1996. D’altronde, poichè l’anticipazione in questione era avvenuta in un unico importo e la ditta operava nel settore della vendita al dettaglio, sarebbe stato irrealistico supporre che si fosse trattato di un realizzo ottenuto in un unico momento, sicchè al contrario un siffatto importo non poteva giustificarsi in altro modo che -appunto- un’anticipazione del titolare.

Il motivo di impugnazione è infondato e da disattendersi.

Per quanto improntato anche ad errore di diritto, il motivo di impugnazione risulta concretamente impostato nell’ottica della contraddittorietà della motivazione della decisione impugnata, alla quale è imputata -però- un’incoerenza che potrebbe essere semmai riferita al provvedimento impositivo (ove ne fossero stati dettagliatamente evidenziati gli elementi salienti ai fini che qui occupano), nel mentre il giudice di appello ha giudicato prescindendo del tutto dalla correlazione tra dati eterogenei di cui si duole la parte ricorrente. Ed invero il giudicante ha evidenziato che sarebbe stato onere della parte contribuente -che aveva giustificato i versamenti in conto anticipazioni con l’esigenza di onorare asseriti debiti verso fornitori- dare conto delle giustificazioni contabili (fatture ed annotazioni delle stesse nelle scritture contabili obbligatorie) onde rendere credibile l’anzidetta giustificazione, in difetto di che ha ritenuto fondata la presunzione dell’Agenzia in proposito della simulazione di cui si è detto.

Incentrandosi insomma la censura di parte ricorrente su argomenti logici (più’ che su fatti), che perciò non costituiscono “punto decisivo” delle ragioni di convincimento del giudice del merito (che sono rimaste sostanzialmente prive di apposita censura), non resta che concludere per l’inesistenza del dedotto vizio di motivazione.

6. Il secondo motivo d’impugnazione.

Il secondo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto, art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54;

Omessa, insufficiente o contraddittorietà della motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, art. 360 c.p.c., n. 5”.

Con l’anzidetto motivo la parte ricorrente si doleva del fatto che – avendo il giudicante valorizzato “dati acquisiti presso terzi soggetti” (e cioè le dichiarazioni dei compratori in ordine alla mancata emissione degli scontrini fiscali)- il medesimo giudicante non avesse ritenuto necessario verificare che l’infedeltà della dichiarazione risultasse in modo “certo e diretto”, anzicchè in via di presunzione. D’altronde, neppure di veri e propri “dati acquisiti presso terzi” si era trattato, perchè non ogni notizia proveniente da un terzo (ma solo se contenuta in una dichiarazione fiscale, ovvero acquisita mediante una vera e propria ispezione) può considerarsi tale. Perciò il giudicante avrebbe potuto attribuire a simili dati solo valore indiziante ed avrebbe dovuto avvalorarli con riscontri che invece erano mancati. Le dichiarazioni dei terzi, d’altronde, erano di contenuto generico e nel senso di non avere memoria o prova dell’emissione dello scontrino piuttosto che della certezza della sua mancata emissione.

Il motivo è infondato e da disattendersi.

Da un canto la svalutazione della precisione e conferenza delle dichiarazioni dei terzi non è assistita dal necessario rigore in punto di autosufficienza del ricorso in ordine alla determinazione del dato storico. Non vi è modo -infatti- di effettuare alcun controllo degli assunti della parte ricorrente, non avendo quest’ultima nè trascritto le dichiarazioni a cui fa riferimento, nè specificamente indicato il luogo processuale in cui esse sono rinvenibili, nè prodotto in questo grado di giudizio il documento dal quale esse risultano.

D’altro canto, se è ben vero che nel processo tributario le dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale assumono il solo valore probatorio “proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione” (cfr.

Cass. Sez. 5, Sentenza n. 11785 del 14/05/2010), è però anche vero che il giudice di appello, nella sentenza qui impugnata, ha valorizzato dette dichiarazioni come mera conferma di dati già aliunde acquisiti e consistenti nei “controlli incrociati a carico di clienti della ditta, i cui nominativi sono stati esperiti da documentazione extra contabile, rinvenuta durante le ispezioni”.

Non sussiste dunque il vizio che la parte ricorrente addebita alla pronuncia impugnata, appunto perchè i “dati” che il giudicante ha valorizzato non sono il supporto esclusivo del suo convincimento ma bensì la conferma ed il riscontro di altro elemento di convincimento acquisito agli atti del giudizio.

7. Il terzo motivo d’impugnazione Il terzo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Nullità della sentenza, omessa pronuncia, art. 360 c.p.c., n. 4; omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, art. 360 c.p.c., n. 5; violazione falsa applicazione di legge, art. 360. Violazione o falsa applicazione di norme di diritto, art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54; Omessa, insufficiente o contraddittorietà della motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, art. 360 c.p.c., n. 5”.

Con l’anzidetto motivo la parte ricorrente si duole di omessa pronuncia in ordine alla questione (già fatta oggetto del thema di primo grado, implicitamente ritenuta assorbita dal giudicante e riproposta dalla parte appellata nella memoria di costituzione in appello) circa la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 27 (ove prevede che per i commercianti al minuto l’importo da versare sia determinato sulla base dell’ammontare complessivo, diminuito di una percentuale corrispondente all’aliquota d’imposta), questione che invece non poteva ritenersi assorbita dalla pronuncia adottata sugli altri punti oggetto di esame, appunto perchè l’esito era stato del tutto sfavorevole ad essa parte oggi ricorrente.

Infatti, sulle somme contabilizzate nella voce “altri debiti” (come detto, pari a L. 495.000.000) erano state computate le imposte e le conseguenti sanzioni, “senza preventivamente operarne lo scorporo”.

Trattandosi invero di vendite al dettaglio, tutti gli importi ritenuti a titolo di corrispettivo sono già comprensivi di IVA, sicchè la nuova imposizione della somma complessiva aveva dato luogo ad una doppia imposizione.

Il motivo è inammissibilmente proposto.

Ed infatti, dolendosi la parte ricorrente di omessa pronuncia (ovviamente ex art. 112 c.p.c., per quanto non espressamente menzionato), la medesima parte ricorrente avrebbe dovuto specificare in maniera autosufficientemente adeguate le modalità con le quali detta questione ha trovato emersione sia nel primo che nel secondo grado di giudizio, onde consentire a questa Corte di delibare se effettivamente il giudice di appello abbia omesso di pronunciarsi su una questione ritualmente dedotta in giudizio. Non avendo la ricorrente fatto ciò, ma essendosi limitata ad affermare genericamente di avere provveduto a proporre la questione (prima nel grado iniziale e poi anche in appello, nel rispetto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56), deve concludersi nel senso che la censura è inammissibile.

Nulla sulle spese di lite, non avendo svolto l’Agenzia alcuna attività difensiva.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2011

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