Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27116 del 28/12/2016


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Cassazione civile, sez. trib., 28/12/2016, (ud. 21/09/2016, dep.28/12/2016),  n. 27116

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHIRO’ Stefano – Presidente –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12662/2012 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

APTAR GROUP HOLDINGS SAS, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE DI VILLA MASSIMO

57, presso lo studio dell’avvocato EUGENIO DELLA VALLE, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANFRANCO MACCONI,

con procura notarile del Not. L.S. – FRANCIA il 29/06/2012

tradotta dal cancelliere del Tribunale di ROMA MARTA CAPPON il

13/07/2012;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 46/2009 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

PESCARA, depositata l’11/01/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/09/2016 dal Consigliere Dott. GIACOMO MARIA STALLA;

udito per il ricorrente l’Avvocato CIMINO che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato DELLA VALLE che ha chiesto

il rigetto;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CUOMO Luigi, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO

L’agenzia delle entrate propone due motivi di ricorso avverso la sentenza n. 46 dell’11 gennaio 2012 con la quale la commissione tributaria regionale di L’Aquila, sezione staccata di Pescara, ha ritenuto illegittimo – a conferma della prima decisione – il silenzio-rifiuto opposto dall’ufficio all’istanza di pagamento, al netto della ritenuta di legge del 5%, presentata dalla società francese Aptar South Europe sarl in relazione al credito di imposta maturato, nel 2002, sui dividendi ad essa corrisposti da una controllata italiana (come stabilito dall’art. 10, par. 4, lett. b) della convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Francia il 5 ottobre 1989, ratificata con L. n. 20 del 1992, con riferimento al credito d’imposta sui dividendi di cui all’art. 14, comma 1 e art. 92 T.U.I.R., vigenti ratione temporis).

La commissione tributaria regionale ha ritenuto, in particolare, non provato l’assunto dell’amministrazione finanziaria secondo cui il credito di imposta in oggetto non spetterebbe alla Aptar South Europe, in quanto mera società interposta (conduit company) della capogruppo statunitense; come tale costituita in Francia al solo fine di fungere da trasmissione di utili alla controllante americana in forza di un regime fiscale convenzionale abusivamente adottato. Al contrario, sarebbe emerso dagli atti di causa che la società – le cui decisioni e strategie venivano adottate in Francia reinvestiva gli utili iscritti in bilancio nell’acquisto di altre partecipazioni sui mercati internazionali, operando inoltre concretamente nei settori di interesse del gruppo (distribuzione di profumi e cosmetici, farmaceutico, alimentare ecc…), altresì stabilendo linee di intervento e valutando il tipo di investimenti realizzati dalle controllate.

Resiste con controricorso e memoria ex art. 378 c.p.c., la Aptar Group Holding s.a..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p. 1. Con il primo motivo di ricorso l’agenzia delle entrate deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 10 della citata convenzione tra Italia-Francia del 5 ottobre 1989, ratificata con L. n. 20 del 1992, contro le doppie imposizioni, nonchè degli artt. 2727 e 2729 c.c..

Ciò per avere la commissione tributaria regionale omesso di considerare che il divieto di abuso del diritto in ambito tributario costituisce ormai un cardine del sistema di fiscalità internazionale (sent. CG UE Halifax e Huddersfield in cause C255/02 e C-223/03), e che la prova di tale abuso poteva essere fornita dall’amministrazione finanziaria anche in via presuntiva, così come accaduto nel caso di specie (controllo totale a cascata da parte della statunitense Aptar Group Inc.). Inoltre, la commissione tributaria regionale aveva interpretato la nozione convenzionale di beneficiario effettivo dei dividendi sulla base di elementi non di sostanza, ma meramente formali (luogo di residenza dell’amministratore e di incasso dei dividendi medesimi; luogo delle assemblee) e, come tali, inidonei a comprovare l’esistenza di un’effettiva organizzazione amministrativa in Francia, così come l’esistenza di reali ragioni di esercizio dell’attività d’impresa all’estero.

Con il secondo motivo di ricorso l’agenzia lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – incompleta ed illogica motivazione su un punto controverso e decisivo di causa. Ciò per avere omesso, la commissione tributaria regionale, di prendere in esame tutti gli argomenti logici dedotti dall’amministrazione finanziaria a riprova del ruolo di mera interposizione svolto dalla società, come comprovato dalla struttura del gruppo; dalla mancata dimostrazione da parte della stessa della destinazione degli utili a soggetti ed impieghi non riferibili alla controllante statunitense; dall’analisi del conto economico, privo di costi significativi di attività operativa; dall’identità della persona fisica dell’amministratore, ed organo di vertice, sia della società francese sia della controllante statunitense.

p. 2. I due motivi di ricorso, suscettibili di trattazione unitaria per la loro intima connessione, sono infondati.

Stabilisce la convenzione Italia-Francia in esame (art. 10, p. 4, lett. b)) che la società madre residente in Francia “che riceve da una società residente dell’Italia dividendi che darebbero diritto a un credito d’imposta se fossero ricevuti da un residente dell’Italia, ha diritto al pagamento da parte del Tesoro italiano di un ammontare pari alla metà di detto credito d’imposta diminuito della ritenuta alla fonte prevista al paragrafo 2.”

Il credito d’imposta – previsto, in caso di attribuzione domestica di dividendi, dagli artt. 14 e 92 T.U.I.R., vigenti nell’anno di imposizione qui dedotto – spetta alla duplice condizione che la società madre sia la “beneficiaria effettiva” dei dividendi; e, inoltre, che essa sia residente in Francia, nel senso di avere in tale Stato la propria sede di “direzione effettiva”, come richiesto in via generale dall’art. 4 della medesima convenzione.

Non è inutile evidenziare che l’intera controversia si è incentrata sulla ravvisabilità nella specie di queste due sole condizioni; risultando, per contro, non contestati dall’ amministrazione finanziaria tutti gli altri elementi di spettanza del beneficio, quali la relazione di controllo totalitario madre-figlia, e l’effettivo assoggettamento della società percipiente a corrispondente imposizione nel Paese di residenza.

Ciò posto, si osserva come la convenzione italo-francese contro le doppie imposizioni recepisca testualmente, con la clausola del beneficiario effettivo, un principio di ordine generale delle convenzioni in materia, in virtù del quale i benefici previsti ad evitare la doppia imposizione spettano soltanto a favore della società controllante che disponga, non solo giuridicamente ma anche economicamente, dei dividendi percepiti; risultandone la destinataria reale.

Il requisito in oggetto impedisce, in altri termini, che a giovarsi del regime bilaterale contro le doppie imposizioni sia una società madre priva di sostanza economica, e strumentalmente costituita nello Stato contraente al solo fine di usufruire dei vantaggi convenzionali su dividendi che potrebbero dirsi propri della controllante solo sul piano formale, non anche sostanziale; in quanto destinati ad altra controllante collocata in un Paese il cui ordinamento non preveda pari vantaggi fiscali.

La clausola in esame – comune ad innumerevoli convenzioni in materia – si pone dunque quale disposizione antielusiva specifica in tema di eliminazione-attenuazione della doppia imposizione; in termini sia giuridici (imposizione in Stati diversi di un medesimo soggetto in relazione al medesimo presupposto) sia economici (imposizione di una medesima ricchezza, l’utile societario, rispettivamente in capo alla società che l’ha prodotto ed al socio che l’ha percepito in forma di dividendo).

Da questo punto di vista, essa costituisce una sorta di precipitato normativo del principio generale di cui all’art. 31 della Conv. Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, in base al quale un trattato deve essere interpretato secondo buona fede ed alla luce del suo oggetto e del suo scopo; parametri che, anche nei casi di inesistenza di previsione testuale, indurrebbero comunque a non riconoscere il regime di favore alla società madre che – non essendo il beneficiario effettivo dei dividendi che danno luogo al credito d’imposta – abbia abusato del trattato mediante un’allocazione territoriale strumentale, stravolgendone appunto l’oggetto e lo scopo pratico (c.d. treaty abuse).

La stessa clausola è però certamente conforme anche ai principi antielusivi della fiscalità internazionale (per quanto segnatamente concerne la nozione di beneficiai owner in materia di dividendi sull’estero, rileva l’art. 10 del Commentario al mod. OCSE sulle convenzioni contro le doppie imposizioni) e, in particolare, di quella eurounitaria; così come ormai definitivamente acquisiti, anche per i tributi non armonizzati, a seguito delle note sentenze nei casi Halifax C-255/02 e Cadbury Schweppes C-196/04.

D’altra parte, anche l’ordinamento UE conosce, con la direttiva madre-figlia 90/435/CEE e succ. mod., un regime dedicato di contrasto della doppia imposizione economica; e ciò ben si comprende in ragione dell’interesse, da un lato, a favorire la dislocazione transnazionale in ambito UE dei gruppi societari e, dall’altro, a dare attuazione anche in materia ai principi istitutivi di libertà di stabilimento, circolazione dei capitali, concorrenzialità. Profili, questi ultimi, che impongono che il beneficiario dei dividendi residente in un diverso Stato UE usufruisca del medesimo trattamento impositivo riservato al beneficiario residente.

Ebbene, anche la direttiva madre-figlia – che pure lascia impregiudicata l’applicazione delle disposizioni convenzionali di contrasto della doppia imposizione, anche mediante riconoscimento di un credito d’imposta in alternativa all’esenzione da ritenuta – si preoccupa di evitare utilizzi abusivi del regime; il che è stato recepito dalla norma interna attuativa di cui al D.Lgs. n. 600 del 1973, art. 27 bis, che nel comma 5, ammette ad usufruire della disciplina anche le società controllate da soggetti non UE, ma a condizione che “dimostrino di non detenere la partecipazione allo scopo esclusivo o principale di beneficiare del regime in esame”.

In definitiva, la clausola convenzionale in parola si pone nell’ambito di un contesto normativo certamente complesso (recentemente arricchitosi, nell’ordinamento nazionale, con l’introduzione della nozione generale di abuso del diritto o elusione fiscale di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 10 bis), ma sostanzialmente armonico; nel cui ambito non si pongono frizioni applicative tra le norme antielusive, generali o speciali, di varia matrice.

Di ciò vi è riflesso anche nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha osservato sul presupposto che l’indubbia libertà del contribuente di optare per una soluzione negoziale ed organizzativa comportante un maggior risparmio fiscale trovi limite nell’esigenza di reprimere condotte elusive e di abuso del diritto – come il regime convenzionale contro le doppie imposizioni presupponga la prova che la società che riceve i dividendi ne sia la effettiva beneficiaria (Cass. 4164/13, con riferimento alla convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Regno Unito); intendendosi per tale il “soggetto sottoposto alla giurisdizione dell’altro Stato contraente, che abbia l’effettiva disponibilità giuridica ed economica del provento percepito, realizzandosi altrimenti una traslazione impropria dei benefici convenzionali o addirittura un fenomeno di non imposizione” (Cass. 25281/15).

Cass. 4164/13, cit., ha poi evidenziato come in nessun modo i suddetti principi fondamentali UE possano consentire un trattamento diverso tra società percipiente residente e non residente, e come tale principio debba valere anche al fine di interpretare il regime convenzionale volto ad eliminare o ridurre la doppia imposizione adottato bilateralmente dai singoli Stati: “si è osservato dalla giurisprudenza comunitaria che, quando uno Stato membro ha scelto di esercitare la sua competenza fiscale sui dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri, i non residenti beneficiari di tali dividendi si trovano in una situazione del tutto analoga a quella dei residenti per quanto riguarda il rischio di doppia imposizione economica dei dividendi distribuiti dalle società residenti, per cui i beneficiari non residenti non possono essere trattati diversamente dai beneficiari residenti (cfr. Giust. CE, 19.11.2009 n. 540; C. Giust. CE, 3.6.2010 n. 487)”.

p. 3.1 Orbene, la commissione tributaria regionale ha correttamente applicato al caso di specie tali principi, dando altresì congrua motivazione del ragionamento seguito e delle fonti, in fatto e diritto, del proprio convincimento.

Il giudice di merito, in altri termini, ha fornito una determinata ricostruzione della situazione di fatto, giungendo ad escludere che la società madre istante sia una creazione di puro artificio; cioè una scatola vuota priva di vero sostrato economico ed operativo, e strumentalmente finalizzata ad un ruolo meramente passante e di intermediazione (alla volta della capogruppo statunitense) sui dividendi corrispostile dalla controllata italiana.

Ha rilevato, in particolare, la commissione tributaria regionale (pagg. 2-3) che la società in questione: “aveva sede in Francia; riceveva i dividendi in Francia; non risulta provato dall’ufficio che girasse, e quando, tali dividendi in USA alla società capogruppo o chi per essa”.

Non solo, a detta del giudice di merito, non vi era prova del fatto che la società madre percipiente non fosse la destinataria effettiva dei dividendi; ma vi era prova positivà di tutta una serie di elementi ed attività comprovanti l’autonomia ed effettività gestionale della medesima.

Osserva infatti la commissione tributaria regionale (ivi): “è provato sulla base dei bilanci e degli altri atti depositati, che gli utili venivano reinvestiti acquistando partecipazioni di altre società. Sono stati prodotti gli atti con i quali la società francese ha operato sui mercati internazionali, acquisendo partecipazioni in varie società (…). Dai bilanci e dai verbali di assemblea risulta che la società operava concretamente nei settori di interesse delle controllate, stabilendo strategie di intervento, valutando il tipo di investimenti realizzati dalle controllate ecc…”.

Quanto all’ulteriore requisito della sede di direzione effettiva in Francia, è stato osservato che in Francia si trovavano la residenza dell’amministratore, si tenevano le assemblee sociali, “si prendevano le decisioni relative alle partecipazioni nelle varie società”.

Tutto ciò induceva ad escludere che “il passaggio del denaro in Francia fosse assolutamente temporaneo e volto a coprire l’effettivo beneficiario residente in USA”.

p. 3.2 Le censure in esame non sono tali, per varie ragioni, da sovvertire questo ragionamento.

Sul piano della corretta applicazione normativa, la commissione tributaria regionale ha esattamente colto l’aspetto nevralgico della lite, posto nella individuazione, in capo alla società madre percipiente, della veste di beneficiario effettivo dei dividendi; come ritenuto dimostrato, da un lato, dalla mancata prova contraria della traslazione dei medesimi alla capogruppo USA e, dall’altro, dall’impiego diretto dei medesimi nell’attuazione del proprio ruolo di holding di partecipazione ed indirizzo.

A fronte di ciò l’amministrazione finanziaria ricorrente riafferma in questa sede la valenza generale, anche in ambito internazionale e convenzionale, degli istituti dell’abuso del diritto e della elusione; ma, fermi certamente restando questi ultimi (p. 2.), il problema offerto dalla lite non verteva sulla teorica ed astratta rilevanza in materia di un intento elusivo, bensì sulla sua riscontrabilità nella concretezza della fattispecie; per il che, è dirimente quanto osservato, in fatto, dal giudice di merito.

Nè potrebbe sostenersi, con la parte ricorrente, che i parametri e gli indici utilizzati dal giudice di merito violerebbero il principio di prevalenza della sostanza sulla forma; risolvendosi in aspetti di apparenza che malamente la commissione tributaria regionale non avrebbe ritenuto superabili sulla base delle presunzioni offerte dall’ufficio.

In realtà, gli elementi considerati dal giudice di merito non riguardano affatto profili esterni e formali; essi colgono, all’opposto, il fondo del problema, costituito dalla verifica di compatibilità delle attività evidenziate con lo svolgimento del ruolo di holding o sub-holding pura svolto dalla società madre. Giungendo, per tale via, ad affermare che quest’ultima doveva in effetti considerarsi padrona dei dividendi e, per ciò solo, beneficiaria effettivà dei medesimi.

Per contro, le presunzioni offerte dall’amministrazione finanziaria concernevano essenzialmente il rapporto di controllo a cascata intercorrente tra la società istante e la capogruppo USA e, inoltre, l’identità dell’organo amministrativo-persona fisica delle varie società francesi del gruppo. Senonchè, non si trattava di presunzioni rilevanti ex art. 2729 c.c., in quanto attestanti una situazione – l’esistenza del controllo – non soltanto del tutto pacifica, ma soprattutto di per sè non ostativa alla configurabilità in capo alla richiedente dei requisiti convenzionali in parola.

Salvo sostenere, ma nemmeno l’amministrazione finanziaria si spinge a tanto, che la holding ovvero sub-holding di pura partecipazione, in quanto tale, non potrebbe mai ed in nessun caso fungere da beneficiario effettivo dei dividendi; il che non è.

Parimenti è a dire per il requisito della sede di direzione effettiva; posto che la valutazione resa sul punto dalla commissione tributaria regionale è conforme all’esigenza normativa di collocare in Francia il luogo di formazione ed assunzione delle decisioni tipiche dell’attività sociale di controllo, indirizzo unitario e coordinamento delle partecipazioni possedute. Essa è inoltre in linea con la definizione di sede di direzione effettiva (piace of effective management) desumibile dal modello Ocse citato; facente anch’esso riferimento, per quanto concerne le persone giuridiche, allo Stato del luogo di adozione della volontà decisionale di gestione e controllo; individuabile all’esito di un tipico e necessario accertamento di fatto.

Non basterebbe osservare, in contrario avviso, che è insito nell’essenza del gruppo societario che la ricchezza rinveniente dalle società operative confluisca, e sia in definitiva imputabile (in presenza di certi presupposti di consolidamento, anche fiscalmente), alla capogruppo. Occorre infatti tener conto che la clausola convenzionale in esame, pur nell’ampiezza e sistematicità di cui si è dato conto, resta tuttavia ancorata, non soltanto per ragioni letterali ma anche e soprattutto funzionali e di scopo, ad una nozione tecnica di dividendi; i quali rappresentano d’altra parte, al contempo, il presupposto ed il limite della pretesa tributaria integrante la doppia imposizione che si intende evitare. In maniera tale che alla società madre francese non potrebbe negarsi la qualità di beneficiaria effettiva dei dividendi per la sola circostanza che della produzione di tali dividendi possa giovarsi la capogruppo statunitense; almeno fino a quando non si dimostri – ad onere dell’amministrazione finanziaria che opponga l’intento elusivo – che tale giovamento è consistito nel diretto trasferimento a quest’ultima dei dividendi imponibili, non già di una generica e non meglio valutabile ricchezza o redditività di gruppo.

p. 33 Venendo ora al profilo, pure censurato, della carenza motivazionale, basterà osservare come – in presenza della su riportata motivazione, del tutto esauriente nell’esplicitazione dei fatti ritenuti giuridicamente rilevanti e dirimenti ai fini della decisione – non vi sia qui spazio alcuno per una diversa valutazione.

Resta fermo il principio fondamentale secondo cui la deduzione di un vizio di motivazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo controllo, bensì la sola facoltà di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito; al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (tra le tante, Cass. 19.1.2015 n. 742).

E’ vero che tale principio trova controlimite nella doverosità del sindacato di legittimità allorchè – appunto – la sentenza impugnata si dimostri affetta da vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione; vizio sussistente quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio. Quando, in altri termini, dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione; ovvero sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento (SSUU 24178/13; Cass. 24148/13; 12799/14 ed innumerevoli altre).

E tuttavia, già si è osservato che questa situazione patologica non è dato qui riscontrare; sicchè la presente censura mira ad inammissibilmente promuovere, nella sede di legittimità, una diversa delibazione delle prove, ovvero a suscitare una differente valutazione di profili di merito riservati al giudice territoriale.

Ne segue il rigetto del ricorso; con compensazione delle spese del giudizio, stante la delicatezza e complessità della controversia.

PQM

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– compensa le spese.

Così deciso in Roma, nelle Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 21 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2016

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