Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27104 del 06/10/2021

Cassazione civile sez. II, 06/10/2021, (ud. 27/05/2021, dep. 06/10/2021), n.27104

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11370/2016 proposto da:

M.G., rappresentato e difeso dall’avv. MARIAGRAZIA

CARUSO;

– ricorrente –

contro

G.S., rappresentata e difesa dall’avv. MASSIMO LIUZZO

SCORPO;

– controricorrente –

L.V.R.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1634/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 27/10/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

27/05/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE TEDESCO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

L.V.R., usufruttuaria di un immobile di proprietà dei coniugi G.S. e M.G., chiamava in giudizio i nudi proprietari, chiedendo la condanna dei convenuti al rimborso delle metà delle somme anticipate per la ristrutturazione integrale dell’appartamento. A sostegno della domanda deduceva che i nudi proprietari si erano obbligati a rimborsare all’usufruttuaria il 50% di quanto anticipato per i titolo sopra indicato.

Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale di Catania accoglieva la domanda, per l’intero importo, nei confronti del solo M., il quale, costituendosi nel giudizio, si era dichiarato disponibile al rimborso, mentre la G. aveva contestato i presupposti della pretesa.

La Corte d’appello di Catania, adita con appello principale dal G. e con appello incidentale dalla L.V. (appello incidentale riguardante il solo regolamento delle spese di lite), ha confermato la sentenza del tribunale.

In primo luogo, la Corte d’appello ha riconosciuto che la domanda iniziale si fondava sull’accordo per il rimborso, intercorso fra nudi proprietari e usufruttuaria. In forza di tale considerazione, è stata riconosciuta inammissibile, in quanto nuova, la deduzione, proposta in appello dal M., secondo cui egli aveva “aveva il dovere di intervenire per non far perire del tutto l’immobile per una buona conservazione”. La stessa corte d’appello ha aggiunto che nessuna conseguenza poteva farsi derivare dal rilievo, proposto dall’appellante, secondo cui egli aveva assunto l’amministrazione dei beni della comunione; da ciò, secondo la corte di merito, poteva discenderne solo una pretesa da far valere, nei confronti del coniuge, in sede di resa del conto, mentre nessuna domanda l’appellante aveva svolto nei confronti della G., neppure in via di regresso. Su tale ultima questione, la corte di merito ha ancora precisato, in linea di principio, che neanche l’assunzione, da parte di uno solo dei coniugi, di un obbligo per soddisfare bisogni della famiglia, pone l’altro coniuge nella veste di obbligato in solido, salvo che non si tratti di obbligazione contratta per il soddisfacimento di una esigenza primaria della famiglia. Secondo la corte d’appello, tuttavia, tale ipotesi non ricorreva nel caso di specie, atteso che la usufruttuaria avrebbe potuto pretendere il rimborso si quanto anticipato solo alla cessazione dell’usufrutto, nei limiti di quanto sussistente in quel momento.

Per la cassazione della sentenza il M. propone ricorso per cassazione affidato a due motivi. Con il primo motivo denuncia la violazione dell’art. 345 c.p.c.. Egli sostiene che la deduzione con la quale, in grado d’appello, aveva posto l’accento sulla necessità della ristrutturazione, al fine di evitare il disfacimento dell’immobile, non introduceva alcuna immutazione della causa petendi. Infatti, già nell’atto introduttivo del giudizio, la L.V. aveva evidenziato che la somma era stata anticipata “viste le condizioni dell’appartamento”. Si richiamano i principi di Cass. S.U. n. 12310/2015, la quale avrebbe definito l’ambito delle modificazioni consentite della originaria domanda in termini tali da includere anche la precisazione operata nel caso. Con il secondo motivo si rimprovera alla Corte d’appello, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, di non avere considerato che il marito aveva assunto l’obbligo di rimborso, nei confronti dell’usufruttuaria, anche in nome della moglie, essendo egli amministratore dei beni della comunione. In considerazione di ciò, la domanda della L.V. andava accolta non solo nei propri confronti, ma anche nei confronti della G.. Il ricorrente sottolinea che l’assunzione, da parte sua, dell’amministrazione dei beni della comunione era stata ammessa dal coniuge, il quale aveva formulato domanda di resa del conto.

La G. ha resistito con controricorso.

La L.V. è rimasta intimata.

Il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso è inammissibile. Il ricorrente, in appello, non ha lamentato, nei confronti della creditrice, di avere subito la condanna per l’intero, invece che pro quota. Egli, infatti, non ha impugnato la condanna emessa a suo carico e in favore della L.V., ma aveva sostenuto in appello – e sostiene ancora in questa sede – che la domanda della creditrice andava “correttamente accolta anche nei confronti della G. e non solo del marito M., in virtù dell’impegno dallo stesso assunto, come riconosciuto in primo grado e confermato in appello” (pag. 15 del ricorso).

L’impugnazione, in altre parole, non è rivolta nei confronti della creditrice vittoriosa, ma nei confronti della supposta condebitrice, che sarebbe stata mandata ingiustamente esente dalla condanna. L’appello del M. era sfociato nella richiesta che la condanna fosse estesa alla G. “in via solidale” (pag. 3 della sentenza impugnata). Ma in questo modo non si considera che il condebitore ha un interesse giuridicamente tutelato a impugnare la pronuncia che l’ha condannato per l’intero, esclusivamente, nell’ambito di una azione di regresso, che nel caso di specie non è stata svolta, come si evidenzia con chiarezza nella sentenza impugnata. Insomma, il ricorrente, allorché si duole del fatto che la G. non sia stata anch’essa condannata al rimborso in favore dell’usufruttuaria, lamenta nella sostanza il mancato riconoscimento di una ipotesi di solidarietà passiva. L’impugnazione incorre quindi nell’applicazione del principio secondo cui “la solidarietà passiva nel rapporto obbligatorio è prevista dal legislatore nell’interesse del creditore e serve a rafforzare il diritto di quest’ultimo, consentendogli di ottenere l’adempimento dell’intera obbligazione da uno qualsiasi dei condebitori, mentre non ha alcuna influenza nei rapporti interni tra condebitori solidali, fra i quali l’obbligazione si divide secondo quanto risulta dal titolo o, in mancanza, in parti uguali. Ne consegue che, se il creditore conviene in giudizio più debitori, sostenendo la loro responsabilità solidale, e il giudice, invece, condanna uno solo di essi, con esclusione del rapporto di solidarietà, il debitore condannato, ove non abbia proposto alcuna domanda di rivalsa nei confronti del preteso condebitore solidale e, dunque, non abbia dedotto in giudizio il rapporto interno che lo lega agli altri debitori, non ha un interesse ad impugnare tale sentenza nella parte in cui esclude la solidarietà, perché essa non aggrava la sua posizione di debitore dell’intero e non pregiudica il suo eventuale diritto di rivalsa (Cass. n. 542/2020; n. 21774/2015).

Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza.

Ci sono le condizioni per dare atto D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”.

PQM

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente, al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida nell’importo di Euro 2.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 27 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2021

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