Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27113 del 28/12/2016

Cassazione civile, sez. trib., 28/12/2016, (ud. 21/09/2016, dep.28/12/2016),  n. 27113

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHIRO’ Stefano – Presidente –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 30321/2011 proposto da:

APTAR SOUTH EUROPE SARL in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE DI VILLA MASSIMO

57, presso lo studio dell’avvocato GIANFRANCO MACCONI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato EUGENIO DELLA VALLE

con procura notarile giurata del Not. NICOLAS FINKELSTEIN in

GERMANIA il 20/10/2011, tradotta dal cancelliere del Tribunale di

Roma Sig.ra BARATTA FRANCESCA ROMANA il 23/11/2011;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 328/2010 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di

PESCARA, depositata il 29/10/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/09/2016 dal Consigliere Dott. GIACOMO MARIA STALLA;

udito per il ricorrente l’Avvocato DELLA VALLE che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato CIMINO che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CUOMO Luigi, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO

La Aptar South Europe sari, con sede in Francia, propone quattro motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 328/10/10 del 29 ottobre 2010 con la quale la commissione tributaria regionale di L’Aquila, sezione staccata di Pescara, ha ritenuto legittimo, in riforma della prima decisione, il silenzio-rifiuto opposto dall’agenzia delle entrate – ufficio centro operativo di Pescara, alla sua istanza di pagamento del credito di imposta maturato, nell’anno 2002, sui dividendi da essa ricorrente percepiti, al netto della ritenuta di legge del 5%, dalla controllata italiana Emsar spa (come stabilito dall’art. 10, par. 4, lett. b) della convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Francia il 5 ottobre 1989, ratificata con L. n. 20 del 1992, con riferimento al credito d’imposta sui dividendi di cui all’art. 14, comma 1, e art. 92 T.U.I.R. vigenti ratione temporis).

Ha ritenuto, in particolare, la commissione tributaria regionale che la società ricorrente non fosse l'”effettiva beneficiaria” dei dividendi in questione, attesi i seguenti elementi probatori di segno contrario: – la struttura di controllo societario “a cascata” del gruppo Aptar, che individuava l’effettiva destinataria dei dividendi nella capogruppo Aptar Group Inc., società con sede in uno (OMISSIS) non legato all’Italia da una convenzione bilaterale che prevedesse, a differenza di quella stipulata con la Francia, il beneficio del riconoscimento del credito d’imposta; – le risultanze dello stato patrimoniale dal quale emergevano, a fronte di ingenti partecipazioni azionarie, modesti crediti operativi; – la mancanza di dipendenti e, in generale, di una struttura organizzativa idonea a porre in essere tutte le attività strumentali al raggiungimento degli obiettivi sociali in Europa; – l’assenza di significativi investimenti in Europa comprovatamente riferibili all’anno oggetto del richiesto rimborso; – l’assenza di fatturazione per servizi gestionali prestati alla Emsar (in realtà resi da una diversa società del gruppo); – l’insussistenza in Francia di una sede di “direzione effettiva”, intesa quest’ultima quale sede amministrativa di reale svolgimento di attività gestorie (come comprovato dalla mancanza, presso la sede di residenza, di una organizzazione amministrativa e d’ufficio; di svolgimento di attività gestionale con relativi costi di funzionamento; di personale dipendente).

Tutto ciò deporrebbe, secondo il giudice regionale, per ritenere fondata la tesi dell’amministrazione finanziaria, secondo la quale la società ricorrente sarebbe stata costituita – quale mera “conduit company”, espressione di abuso del diritto – al solo scopo di “veicolare dividendi che usufruiscono di vantaggi fiscali previsti dalle norme convenzionali nel quadro di una complessa strategia volta a ridurre drasticamente il prelievo fiscale attraverso la creazione di società di comodo senza struttura operativa, ma aventi l’unica funzione di percepire le agevolazioni fiscali e di trasferire gli utili all’effettivo beneficiario”.

La società ricorrente contesta la valutazione fattuale resa dal giudice di merito ma soprattutto osserva, in diritto, che le nozioni convenzionali di “effettivo beneficiario” dei dividendi e di “sede di direzione effettiva” debbono essere interpretate con riguardo alla peculiarità della holding statica di partecipazione.

Essa deduce inoltre, in via subordinata, richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla corte di giustizia UE, per contrasto tra l’art. 10 della convenzione in oggetto e gli artt. 12, 43 e segg. (oggi art. 49 e segg.) TFUE. Ciò perchè, qualora si ritenesse per definizione interposta o “conduit” una holding sedente in altro Stato UE perchè priva di “una organizzazione amministrativa strutturata con risorse umane e materiali”, si verrebbe a determinare un trattamento discriminatorio ed una inammissibile restrizione della libertà di stabilimento in ambito UE, in relazione al diverso trattamento riservato alla holding italiana che detenga partecipazioni in società operative. Alla quale il credito d’imposta sui dividendi di cui all’art. 14, comma 1, e art. 92 T.U.I.R. viene riconosciuto indipendentemente dall’esistenza o meno di una struttura organizzativa.

Resiste con controricorso l’agenzia delle entrate.

La società ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p. 1. Con il primo motivo di ricorso si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 10 della convenzione italo-francese contro le doppie imposizioni stipulata il 5 ottobre 1989, ratificata con L. n. 20 del 1992; ciò con speciale riguardo all’erronea interpretazione, da parte della commissione tributaria regionale, della nozione legale di “beneficiario effettivo” dei dividendi. In particolare, non sussisterebbe dubbio alcuno che la Aptar South Europe rivesta, nella specie, tale qualifica, in quanto reale proprietaria della partecipazione e destinataria effettiva dei dividendi: regolarmente appostati in bilancio, aggredibili dai creditori, e liberamente da essa utilizzabili; nè rileverebbe che la stessa possa essere priva di una struttura organizzativa in Francia, essendo tale caratteristica connaturata alla funzione di sub-holding “statica”.

Con il secondo motivo di ricorso si lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, insito nella qualifica di “beneficiario effettivo” rivestito dalla ricorrente nella fattispecie. In particolare, gli elementi indicati dalla commissione tributaria regionale per escludere tale qualifica sarebbero tutti inconferenti, anche considerando che: – al momento della stipula della convenzione italo-francese già esisteva (dal 1946) una società francese del gruppo Aptar che deteneva le partecipazioni nella italiana Emsar; – la residenza in Francia di Aptar costituiva un dato ufficiale e dirimente, non essendo necessaria, per le holding di partecipazioni, l’esistenza di una struttura organizzativa. Con il terzo motivo di ricorso si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 87 T.U.I.R., nella formulazione applicabile ratione temporis, artt. 4 e 26 della convenzione; per avere la commissione tributaria regionale erroneamente interpretato la nozione legale di “sede di direzione effettiva” con riguardo alla localizzazione della sede amministrativa dove si eseguono le attività operative e gestionali della società laddove, al contrario, il centro di direzione effettiva dovrebbe individuarsi nel luogo dove risiedono gli amministratori (nella specie, pacificamente, in Francia) e dove vengono assunte le decisioni fondamentali concernenti la gestione e l’amministrazione.

Con il quarto motivo di ricorso si lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, insito nella individuazione della sede di direzione effettiva; posto che la commissione tributaria regionale avrebbe escluso la localizzazione in Francia di tale sede in ragione della ritenuta mancanza di una struttura organizzativa. Vale a dire, sulla base di un elemento irrilevante e confliggente con il dato ufficiale, fornito dall’amministrazione fiscale francese, della effettiva residenza in Francia della società.

p. 2. I motivi di ricorso in esame – suscettibili di trattazione unitaria per la loro intima connessione – sono fondati.

Stabilisce la convenzione Italia-Francia in esame (art.10 p. 4. lett.b)) che la società madre residente in Francia “che riceve da una società residente dell’Italia dividendi che darebbero diritto a un credito d’imposta se fossero ricevuti da un residente dell’Italia, ha diritto al pagamento da parte del Tesoro italiano di un ammontare pari alla metà di detto credito d’imposta diminuito della ritenuta alla fonte prevista al paragrafo 2”.

Il credito d’imposta – previsto, in caso di attribuzione domestica di dividendi, dagli artt.14 e 92 TUIR vigenti nell’anno di imposizione qui dedotto – spetta alla duplice condizione che la società madre sia la “beneficiaria effettiva” dei dividendi; e, inoltre, che essa sia residente in Francia, nel senso di avere in tale Stato la propria sede di “direzione effettiva”, come richiesto in via generale dall’art. 4 della medesima convenzione.

Non è inutile evidenziare che l’intera controversia si è incentrata sulla ravvisabilità nella specie di queste due sole condizioni; risultando, per contro, non contestati dalli amministrazione finanziaria tutti gli altri elementi di spettanza del beneficio, quali la relazione di controllo totalitario madre-figlia, e l’effettivo assoggettamento della società percipiente a corrispondente imposizione nel Paese di residenza.

Ciò posto, si osserva come la convenzione italo-francese contro le doppie imposizioni recepisca testualmente, con la clausola del beneficiario effettivo, un principio di ordine generale delle convenzioni in materia, in virtù del quale i benefici previsti ad evitare la doppia imposizione spettano soltanto a favore della società controllante che disponga, non solo giuridicamente ma anche economicamente, dei dividendi percepiti; risultandone la destinataria reale.

Il requisito in oggetto impedisce, in altri termini, che a giovarsi del regime bilaterale contro le doppie imposizioni sia una società madre priva di sostanza economica, e strumentalmente costituita nello Stato contraente al solo fine di usufruire dei vantaggi convenzionali su dividendi che potrebbero dirsi “propri” della controllante solo sul piano formale, non anche sostanziale; in quanto destinati ad altra controllante collocata in un Paese il cui ordinamento non preveda pari vantaggi fiscali.

La clausola in esame – comune ad innumerevoli convenzioni in materia – si pone dunque quale disposizione antielusiva specifica in tema di eliminazione-attenuazione della doppia imposizione; in termini sia giuridici (imposizione in Stati diversi di un medesimo soggetto in relazione al medesimo presupposto) sia economici (imposizione di una medesima ricchezza, l’utile societario, rispettivamente in capo alla società che l’ha prodotto ed al socio che l’ha percepito in forma di dividendo).

Da questo punto di vista, essa costituisce una sorta di precipitato normativo del principio generale di cui all’art. 31 della Conv. Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, in base al quale un trattato deve essere interpretato secondo buona fede ed alla luce del suo oggetto e del suo scopo; parametri che, anche nei casi di inesistenza di previsione testuale, indurrebbero comunque a non riconoscere il regime di favore alla società madre che – non essendo il beneficiario effettivo dei dividendi che danno luogo al credito d’imposta – abbia abusato del trattato mediante un’allocazione territoriale strumentale, stravolgendone appunto l’oggetto e lo scopo pratico (c.d. “treaty abuse”).

La stessa clausola è però certamente conforme anche ai principi antielusivi della fiscalità internazionale (per quanto segnatamente concerne la nozione di “beneficial owner” in materia di dividendi sull’estero, rileva l’art. 10 del Commentario al mod. OCSE sulle convenzioni contro le doppie imposizioni) e, in particolare, di quella Eurounitaria; così come ormai definitivamente acquisiti, anche per i tributi non armonizzati, a seguito delle note sentenze nei casi Halifax C-255/02 e Cadbury Schweppes C-196/04.

D’altra parte, anche l’ordinamento UE conosce, con la direttiva madre-figlia 90/435/CEE e succ.mod., un regime dedicato di contrasto della doppia imposizione economica; e ciò ben si comprende in ragione dell’interesse, da un lato, a favorire la dislocazione transnazionale in ambito UE dei gruppi societari e, dall’altro, a dare attuazione anche in materia ai principi istitutivi di libertà di stabilimento, circolazione dei capitali, concorrenzialità. Profili, questi ultimi, che impongono che il beneficiario dei dividendi residente in un diverso Stato UE usufruisca del medesimo trattamento impositivo riservato al beneficiario residente.

Ebbene, anche la direttiva madre-figlia – che pure lascia impregiudicata l’applicazione delle disposizioni convenzionali di contrasto della doppia imposizione, anche mediante riconoscimento di un credito d’imposta in alternativa all’esenzione da ritenuta – si preoccupa di evitare utilizzi abusivi del regime; il che è stato recepito dalla norma interna attuativa di cui al D.Lgs. n. 600 del 1973, art. 27 bis, che nel comma 5, ammette ad usufruire della disciplina anche le società controllate da soggetti non UE, ma a condizione che “dimostrino di non detenere la partecipazione allo scopo esclusivo o principale di beneficiare del regime in esame”.

In definitiva, la clausola convenzionale in parola si pone nell’ambito di un contesto normativo certamente complesso – recentemente arricchitosi, nell’ordinamento nazionale, con l’introduzione della nozione generale di abuso del diritto o elusione fiscale di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 10 bis, – ma sostanzialmente armonico; nel cui ambito non si pongono frizioni applicative tra le norme antielusive, generali e speciali, di varia matrice.

Di ciò vi è riflesso anche nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha osservato sul presupposto che l’indubbia libertà del contribuente di optare per una soluzione negoziale ed organizzativa comportante un maggior risparmio fiscale trovi limite nell’esigenza di reprimere condotte elusive e di abuso del diritto – come il regime convenzionale contro le doppie imposizioni presupponga la prova che la società che riceve i dividendi ne sia la “effettiva beneficiaria” (Cass. 4164/13, con riferimento alla convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Regno Unito); intendendosi per tale il “soggetto sottoposto alla giurisdizione dell’altro Stato contraente, che abbia l’effettiva disponibilità giuridica ed economica del provento percepito, realizzandosi altrimenti una traslazione impropria dei benefici convenzionali o addirittura un fenomeno di non imposizione” (Cass. 25281/15).

Cass. 4164/13, cit., ha poi evidenziato come in nessun modo i suddetti principi fondamentali UE possano consentire un trattamento diverso tra società percipiente residente e non residente, e come tale principio debba valere anche al fine di interpretare il regime convenzionale volto ad eliminare o ridurre la doppia imposizione adottato bilateralmente dai singoli Stati: “si è osservato dalla giurisprudenza comunitaria che, quando uno Stato membro ha scelto di esercitare la sua competenza fiscale sui dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri, i non residenti beneficiari di tali dividendi si trovano in una situazione del tutto analoga a quella dei residenti per quanto riguarda il rischio di doppia imposizione economica dei dividendi distribuiti dalle società residenti, per cui i beneficiari non residenti non possono essere trattati diversamente dai beneficiari residenti (cfr. Giust. CE, 19.11.2009 n. 540; C. Giust. CE, 3.6.2010 n. 487)”.

p. 3.1 Ciò posto, il giudice di merito ha fornito una determinata valutazione della situazione di fatto, giungendo alla conclusione della funzione di mera intermediazione dei dividendi (e non di beneficiaria effettiva) svolta dalla società ricorrente, con strumentale ricorso ad un beneficio convenzionale (credito d’imposta) del quale non avrebbe potuto fruire la capogruppo statunitense, atteso il diverso regime di contrasto alla doppia imposizione vigente con gli USA.

Il convincimento del giudice di merito circa il fatto che la società madre sia una creazione di puro artificio, cioè una “scatola vuota” priva di vero sostrato economico ed operativo (basato sugli elementi già menzionati: modesti crediti operativi; mancanza di dipendenti e di una apprezzabile struttura organizzativa; assenza di investimenti e di fatturazione di servizi gestionali a favore della controllata italiana; inesistenza in Francia di una sede di “direzione effettiva”) darebbe attuazione nel caso di specie, in definitiva, proprio al su richiamato principio generale di prevalenza della sostanza sulla forma, individuando un’ipotesi tipica di abuso del diritto e di elusione.

Va premesso che il convincimento così reso dalla commissione tributaria regionale (tra l’altro in contrasto con l’antitetica valutazione dei medesimi elementi di fatto resa in analogo giudizio tra le stesse parti: v. sentenza CTR L’Aquila, in diversa composizione, n. 46 dell’11 gennaio 2012, fatta oggetto di ricorso per cassazione da parte dell’amministrazione finanziaria) non può ritenersi qui intangibile sol perchè basato su una determinata ricostruzione in fatto della vicenda; posto che in tanto esso potrebbe andare effettivamente indenne dal vaglio di legittimità, in quanto risultasse: – fondato su riferimenti normativi (segnatamente, le richiamate clausole convenzionali dell'”effettivo beneficiario” e della sede di “direzione effettiva”) correttamente interpretate ed applicate alla concretezza del caso; – corredato di una motivazione congruamente ed esaurientemente mirata a valorizzare ai fini decisori fatti pertinenti, e non estranei nè equivoci, alla integrazione della fattispecie legale delineata dalle suddette clausole.

Sotto quest’ultimo aspetto, rilevante ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), resta fermo il principio fondamentale secondo cui la deduzione di un vizio di motivazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo controllo, bensì la sola facoltà di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito; al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (tra le tante, Cass.19.1.2015 n. 742).

E tuttavia, tale principio trova controlimite nella doverosità del sindacato di legittimità allorchè – appunto – la sentenza impugnata si dimostri affetta da vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione; vizio sussistente quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio. Quando, in altri termini, dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione; ovvero sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento (SSUU 24178/13; Cass. 24148/13; 12799/14 ed innumerevoli altre).

In tale situazione non può dirsi che la censura miri a semplicemente promuovere una diversa delibazione delle prove, ovvero a suscitare una differente valutazione dei profili di merito riservati al giudice territoriale (il che sarebbe per certo inammissibile); quanto ad evidenziare la violazione dell’obbligo di esauriente motivazione: sia in sè, sia in quanto sintomo di una erronea applicazione normativa.

p. 3.2 Ciò è quanto accade nel caso di specie in cui, all’esito di una non esatta interpretazione delle menzionate clausole convenzionali, il giudice di merito: – ha preso in esame, ritenendoli dirimenti nel senso della sussistenza dell’abuso, elementi fattuali in realtà non pertinenti alla fattispecie, e comunque non logicamente nè giuridicamente significativi dell’affermato ruolo meramente ‘passantè e di intermediazione (alla volta della capogruppo statunitense) svolto dalla società madre francese sui dividendi corrispostile dalla controllata italiana; – non ha preso in esame, per contro, un aspetto decisivo di causa, costituito dalla verifica di compatibilità di tali elementi fattuali con la peculiarità pacificamente rivestita dalla natura e funzione della società contribuente (holding, ovvero sub-holding, pura).

In definitiva, se è vero che deve ritenersi “beneficiario effettivo”, ai fini della materia in esame, il soggetto al quale sia attribuito l’uso ed il godimento dei dividendi oggetto di tassazione, in relazione ai quali esso si ponga come destinatario finale (“owner”, dominus), e non come semplice intermediario, agente o fiduciario, altrettanto indubbio è che una società madre percipiente non può non ritenersi “beneficiaria effettiva” dei dividendi solo perchè priva, in quanto di pura partecipazione, delle caratteristiche tipiche (quelle individuate dal giudice di merito) di una società operativa, ovvero di una holding mista.

E’ evidente che gli elementi di giudizio evidenziati dal giudice di merito assumono una valenza dimostrativa del tutto differente, a seconda che siano attribuiti ad una società operativa invece che ad una società di sola partecipazione e coordinamento; salvo che non si esiga – ma ciò negherebbe in radice una delle più tipiche manifestazioni del controllo societario di gruppo e, al contempo, la stessa autonoma rilevanza imprenditoriale della funzione di holding – che quest’ultima si ingerisca sempre e comunque nell’operatività della prima.

A ben vedere, solamente nel primo caso essi possono assumere il significato di fittizietà e di mancanza di reale sostanza economica.

Nel secondo caso, invece, essi ben potrebbero non essere significativi di quell’uso distorto della soggettività societaria che vi ha scorto il giudice di merito; tenendo a mente la non essenzialità degli indici di esternazione ed organizzazione operativa richiesti dal giudice di merito con riguardo ad un compito istituzionale di mero indirizzo e direzione unitaria, partecipazione alle assemblee della controllate, riscossione dei dividendi.

La circostanza che la società percipiente detenga, tra le proprie attività, unicamente delle partecipazioni di controllo, così come l’eventualità che essa stessa sia a sua volta totalitariamente controllata da altra società non residente in uno Stato stipulante (c.d. controllo “a cascata”), non comprovano pertanto, di per sè, l’artificiosità ovvero la strumentalità della medesima e, con ciò, l’insussistenza del credito d’imposta.

Per giungere a tale conclusione, occorreva valutare la sussistenza in concreto dell’unico elemento normativamente rilevante ai fini della nozione di “beneficiario effettivo”, costituito dalla padronanza ed autonomia della società – madre percipiente sia nell’adozione delle decisioni di governo ed indirizzo delle partecipazioni detenute, sia nel trattenimento ed impiego dei dividendi percepiti (in alternativa alla loro traslazione alla capogruppo sita in un Paese terzo).

Tali “spie” funzionali della figura del beneficiario effettivo ben possono prescindere sicchè il non considerare questo nevralgico aspetto di causa ha comportato – quale conseguenza applicativa erronea – l’esclusione del credito d’imposta, in sostanza, sulla base del solo rapporto di controllo intercorrente tra la capogruppo statunitense (holding) e la società madre residente in Francia (sub holding preposta alla direzione e coordinamento delle sussidiarie del gruppo in Sud Europa).

Si tratta di conseguenza estrema che non può trovare condivisione, posto che quantomeno in astratto, e fatto salvo il potere/dovere del giudice di merito di verificarlo in concreto – la relazione di controllo tra capogruppo ed holding, o sub-holding, avente ad oggetto la pura detenzione di partecipazioni geografiche non esclude di per sè che quest’ultima sia dotata di autonomia organizzativa e gestionale;

e ciò anche per quanto concerne il punto qualificante costituito dalla allocazione dei dividendi provenienti dalle società figlie.

Non basterebbe osservare, in contrario avviso, che è insito nell’essenza del gruppo societario che la “ricchezza” rinveniente dalle società operative confluisca, e sia in definitiva imputabile (in presenza di certi presupposti di consolidamento, anche fiscalmente), alla capogruppo. Occorre infatti tener conto che la clausola convenzionale in esame, pur nell’ampiezza e sistematicità di cui si è dato conto, resta tuttavia ancorata, non soltanto per ragioni letterali ma anche e soprattutto funzionali e di scopo, ad una nozione tecnica di “dividendi”; i quali rappresentano d’altra parte, al contempo, il presupposto ed il limite della pretesa tributaria integrante la doppia imposizione che si intende evitare. In maniera tale che alla società madre francese non potrebbe negarsi la qualità di beneficiaria effettiva “dei dividendi” per la sola circostanza che della produzione di tali dividendi possa giovarsi la capogruppo statunitense; almeno fino a quando non si dimostri che tale giovamento è consistito nel diretto trasferimento a quest’ultima dei dividendi imponibili, non già di una generica e non meglio valutabile “ricchezza” o redditività di gruppo.

p. 3.3 Argomenta la sentenza impugnata che, in assenza di riscontri di normale operatività, la collocazione della società madre in Francia sarebbe di per sè significativa di artificiosità anche sotto l’ulteriore profilo della mancanza, in tale Stato, di una sede di “direzione effettiva” (aspetto fatto oggetto specifico del terzo e del quarto motivo di ricorso per cassazione).

Nemmeno questa conclusione – che risente anch’essa della mancata considerazione delle “variabili” indotte nella fattispecie dalla natura di holding di partecipazione rivestita dalla società madre – può trovare sostegno logico-giuridico nella ricostruzione dei fatti così come operata dalla commissione tributaria regionale.

In primo luogo, si è più volte affermato che le valide ragioni economiche, ovvero extrafiscali, idonee ad escludere l’intento elusivo dell’operazione possono consiste anche nel conseguimento di vantaggi non direttamente economici e reddituali, ma strutturali e di miglior organizzazione aziendale (Cass.4604/14; 1372/11). Regola che può attagliarsi anche alla dislocazione territoriale delle società, operative e non, all’interno di un vasto gruppo multinazionale con interessi in aree anche molto lontane e diverse da quella di residenza della capogruppo. Ed in proposito non si ritiene che il giudice di merito abbia dato congrua contezza del fatto che la società figlia italiana Emsar spa fosse controllata da una società francese del medesimo gruppo (alla quale è poi subentrata l’odierna ricorrente) fin dal 1946 e, dunque, da epoca non “sospetta”, perchè di vari decenni antecedente all’introduzione dei vantaggi fiscali di cui alla convenzione in esame.

In secondo luogo, quanto fin qua osservato sulla necessità di conformare l’accertamento di fatto alla peculiare natura rivestita dalla società madre, deve valere anche ai fini dell’ulteriore requisito della sede di direzione effettiva.

Dagli atti di causa emerge come incontroverso che la ricorrente abbia sede legale ed amministrativa in Francia; che sia assoggettata ad imposizione da parte dell’amministrazione finanziaria francese; che in Francia risiedano le persone fisiche degli amministratori, e che ivi vengano adottate le fondamentali decisioni concernenti la società. In tale situazione, non sono stati dal giudice di merito enucleati i fatti contrari – se non attraverso i già indicati indici di operatività, però non decisivi per le dette ragioni – che deporrebbero per far ritenere la sostanziale fittizietà della sede francese, trattandosi di società totalmente eterodiretta dalla capogruppo con sede negli USA. Il che contrasta anche con la definizione di sede di direzione effettiva (piace of effective management) desumibile dal modello Ocse citato, facente riferimento, per quanto concerne le persone giuridiche, allo Stato del luogo di adozione della volontà decisionale di gestione e controllo; individuabile all’esito di un tipico e necessario accertamento di fatto.

p. 4. In definitiva, la sentenza impugnata va cassata al fine di porre il giudice di rinvio in condizione di riconsiderare la fattispecie alla luce del principio per cui – ai fini del riconoscimento del credito d’imposta di cui all’art. 10 par. 4 lett. b) della convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Francia il 5 ottobre 1989, ratificata con L. n. 20 del 1992 – i requisiti convenzionali di “beneficiario effettivo” dei dividendi e di ‘sede di direzione effettivà nello Stato contraente debbono essere accertati, in fatto, tenendo conto della peculiarità dell’oggetto e della natura della società madre percipiente. In particolare, qualora quest’ultima rivesta la qualità di holding o sub-holding di pura partecipazione, i suddetti requisiti non possono essere esclusi per il solo fatto della mancanza di una significativa struttura organizzativa; della esiguità di costi gestionali e di crediti operativi; della mancata fatturazione di servizi gestionali a favore della società figlia erogante; e nemmeno per il fatto che la società madre percipiente sia a sua volta totalitariamente partecipata da una capogruppo residente in uno Stato non contraente. E’ invece necessario che l’indagine sia dal giudice di merito condotta – per quanto attiene alla qualità di “beneficiario effettivo” dei dividendi percepiti – sul trattenimento ed autonomo impiego dei dividendi medesimi, ovvero sulla loro traslazione alla capogruppo residente nello Stato non contraente; e – per quanto concerne la “sede di direzione effettiva” nello Stato contraente – sul luogo di effettiva adozione delle decisioni direttive, amministrative e di coordinamento delle partecipazioni possedute dalla società madre percipiente, secondo l’attività tipica di holding da quest’ultima esercitata.

PQM

La Corte accoglie il ricorso;

cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della commissione tributaria regionale di L’Aquila.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Quinta Civile, il 21 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2016

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