Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27129 del 16/12/2011

Cassazione civile sez. VI, 16/12/2011, (ud. 24/11/2011, dep. 16/12/2011), n.27129

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FELICETTI Francesco – Presidente –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

C.C. (P.I.: (OMISSIS)), elettivamente domiciliata

in Roma, Piazza Adriana n. 11, presso lo studio dell’Avvocato Giurato

Ugo, dal quale è rappresentata e difesa per procura speciale a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO ACROPOLI s.p.a., in persona del curatore pro tempore,

elettivamente domiciliato in Roma, via dei Gracchi n. 187, presso lo

studio dell’Avvocato Giovanni Magnano di San Lio, rappresentata e

difesa dall’Avvocato Di Cataldo Vincenzo per procura speciale a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza non definitiva n. 176 del 2006, depositata il 22

febbraio 2006, e la sentenza definitiva della Corte d’appello di

Catania n. 1157 del 2009, depositata in data 8 settembre 2009;

Udita, la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

24 novembre 2011 dal Consigliere Dott. Stefano Petitti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino che nulla ha osservato in ordine alla relazione ex

art. 380-bis cod. proc. civ..

Fatto

RITENUTO IN FATTO

che il curatore del fallimento della s.p.a. Acropoli impugnava il lodo arbitrale non definitivo 30 marzo 2001 e quello definitivo 10 novembre 2001 resi al Collegio Arbitrale nella causa tra il detto fallimento e C.C.;

che con il lodo non definitivo erano state rigettate le eccezioni di nullità ed improcedibilità sollevate dalla curatela e con quello definitivo era stata dichiarata la risoluzione per inadempimento della Acropoli del contratto di promessa di permuta stipulato dalle parti il 22 marzo 1993, del contratto di permuta in data 11 maggio 1993 e del contratto di permuta del 21 giugno 1993 – con conseguente obbligo della curatela di restituire alla C. alcuni lotti di terreno – ed era stata dichiarata l’incompetenza del collegio arbitrale a decidere su tutte le altre questioni proposte dalle parti, ivi compresa quella relativa alla richiesta della curatela di condanna della C. a corrispondere l’indennizzo ex art. 936 cod. civ., pari alla maggior somma tra aumento di valore dei terreni ed il costo dei materiali e mano d’opera impegnati nella realizzazione delle opere eseguite dalla società Acropoli;

che il Collegio arbitrale riteneva la detta domanda inscindibilmente collegata alla domanda di risarcimento danni della C.;

che con sentenza non definitiva 22 giugno 2006 la Corte di appello di Catania confermava il lodo non definitivo e, in parziale riforma di quello definitivo, dichiarava il diritto della curatela ad ottenere dalla C. l’indennizzo ex art. 936 cod. civ.;

che con sentenza definitiva 8 settembre 2009 la Corte di appello condannava la C. a pagare al fallimento Euro 1.390.000,00 oltre accessori;

che con la sentenza non definitiva la Corte di appello escludeva la sussistenza di un nesso di inscindibilità tra la domanda di indennizzo con quella della C. di risarcimento danni devoluta alla cognizione del Tribunale fallimentare;

che con la sentenza definitiva la Corte di appello affermava che non poteva tenersi conto della documentazione prodotta tardivamente dalla C. e che andava condivisa la valutazione operata dal c.t.u.

circa l’aumento di valore del fondo in questione per effetto della presenza delle costruzioni ivi realizzate;

che la cassazione della sentenza non definitiva e di quella definitiva della Corte di appello è stata chiesta da C. C. con ricorso affidato a due motivi;

che il curatore del fallimento della s.p.a. Acropoli ha resistito con controricorso;

che essendosi ravvisate le condizioni per la trattazione del ricorso con il rito camerale, è stata redatta relazione ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., che è stata comunicata alle parti e al pubblico ministero.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che il relatore designato ha formulato la seguente proposta di decisione:

“… Con i tre motivi di ricorso la C. denuncia: a) violazione dell’art. 36 c.p.c. e della L. Fall., art. 52, incompetenza e falsa applicazione della L. Fall., art. 81, nonchè vizi di motivazione, deducendo che la Corte di appello ha errato nel ritenere la domanda di indennizzo non riservata al Tribunale fallimentare: infatti le reciproche e contrapposte pretese delle parti (risarcimento del danno chiesto da essa ricorrente e indennizzo domandato dalla curatela) sono legate da un nesso di inscindibilità in quanto dipendenti dallo stesso titolo contrattuale e dall’accertamento degli stessi fatti e sono quindi devolute alla cognizione del Tribunale fallimentare (primo motivo); b) violazione degli artt. 2041, 1150, 936, 1346, 1418 c.c. e art. 345 c.p.c., comma 3, sostenendo: che – come è pacifico e documentato – le costruzioni sul fondo in questione sono state realizzate in violazione delle norme edilizie; che il c.t.u. ha errato nel ritenere le opere realizzate assentite da concessioni edilizie; che la Corte di appello avrebbe dovuto richiamare il c.t.u. per fornire chiarimenti; che la Corte di appello ha errato (errore di fatto risultante dagli atti e documenti di causa) nell’applicare l’art. 345 c.p.c., comma 3 e nel ritenere inammissibile la produzione documentale concernente l’irregolarità delle costruzioni della quale essa ricorrente è venuta a conoscenza solo dopo il deposito della relazione del c.t.u.;

che la società Acropoli ha commesso i reati previsti dalle L. n. 1150 del 1942 e L. n. 765 del 1967 con conseguente impossibilità di riconoscere indennizzi per la preclusione di cui agli artt. 1346 e 1418 c.c.. (secondo motivo).

… Il relatore ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio per la manifesta infondatezza dei riportati motivi in relazione ai quali va rispettivamente rilevato: a) la tesi sostenuta dalla ricorrente con il primo motivo si pone in netto ed insanabile contrasto con il principio che le S.U. di questa Corte hanno affermato (componendo un contrasto formatosi nella giurisprudenza di legittimità) con la sentenza 12/11/2004 n. 21499 secondo cui “qualora, nel giudizio promosso dal curatore per il recupero di un credito contrattuale del fallito, il convenuto proponga domanda riconvenzionale diretta all’accertamento di un proprio credito nei confronti del fallimento, derivante dal medesimo rapporto, la suddetta domanda, per la quale opera il rito speciale ed esclusivo dell’accertamento del passivo ai sensi della L. Fall., art. 93 e segg., deve essere dichiarata inammissibile (o improcedibile se formulata prima della dichiarazione di fallimento e riassunta nei confronti del curatore) nel giudizio di cognizione ordinaria, e va eventualmente proposta con domanda di ammissione al passivo su iniziativa del presunto creditore, mentre la domanda proposta dalla curatela resta davanti al giudice per essa competente, che pronuncerà al riguardo nelle forme della cognizione ordinaria”; b) il secondo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato. Le censure relative alla asserita errata interpretazione e valutazione della c.t.u. non sono meritevoli di accoglimento risolvendosi essenzialmente nella prospettazione di una diversa analisi del merito della causa ed in una critica dell’apprezzamento delle risultanze istruttorie operata dal giudice del merito incensurabile in questa sede di legittimità perchè sorretto da adeguata motivazione immune da vizi logici e giuridici. Inammissibilmente la ricorrente prospetta una diversa lettura del quadro probatorio dimenticando che l’interpretazione e la valutazione delle risultanze probatorie sono affidate al giudice del merito e costituiscono insindacabile accertamento di fatto: la sentenza impugnata non è suscettibile di cassazione per il solo fatto che gli elementi considerati dal giudice del merito siano, secondo l’opinione di parte ricorrente, tali da consentire una diversa valutazione conforme alla tesi da essa sostenuta. Sono quindi insussistenti gli asseriti vizi di motivazione e le denunciate violazioni di legge che presuppongono una ricostruzione dei fatti diversa da quella ineccepibilmente effettuata dal giudice del merito.

Va poi rilevato che le critiche mosse in questa sede alla relazione del c.t.u. non sono meritevoli di accoglimento, oltre che per la loro incidenza in ambito di apprezzamenti riservati al giudice del merito, anche per la loro genericità per non aver la ricorrente riportato il contenuto specifico e completo di detta relazione il che non consente di ricostruirne il senso complessivo e impedisce a questa Corte di valutare – sulla base delle sole deduzioni contenute in ricorso e senza la necessità di indagini integrative – l’incidenza causale del preteso errore commesso da giudice di appello nell’interpretare e valutare la relazione peritale in questione. Sotto altro aspetto le censure concernenti gli asseriti errori che sarebbero stati commessi dal giudice di appello nel ricostruire i fatti di causa sono inammissibili risolvendosi nella tesi secondo cui l’impugnata sentenza sarebbe basata su affermazioni contrastanti con gli atti del processo e frutto di errore di percezione o di una svista materiale degli atti di causa. Trattasi all’evidenza della denuncia di travisamento dei fatti contro cui è esperibile il rimedio della revocazione. Secondo quanto più volte affermato da questa Corte, la denuncia di un travisamento di fatto, quando attiene al fatto che sarebbe stato affermato in contrasto con la prova acquisita, costituisce motivo di revocazione e non di ricorso per cassazione importando essa un accertamento di merito non consentito in sede di legittimità.

Considerato quindi che il ricorso può essere deciso in camera di consiglio (…) rimette gli atti al Presidente per la fissazione dell’adunanza della Corte a norma degli art. 375 e 380 bis c.p.c.”;

che il Collegio condivide tale proposta di decisione, alla quale non sono state rivolte critiche di sorta;

che il ricorso deve quindi essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 7.200,00, di cui Euro 7.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile della Corte suprema di Cassazione, il 24 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2011

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