Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27096 del 25/10/2018

Cassazione civile sez. lav., 25/10/2018, (ud. 05/06/2018, dep. 25/10/2018), n.27096

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

N.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO 41,

presso lo studio dell’avvocato PATTI SALVATORE LUCIO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAZZA SALVATORE giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE C.F. (OMISSIS),

in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura

Centrale dell’Istituto rappresentato e difeso dagli avvocati PREDEN

SERGIO, CARCAVALLO LIDIA, PATTERI ANTONELLA, CALIULO LUIGI, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3896/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 11/06/2014 R.G.N. 6582/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/06/2018 dal Consigliere Dott. BELLE’ ROBERTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VISONA’ STEFANO che ha concluso per il rigetto del primo motivo,

inammissibilità del secondo motivo del ricorso;

udito l’Avvocato MORGANTI MAURIZIO per delega verbale Avvocato PATTI

SALVATORE LUCIO;

udito l’Avvocato PREDEN SERGIO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Roma, riformando con sentenza n. 3896/2014 la pronuncia di primo grado del locale Tribunale, ha respinto la domanda con cui N.B. aveva chiesto che fosse accertata l’insussistenza del diritto dell’I.N.P.S. di ripetere i pagamenti pensionistici effettuati nel periodo (dal 1997 al 2002) in cui era stata erogata allo stesso la pensione di anzianità, nonostante egli avesse ripreso l’attività lavorativa, in presenza di un regime che non consentiva il cumulo; di converso, sempre in riforma della pronuncia di primo grado, la Corte ha accolto la domanda del N. di restituzione, poi regolata in parziale compensazione sul maggior debito restitutorio, di quanto versato per la sanatoria del periodo di cumulo ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 44.

La Corte riteneva preliminarmente che la precedente sentenza del Tribunale di Roma, passata in giudicato, in cui si era accertata la revoca della pensione di anzianità fin dal 1997, per indebito cumulo con attività di lavoro, non poteva sorreggere l’assunto I.N.P.S. in merito ad un mutamento, per effetto del giudicato, dei termini prescrizionali. Tuttavia, sosteneva che il comportamento silente serbato dal N., allorquando egli godette della pensione e riprese il lavoro, si qualificasse in termini di dolo e pertanto impedisse di applicare il termine decadenziale di cui alla L. n. 412 del 1991, art. 13, comma 2. Consequenziale era ritenuto il diritto del N. ad ottenere la restituzione di quanto versato al fine di ottenere la sanatoria, sulla base della speciale normativa della L. n. 289 del 2002, art. 44, dei periodi in cui aveva goduto del cumulo tra pensione e lavoro, pur in presenza del relativo divieto; in proposito la Corte riteneva che tale sanatoria non fosse ormai più evocabile, stante la revoca della pensione, sicchè i relativi versamenti risultavano indebiti.

2. Il N. ha proposto ricorso per cassazione con due motivi, resistiti dall’I.N.P.S. con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente assume, attraverso il primo motivo di ricorso, la violazione e falsa applicazione della L. n. 412 del 1991, art. 13, perchè non sussisterebbero i presupposti per la qualificazione in termini di dolo rispetto alla sua percezione della pensione poi revocata.

Con il secondo motivo è invece affermata la violazione della L. n. 289 del 2002, art. 44, comma 3, ovverosia della norma di sanatoria per le violazioni dei divieti di cumulo, in quanto era errata l’affermazione della Corte distrettuale secondo cui sussisterebbe incompatibilità tra richiesta di sanatoria e revoca della pensione, anche perchè la domanda di sanatoria era antecedente rispetto alla revoca della pensione.

2. I due motivi, da esaminare congiuntamente stante la loro connessione, sono infondati.

2.1 E’ pacifico che la pronuncia del Tribunale di Roma inter partes con cui è stata accertata la revoca, fin dal 1.1.1997, della pensione di anzianità goduta dal N. tra il 1997 ed il 2002 sia passata in giudicato.

Ne deriva la sussistenza di una percezione indebita delle somme riconnesse a tale trattamento pensionistico, di cui è soltanto controversa la ripetibilità secondo la disciplina limitativa propria dell’ambito previdenziale.

Non viene qui in gioco la L. n. 412 del 1991, art. 13, comma 1, che regola l’ipotesi di errore di qualsiasi natura imputabile all’ente erogatore nel provvedere sulla pensione, mentre nel caso di specie è palese che l’I.N.P.S. non commise alcun errore.

Potrebbe astrattamente invece operare il limite alla ripetibilità desumibile dall’art. 13, comma 2, L. cit., secondo cui “l’I.N.P.S. procede annualmente alla verifica delle situazioni reddituali dei pensionati incidenti sulla misura o sul diritto alle prestazioni pensionistiche e provvede, entro l’anno successivo, al recupero di quanto eventualmente pagato in eccedenza”, così pacificamente istituendo una forma di decadenza.

Tale decadenza si applica tuttavia soltanto se vi siano state le dovute comunicazioni da parte del lavoratore, che consentano all’ente le relative verifiche, essendosi infatti affermato che “in tema di indebito previdenziale, il pensionato, ove chieda, quale attore, l’accertamento negativo della sussistenza del suo obbligo di restituire quanto percepito, ha l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto alla prestazione già ricevuta ovvero l’esistenza di un titolo che consenta di qualificare come adempimento quanto corrispostogli, senza che assuma rilievo l’inosservanza, da parte dell’Istituto, dell’obbligo L. n. 412 del 1991, ex art. 13, comma 2, di verificare annualmente l’esistenza di situazioni reddituali del pensionato incidenti sul diritto o sulla misura della pensione, la cui operatività è condizionata alla preventiva segnalazione, ai sensi della L. n. 412 del 1991, art. 13, comma 1, dei relativi fatti da parte dell’interessato” (Cass. 20 gennaio 2011, n. 1228, con principi poi confermati da Cass. 24 gennaio 2012, n. 953 e, più di recente, da Cass. 26 luglio 2017, n. 18551).

2.2 Non vi è dubbio, così rispondendosi a quanto argomentato dal ricorrente rispetto alla propria assenza di dolo, che il N. sia stato inadempiente rispetto ad obblighi di comunicazione che hanno avuto incidenza sull’indebito.

Intanto va escluso che abbia rilievo la disciplina del D.L. n. 546 del 1996, art. 1, comma 3, conv. in L. n. 640 del 1996, nella parte in cui vietava a chi avesse fruito del pensionamento anticipato l’assunzione di incarichi presso imprese del Gruppo Alitalia o con esso operanti, sotto pena di sospensione del trattamento pensionistico per un periodo pari a quello di anticipazione ottenuto: si tratta infatti di disciplina specifica degli effetti dei reimpieghi attuati presso il settore economico che fruiva del beneficio dei prepensionamenti, che non attesta la ammissibilità di reimpieghi presso altre imprese, come dimostra il fatto che nel corpo dello stesso articolo (comma 1, lett. a, in fine) è espressamente stabilita la salvezza dei “vigenti regimi di incumulabilità e incompatibilità previsti per i trattamenti pensionistici di anzianità”.

Il che rende evidente l’impossibilità di equivoci, anche per il N., rispetto al fatto che tali regimi si applicassero comunque.

Ciò posto, il D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 10, comma 6, nel disciplinare il divieto di cumulo tra pensioni di anzianità e lavoro dipendente, richiama il comma 3 del medesimo articolo, ove si sancisce l’applicazione delle disposizioni di cui al D.P.R. n. 488 del 1968, art. 21, e quindi l’obbligo del lavoratore di dichiarare per iscritto al proprio datore di lavoro la propria qualità di pensionato, nonchè di indicare l’ente o ufficio pagatore, onde consentire al datore di riversare all’I.N.P.S. la retribuzione dovuta, nei limiti dell’importo della pensione.

Meccanismo comunicativo che ha evidentemente anche il fine, attraverso il datore di lavoro, di far conoscere all’I.N.P.S. la rioccupazione del pensionato, cui pacificamente il N. non si è adeguato.

2.3 Del tutto correttamente quindi la Corte territoriale ha poi applicato il principio secondo cui “nell’indebito previdenziale il dolo non opera nel momento di formazione della volontà negoziale, bensì nella fase esecutiva, riguardando un fatto causativo della cessazione dell’obbligazione di durata, non noto all’ente debitore, titolare passivo di un numero assai rilevante di rapporti, il quale non può ragionevolmente attivarsi per prendere conoscenza della situazione personale e patrimoniale dei creditori, senza la collaborazione attiva di ciascuno di essi. Conseguentemente, integra un dolo idoneo a determinare l’I.N.P.S. a corrispondere una prestazione non dovuta anche il mero silenzio di chi, avendo l’obbligo di dichiarare di non svolgere altra attività lavorativa onde ottenere il beneficio della pensione di anzianità, omette di comunicare la circostanza dello svolgimento di tale attività, non essendo necessario un positivo e fraudolento comportamento dell’assicurato ed essendo invece sufficiente la consapevolezza dell’insussistenza del diritto in ragione delle disposizioni anticumulo” (Cass. 17 maggio 2013, n. 12097).

2.4 Nè ha rilievo la circostanza, sottolineata nei motivi di ricorso, che l’I.N.P.S. abbia ad un certo punto avuto conoscenza della violazione del divieto di cumulo, desunta dal fatto che sia stata, da allora, sospesa la prestazione, solo successivamente poi revocata.

La normativa previdenziale sull’indebito non considera infatti la conoscenza sopravvenuta da parte dell’ente erogatore, se sia accertato il dolo originario dell’accipiens, quale fondamento di una qualche fattispecie limitativa o decadenziale rispetto alla ripetizione dell’indebito precedentemente maturato, che resta soggetta soltanto alla prescrizione.

2.5 Il giudicato formatosi rispetto alla revoca della pensione, in causa intentata dal N. proprio sul presupposto di non essere pensionato e quindi di poter godere dei benefici, in effetti attribuitigli dalla medesima sentenza, di cui alla L. n. 243 del 2004, art. 1, comma 12, e s.s. (che consentiva l’acquisizione al dipendente degli importi destinati alla contribuzione, in concomitanza con l’accettazione da parte del medesimo della dilazione del proprio pensionamento), impedisce poi di riconoscere fondatezza alla pretesa del ricorrente di dare corso a sanatoria della violazione del divieto di cumulo ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 44.

Si potrebbe anche discutere se, attraverso la sanatoria, l’interessato potesse in ipotesi vanificare gli effetti della revoca della pensione o impedire la revoca stessa.

Ma di certo, in tale prospettiva, una sanatoria domandata nel 2003 (così la sentenza impugnata) e rigettata nel 2005, avrebbe dovuto semmai essere fatta valere, secondo la regola del dedotto e deducibile, nell’ambito del giudizio (chiusosi successivamente, in primo grado, nell’ottobre 2006), avente ad oggetto la revoca della pensione, quale fatto impeditivo o modificativo degli effetti di essa.

Ciò però non è avvenuto, anche per l’evidente interesse diametralmente opposto del N. di sostenere in quella causa l’avvenuta revoca delle pensione, per fruire dei citati benefici di cui alla L. n. 243 del 2004, chiaramente incompatibili con l’esistenza di un efficace trattamento pensionistico in atto. L’inevitabile effetto di giudicato non consente pertanto di riaprire in questa sede la questione sulla revoca conseguente alla violazione del divieto di cumulo ed alla ipotetica sanatoria.

3. Il ricorso va quindi integralmente rigettato, con regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 25 ottobre 2018

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