Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27094 del 23/10/2019

Cassazione civile sez. trib., 23/10/2019, (ud. 23/01/2019, dep. 23/10/2019), n.27094

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. MUCCI Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 1885 del ruolo generale dell’anno 2017

proposto da:

CBA Intl. S.r.l., gia Converse Italia s.r.l., in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, per procura

speciale in calce all’atto di costituzione depositato il 31 dicembre

2018, dall’Avv. Massimo Fabio, presso il cui studio in Roma, via

Adelaide Ristori, n. 38, è elettivamente domiciliata;

– ricorrente –

e da

Azzurra 90, s.r.l., Cad Mediceo Centro Assistenza Doganale s.r.l.,

Cad Venezia – Centro Assistenza Doganale s.r.l., Centro Assistenza

Doganale CAD La Spezia s.r.l., in liquidazione, Centro Assistenza

Doganale Duemilacinque Europa s.r.l., tutti in persona del legale

rappresentante, rappresentati e difesi dagli Avv.ti Benedetto

Santacroce, Alessandro Fruscione, Guido Piccione e Francesca Robazza

per procura speciale a margine del ricorso, elettivamente

domiciliate in Roma, via Gambattista Vico, n. 22, presso lo studio

dei primi due difensori;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle dogane, in persona del direttore generale pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui Uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, è domiciliata;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale del Veneto n. 846/5/2016, depositata in data 29 giugno

2016;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 23 gennaio 2019

dal Consigliere Dott. Triscari Giancarlo;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore

generale Dott.ssa Mastroberardino Paola, che ha concluso chiedendo

l’accoglimento del quinto e sesto motivo di ricorso, rigettati gli

altri motivi;

uditi per le società gli Avv.ti Fabio Massimo e Alessandro Fruscione

e per l’Agenzia l’Avvocato dello Stato Massimo Santoro.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Le società CBA Intl. S.r.l., già Converse Italia s.r.l., Azzurra 90, s.r.l., Cad Mediceo Centro Assistenza Doganale s.r.l., Cad Venezia – Centro Assistenza Doganale s.r.l., Centro Assistenza Doganale CAD La Spezia s.r.l., in liquidazione, Centro Assistenza Doganale Duemilacinque Europa s.r.l., ricorrono con nove motivi per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto, in epigrafe, che ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle dogane avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Treviso.

Dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle dogane, in relazione a dichiarazioni doganali di importazione effettuate dalle contribuenti tra novembre 2009 e gennaio 2010, aveva notificato un avviso di rettifica di accertamento dei diritti doganali e dell’Iva, e irrogato, nei confronti della sola Converse Italia s.r.l. (ora CBA Intl. S.r.l.), le conseguenti sanzioni, avendo accertato la mancata inclusione, nella base imponibile dei prodotti importati dalla Converse Italia s.r.l. (ora CBA Intl. S.r.l.), dei corrispettivi per diritti di licenza concessi dalla Converse INC. in base al contratto di licenza da esse stipulato; avverso il suddetto atto impositivo avevano proposto ricorso le contribuenti; la Commissione tributaria provinciale di Treviso aveva rigettato il ricorso relativamente alla pretesa impositiva, accogliendolo, invece, per la parte relativa all’applicazione delle sanzioni; avverso la suddetta pronuncia avevano proposto appello principale le contribuenti e appello incidentale l’Agenzia delle dogane.

La Commissione tributaria regionale del Veneto ha rigettato l’appello principale delle contribuenti e accolto l’appello incidentale dell’Agenzia delle dogane, in particolare ha ritenuto che: la pretesa impositiva non poteva dirsi prescritta, dovendosi applicare la proroga del termine di prescrizione; era legittima la pretesa impositiva, dovendosi ricomprendere nel valore della merce dichiarata in dogana al momento della introduzione della merce nel territorio nazionale anche i diritti di licenza dovuti in favore della licenziante, avendo accertato che il pagamento dei suddetti diritti era condizione dell’acquisto dei prodotti importati; non erano fondati i motivi di appello relativi alla non corretta determinazione del valore della transazione, alla ritenuta duplicazione dell’Iva ed alla decorrenza degli interessi di mora; erano, invece, fondati i motivi di appello incidentale relativi alla non sussistenza dei presupposti per la non applicabilità delle sanzioni, in particolare non ravvisava sussistenti ragioni di incertezza sull’applicazione delle previsioni normative di riferimento nè carenza dell’elemento soggettivo della condotta; infine, era inammissibile la questione relativa alla applicabilità della continuazione.

Avverso la suddetta pronuncia hanno proposto ricorso le contribuenti affidato a nove motivi di censura, cui ha resistito l’Agenzia delle dogane con controricorso.

La CBA Intl. S.r.l. (già Converse Italia s.r.l.) ha depositato memoria e con successivo atto di costituzione ha formalizzato la nomina di nuovo difensore.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione dell’art. 221, par. 3 e 4, CDC, e del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, comma 3, per avere ritenuto non sussistente nella fattispecie la prescrizione della pretesa tributaria.

In particolare, parte ricorrente evidenzia che, al momento in cui era stato emesso l’atto impositivo (22 ottobre 2014), l’autorità giudiziaria penale aveva già stabilito, con decreto di archiviazione del 26 aprile 2013, che la notizia di reato trasmessa dall’ufficio doganale era infondata per mancanza dell’elemento soggettivo, sicchè, non sussistendo un “atto perseguibile penalmente”, non poteva operare la proroga del termine per la notifica.

1.1. Il motivo è infondato.

Questa Corte (da ultimo, Cass. civ., 20 febbraio 2019, n. 4935; cfr. Cass. civ., n. 5384/2012; Cass. civ., n. 14016/2012; Cass. civ., n. 8046/13; Cass. civ., n. 8322/ 2013; Cass. civ., 8708/2013; Cass. civ., n. 7562/2015; Cass. civ., 24674/15) ha più volte affermato che, in tema di tributi doganali, l’azione di recupero “a posteriori” dei dazi all’importazione o all’esportazione può essere avviata dopo la scadenza del termine di tre anni dalla data di contabilizzazione dell’importo originariamente richiesto quando la mancata determinazione del dazio sia avvenuta a causa di un atto perseguibile penalmente, a prescindere dall’esito (di condanna o assolutorio) del giudizio, purchè sia trasmessa, nel corso del termine di prescrizione e non dopo la sua scadenza, la “notitia criminis”, primo atto esterno prefigurante il nodo di commistione tra fatto-reato e presupposto di imposta, destinato ad essere sciolto all’esito del giudizio penale.

Si è quindi evidenziato che, ai fini dell’applicazione della proroga del termine per la notifica, è irrilevante l’esito dell’accertamento penale ai fini della diversa decorrenza del termine di prescrizione, decorrenza soltanto condizionata dalla tempestiva denuncia della notitia criminis.

2. Con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione dell’art. 32, par. 1, lett. c), CDC e degli artt. 143, 157 e 160, DAC-CDC, per avere ritenuto erroneamente che nella fattispecie sussisteva il requisito della “condizione della vendita” per giustificare l’inclusione nel valore in dogana dei diritti di licenza.

In particolare, parte ricorrente evidenzia che il giudice del gravame non avrebbe correttamente applicato le previsioni normative di riferimento, non avendo accertato se ricorresse nella fattispecie un obbligo dell’acquirente di rivolgersi solo a determinati produttori ed avendo omesso ogni considerazione relativamente al rapporto tra il controllo esercitato dalla licenziante ed il pagamento dei diritti di licenza, mentre avrebbe dovuto individuare la sussistenza di un nesso inscindibile tra il negozio di vendita, la preesistente situazione di controllo, ed il pagamento, da parte di Converse Italia s.r.l., dei diritti di licenza su richiesta dei produttori, e, in particolare, di un legame giuridico tra la licenziante ed i produttori ovvero di un controllo di fatto.

2.1. Il motivo è infondato.

L’art. 29 del codice doganale comunitario (istituito dal Reg. (CEE) n. 2913/92 del Consiglio del 12 ottobre 1992) stabilisce che il valore in dogana delle merci importate è, di regola, il valore di transazione, ossia il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando siano vendute per l’esportazione a destinazione del territorio doganale dell’Unione, fatte salve, però, le rettifiche da effettuare conformemente all’art. 32 di tale codice (cfr. Corte Giust. 21 gennaio 2016, Stretinskis; Corte Giust. 12 dicembre 2013, Christodoulou), e deve comunque riflettere il valore economico reale della merce importata e, quindi, considerarne tutti i fattori economicamente rilevanti (in termini, da ultimo, Corte giust. 20 dicembre 2017, Hamamatsu).

Il menzionato art. 29, nell’individuare gli elementi che devono essere aggiunti al prezzo effettivamente pagato per determinare il valore in dogana, attribuisce rilevanza, tra gli altri, alla lett. c), ai “corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare, nella misura in cui detti corrispettivi e diritti di licenza non sono stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare”. – il Reg. (CEE) n. 2454 del 1993, art. 157, par. 1, (che fissa talune disposizioni d’applicazione del regolamento che istituisce il codice doganale comunitario), chiarisce che per “corrispettivi e diritti di licenza”, ai fini dell’art. 32, par. 1, lett. c), del codice doganale comunitario, deve intendersi, in particolare, quanto versato per l’utilizzo di diritti inerenti (anche) alla vendita per l’esportazione della merce importata in oggetto, in particolare marchi commerciali o di fabbrica e modelli depositati, e all’impiego e alla rivendita di dette merci importate, in particolare diritti d’autore e procedimenti di produzione incorporati in modo inscindibile in tali merci.

Il successivo paragrafo 2 del medesimo articolo precisa che al prezzo effettivamente pagato o da pagare devono essere aggiunti i corrispettivi o diritti di licenza soltanto nel caso in cui tale pagamento, da un lato, si riferisca alle merci oggetto della valutazione e, dall’altro, costituisca una condizione di vendita di tali merci.

Così ricostruito il quadro normativo deve concludersi, in coerenza con quanto affermato nella sentenza della Corte di Giustizia del 9 marzo 2017, GE Healthcare, che la rettifica prevista dall’art. 32, par. 1, lett. c), del codice doganale comunitario si applica quando ricorrono le seguenti tre condizioni cumulative: in primo luogo, che i corrispettivi o i diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare; in secondo luogo, che essi si riferiscano alle merci da valutare; e, in terzo luogo, che l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare.

Da ciò consegue che i corrispettivi o i diritti di licenza assumono rilevanza quale base imponibile e vanno considerati come “relativi alle merci da valutare” anche se non determinati al momento della conclusione del contratto di licenza o dell’insorgenza dell’obbligazione doganale.

Con particolare riferimento alla terza condizione, ossia che l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare, la richiamata pronuncia della Corte di Giustizia ha affermato che la nozione “condizione di vendita” sta ad indicare la situazione in cui, nell’ambito dei rapporti contrattuali tra il venditore – o la persona ad esso legata – e l’acquirente, l’assolvimento del corrispettivo o del diritto di licenza rivesta un’importanza tale per il venditore che, in difetto, quest’ultimo non sarebbe disposto a vendere, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.

Ha, quindi, aggiunto, che qualora, come nel caso in esame, il beneficiario delle royalties sia soggetto diverso dal venditore, occorre “verificare se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull’acquirente, tale da poter garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente”.

Può, dunque, ritenersi che i corrispettivi e i diritti di licenza (cd. royalties) dovuti dall’importatore in relazione alle merci importate costituiscono una “condizione della vendita”, ai fini della rilevanza degli stessi quale componente del valore in dogana di cui all’art. 32 del codice doganale comunitario e, conseguentemente, dell’applicazione del potere di rettifica dell’Ufficio, non solo quando l’operazione è subordinata espressamente, nelle clausole dell’accordo di licenza, all’assolvimento di tali pagamenti, ma anche quando tale rapporto di subordinazione si evince dal tenore delle clausole contrattuali che interessano anche diversi soggetti che possono intervenire nell’operazione medesima, quando, come nel caso in esame, il venditore è soggetto diverso dall’avente diritto alla percezione delle royalties (cfr., sul tema, Cass. 6 aprile 2018, n. 8473).

Con riferimento alla nozione di controllo utilizzata nella richiamata pronuncia della Corte di Giustizia, si rileva che l’allegato 23 al Reg. (CEE) n. 2454 del 1993 stabilisce, con riferimento all’art. 143, par. 1, lett. e) che “si considera che una persona ne controlli un’altra quando la prima sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sulla seconda”.

Il controllo è dunque inteso in un’accezione ampia: da un lato, sul piano della fattispecie, perchè è assunto per la sua rilevanza anche di fatto; dall’altro, su quello degli effetti, perchè ci si contenta del potere di “orientamento” del soggetto controllato.

Quest’accezione ampia e necessariamente casistica, d’altronde, ben si coordina con la nozione economica del valore doganale, la quale si traduce nel rilievo, anch’esso di fatto, degli elementi che definiscono il valore economico del bene.

Utili indicatori possono essere tratti dall’esemplificazione presente nel Commento n. 11 del Comitato del codice doganale (Sezione del valore in dogana) contenuto nel documento 11 Taxud/800/2002 sull’applicazione dell’art. 32, par. 1, lett. c), del codice doganale (ormai parte dell’acquis communautaire con valore di soft law, come riconosciuto anche dalla richiamata pronuncia della Corte di Giustizia secondo cui le conclusioni del comitato doganale “sebbene non giuridicamente cogenti, costituiscono tuttavia strumenti importanti per garantire un’uniforme applicazione del codice doganale da parte delle autorità doganali degli Stati membri e possono, quindi, essere di per sè considerate strumenti validi per l’interpretazione di detto codice”).

In particolare, il documento in questione annovera, tra gli elementi utili per determinare la presenza di un controllo, tra gli altri, i seguenti: il licenziante sceglie il produttore e lo impone all’acquirente; il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla produzione (per quanto attiene ai centri di produzione e/o ai metodi di produzione); il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla logistica e sulla consegna delle merci all’acquirente; il licenziante decide a chi il produttore può vendere le merci o impone delle restrizioni per quanto concerne i potenziali acquirenti; il licenziante fissa le condizioni del prezzo al quale il produttore/venditore vende le proprie merci o il prezzo al quale l’importatore/l’acquirente rivende le merci; il licenziante sceglie i metodi di produzione da utilizzare/fornisce dei modelli ecc.; il licenziante sceglie/limita i fornitori dei materiali/componenti; il licenziante limita le quantità che il produttore può produrre; il licenziante non autorizza l’acquirente a comprare direttamente dal produttore, ma attraverso il titolare del marchio (licenziante) che potrebbe agire anche come agente di acquisto dell’importatore; il produttore non è autorizzato a produrre prodotti concorrenti (privi di licenza) in assenza del consenso del licenziante; le merci fabbricate sono specifiche del licenziante (cioè nella loro concezione nel loro design e con riguardo al marchio di fabbrica); le caratteristiche delle merci e la tecnologia utilizzata sono definite dal licenziante.

Va precisato, a tal proposito, che non assume rilevanza la circostanza, evidenziata da CBA Intl. S.r.l. (già Converse Italia s.r.l.) nella memoria illustrativa, relativa alla soppressione del richiamato commento n. 11 Taxud/800/2002 rev. 2007 del Comitato del Codice doganale, superato dalla Commissione Europea con l’emanazione del “Compendium of Customs Valuation texts – edition 2018.

In realtà, il documento citato è stato sostituito dal Taxud/B4/2016, che fornisce linee orientative più sintetiche (ma non meno lineari) e si correla al dettato del nuovo codice doganale (Reg. 952/2013/UE – CDU) e al corrispondente Reg. di esecuzione (Reg. 2015/2447/UE – RE), i quali, sulla specifica questione, prevedono una disciplina più ampia sul concetto di “condizione di vendita” e sulla rilevanza del “controllo”: in particolare, si osserva che l’art. 70 del vigente codice doganale comunitario, pone, al comma 1, la regola generale che il valore in dogana è quello di transazione, ossia “il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci”, mentre il comma successivo dispone che questo “è il pagamento totale che è stato o deve essere effettuato dal compratore nei confronti del venditore, o dal compratore a una terza parte, a beneficio del venditore, per le merci importate, e comprende tutti i pagamenti che sono stati o devono essere effettuati, come condizione della vendita delle merci importate”.

Con riguardo alla questione in esame, il successivo art. 71 individua tra gli elementi da includere nel valore di transazione “c) i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore, direttamente o indirettamente, è tenuto a pagare come condizione per la vendita delle merci da valutare, nella misura in cui detti corrispettivi e diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare”.

Il Reg. di esecuzione (n. 2015 del 2447), art. 136, precisa, poi, che “I corrispettivi e i diritti di licenza sono considerati pagati come condizione della vendita delle merci importate quando è soddisfatta una delle seguenti condizioni: a) il venditore o una persona ad esso collegata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento; b) il pagamento da parte dell’acquirente è effettuato per soddisfare un obbligo del venditore, conformemente agli obblighi contrattuali; c) le merci non possono essere vendute all’acquirente o da questo acquistate senza versamento dei corrispettivi o dei diritti di licenza a un licenziante” (comma 4), giudicando irrilevante il paese in cui è stabilito il destinatario del pagamento dei corrispettivi o dei diritti di licenza (comma 5).

Può, dunque, concludersi che con il nuovo codice doganale l’esistenza di un collegamento fra il terzo che richiede il pagamento delle royalties e il venditore non è più, come invece previsto dal Reg. (CEE) n. 2454 del 1993, art. 157, par. 1, indispensabile, ma costituisce solo una delle condizioni, in sè sufficiente ma non necessaria per dimostrare l’obbligatorietà del pagamento delle royalties quale condizione della vendita.

La nuova disciplina consente, pertanto, di includere le royalties nel valore delle merci anche in assenza di un collegamento tra il venditore e il licenziante, escludendo che tale circostanza abbia valore essenziale: in tal senso si esprime il Taxud/B4/2016: “il criterio applicabile è capire se il venditore può vendere o se il compratore può comprare le merci senza pagare royalties o diritti di licenza. La condizione può essere implicita o esplicita. In alcuni casi sarà specificato nell’accordo di licenza se la vendita delle merci importate è subordinato al pagamento di un corrispettivo o di un diritto di licenza. Tuttavia, non è richiesto che ciò debba essere precisato negli accordi”.

La norma, del resto, come precisato anche nel citato documento TAXUD del 2016, rispecchia le indicazioni del Commentario 25.1 del 2011 del World Customs Organization (WCO), che, a loro volta, sono congruenti con quelle del Taxud/800/2002.

Quanto alla nozione di “controllo”, va rilevato che la stessa conserva importanza, venendo presa in considerazione dal Reg. (UE) n. 2015 del 2447, art. 127, secondo la quale, ai fini della determinazione del valore in dogana, “si ritiene che una parte controlli l’altra quando la prima è in grado, di diritto o di fatto, di imporre orientamenti alla seconda”: una siffatta locuzione è più generica ed ampia di quella precedente e non richiede necessariamente che il potere di orientamento investa la totalità delle attività del soggetto controllato.

E’, dunque, evidente che il documento Taxud/800/2002 mantiene inalterato il suo valore orientativo, sia perchè riferito alla disciplina contenuta nel codice doganale comunitario applicabile ratione temporis, sia perchè la normativa successivamente introdotta fornisce una regolamentazione della materia che privilegia in misura più incisiva la rilevanza delle royalties pagate ai fini della determinazione del valore delle merci, sia perchè anche il nuovo documento TAXUD del 2016 non si discosta dalle linee generali fondamentali già affermate.

Nel caso in esame, la sentenza impugnata ha concluso per la sussistenza del diritto dell’amministrazione doganale di operare la rettifica delle dichiarazioni doganali in considerazione della ritenuta presenza di un controllo della licenziante sul produttore, desunto dalle previsioni del contratto di licenza secondo cui: il licenziante sceglie e approva il produttore; qualsiasi ordine di acquisto deve essere approvato dalla licenziante; il licenziante decide a chi il produttore può vendere le merci ed ha il diritto di esaminare la contabilità del produttore e dell’acquirente; il licenziante sceglie i metodi di produzione da utilizzare ovvero fornisce relativi modelli; la licenziataria non può operare gli acquisti direttamente, ma tramite la licenziante.

In tal modo, la pronuncia censurata ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi di diritto.

3. Con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi degli artt. 1362,1363,1371,1372 c.c., per avere preso in considerazione soltanto talune delle clausole contrattuali, relative al rapporto tra Converse Italia s.r.l. e Converse Inc., non anche quelle relative al rapporto negoziale tra la licenziataria e i produttori che, sole, avrebbero potuto condurre ad accertare l’esistenza di vincoli di vendita imposti dai produttori; inoltre, la sentenza non tiene conto della reale intenzione delle parti, mancando la specifica considerazioni di elementi che avrebbero potuto collegare tra di loro tutte le parti coinvolte, quali le dichiarazione dei produttori dell’estremo oriente e della Converse Inc. ovvero la circostanza che esisteva un altro contratto di agenzia stipulato dalla licenziataria con la Broadly Based International Inc, soggetto terzo e indipendente dalle parti in causa.

3.1 Le considerazioni espresse con riferimento al secondo motivo di ricorso hanno valore assorbente del presente motivo.

Si è, infatti, evidenziato che la pronuncia impugnata è conforme ai principi espressi ai fini della verifica che il pagamento dei diritti di licenza costituisce condizione della vendita delle merci importate e ciò in quanto diversi elementi, valorizzati nella pronuncia, conducono a ritenere sussistente un controllo indiretto da parte della licenziante.

Va, peraltro, precisato che secondo il granitico orientamento di questa Corte, l’interpretazione del contratto può essere sindacata in sede di legittimità solo nel caso di violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, la quale non può dirsi esistente sul semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che un’altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale, sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass. civ., 10 maggio 2018, n. 11254; Cass. civ., 15 novembre 2017, n. 27136; Cass. civ., 26 maggio 2016, n. 1089; Cass. civ., 10 febbraio 2015, n. 2465).

In ogni caso, con riferimento alla mancata considerazione del contenuto delle dichiarazioni dei produttori, il giudice del gravame mostra di averle prese espressamente valutate, precisando che le dichiarazioni dei produttori dell’Estremo oriente e della Converse Inc. di certo non possono risultare di decisiva importanza, non solo perchè proveniente da parti interessate, ma anche perchè, inevitabilmente, riproducono determinati aspetti anche solo apparenti in ordine ai rapporti intercorrenti tra la acquirente Converse Italia s.r.l. ed i produttori asiatici, mentre l’impostazione specifica del presente accertamento è quella di individuare, anche al di là delle disposizioni contrattuali, tacite clausole sottostanti, dalle quali desumere aspetti di sostanza dei rapporti tra le tre entità in discorso: la Converse Italia s.r.l., la Converse Inc. di diritto statunitense, e infine i produttori asiatici.

Meramente affermata, poi, in difetto del principio di specificità, è l’esistenza di un altro contratto di agenzia con la Broadly Based International Inc..

4. Con il quarto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione degli artt. 29, 30, 31, par. 2, lett. g), e 32, del Reg. Ce n. 2013/1992.

In particolare, le ricorrenti lamentano che il giudice del gravame ha ritenuto corretta la determinazione del valore dei diritti di licenza non dichiarati in dogana basata sul dato medio unitario, a sua volta ricavato dall’importo netto fatturato, piuttosto che sull’effettivo valore delle stesse e che, in questo contesto, non si sarebbe dovuto tenere conto di una serie di elementi di costo sorti dopo e indipendentemente dall’importazione delle merci e nell’ambito del territorio nazionale.

4.1 I motivo è infondato.

Con riferimento ai diritti di licenza, l’art. 32, par. 1, prevede che, per determinare il valore in dogana ai sensi dell’art. 29 si addizionano al prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare, nella misura in cui detti corrispettivi e diritti di licenza non sono stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare.

Inoltre, l’art. 161 del Regolamento Ce n. 2454/93 fissa la presunzione relativa che il pagamento del corrispettivo o diritto di licenza si riferisca alle merci oggetto di valutazione quando il metodo di calcolo di esso si basa sul prezzo delle merci importate e aggiunge che “Tuttavia, il pagamento del corrispettivo o del diritto di licenza, può riferirsi alle merci oggetto della valutazione quando l’ammontare di tale corrispettivo o diritto di licenza venga calcolato senza tener conto del prezzo delle merci importate”.

Pertanto, le previsioni normative in esame consentono di determinare il corrispettivo per i diritti di licenza, da aggiungere al valore della merce in dogana, sulla base delle determinazioni negoziali delle parti del contratto.

Il giudice del gravame ha accertato che la determinazione del valore dei diritti di licenza è stato compiuto tenendo conto del fatturato netto (come consentito dalle previsioni normative sopra indicate) tenuto conto di quanto previsto nel contratto di licenza tra Converse Inc. e Converse Italia s.r.l. nonchè dei dati forniti dallo stesso obbligato.

Con il presente motivo di censura non si contesta che il calcolo dei diritti di licenza sia avvenuto secondo criteri di determinazione del corrispettivo diversi da quelli risultanti dal contratto di licenza nè si assolve al principio di specificità laddove si evidenzia che, contrattualmente, si sarebbe dovuto procedere ad eventuali scorpori di costi successivi all’importazione.

5. Con il quinto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 6,7-ter, 17,23 e 25, nella parte in cui la sentenza impugnata ha riconosciuto la legittimità del recupero relativo all’I.v.a. all’importazione, benchè l’importatrice avesse provveduto all’assolvimento dell’imposta mediante auto fatturazione.

5.1 Il motivo è fondato, nei limiti che seguono.

Il giudice del gravame dà atto, sia pure implicitamente, che la contribuente ha assolto l’Iva intracomunitaria mediante inversione contabile, ma ritiene che siffatto pagamento non fa venir meno l’obbligo di versare l’Iva all’importazione in assenza della introduzione della merce in un deposito Iva.

A tal proposito, si osserva, da un lato, che in tema di Iva, l’Amministrazione finanziaria non può pretendere il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione dal soggetto passivo che, non avendo materialmente immesso i beni nel deposito fiscale, si è illegittimamente avvalso del regime di sospensione di cui al D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 50 bis, comma 4, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 29 ottobre 1993, n. 427, qualora costui abbia già provveduto all’adempimento, sia pur tardivo, dell’obbligazione tributaria nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile mediante un’autofatturazione ed una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite, atteso che la violazione del sistema del versamento dell’Iva, realizzata dall’importatore per effetto dell’immissione solo virtuale della merce nel deposito, ha natura formale e non può mettere, pertanto, in discussione il suo diritto alla detrazione (cfr. Corte Giust., 17 luglio 2014, Equoland; tra la giurisprudenza domestica, cfr. Cass. 17 maggio 2017, n. 12231).

D’altro lato, l’Iva conseguente all’importazione, seppur segnata da specificità procedimentali e sanzionatorie rispetto a quella intracomunitaria, costituisce tributo interno non assimilabile ai dazi sebbene con essi condivida il fatto di trarre origine dall’importazione nell’Unione e dall’introduzione nel circuito economico degli Stati membri, sicchè può essere assolta mediante il meccanismo contabile del reverse charge (così, Cass. n. 8473/18; Cass. 28 settembre 2016, n. 19098).

Tuttavia, l’assolvimento mediante inversione contabile dell’Iva intracomunitaria non elide la maggiore pretesa concernente la maggiore Iva scaturente dalla base imponibile aumentata dell’importo dei corrispettivi dei diritti di licenza.

6. Con il sesto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione degli artt. 214 e 232 Reg. Ce n. 2913 del 1992, e dell’art. 519, Reg. Ce n. 2454 del 1993, per aver ritenuto che gli interessi di mora erano dovuti sin dalla data delle singole dichiarazioni doganali e non dal termine di scadenza dell’obbligazione contabilizzata a posteriori.

6.1 Il motivo è fondato.

In materia di dazi all’importazione gli interessi di mora relativi all’importo dei dazi doganali che devono ancora essere percepiti possono essere riscossi, ai sensi del Reg. CEE n. 2913 del 1992, art. 232, solo per il periodo successivo alla scadenza del termine di pagamento, sicchè non possono essere addebitati al contribuente interessi compensativi in relazione al periodo intercorso tra il momento dell’originaria dichiarazione doganale e quello della contabilizzazione a posteriori di tale obbligazione (cfr. Corte U.E., 31 marzo 2011, Aurubis; tra la giurisprudenza nazionale, vedi, Cass. 27 gennaio 2017, n. 2073; Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 04/04/2019) 06-06-2019, n. 15346).

7. Con il settimo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 2, per aver la sentenza di appello escluso che ricorresse una situazione di incertezza normativa oggettiva idonea ad inibire l’irrogazione delle sanzioni.

7.1 Il motivo è infondato.

In tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l’incertezza normativa oggettiva, causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, postula una condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, riferita non già ad un generico contribuente, nè a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata, nè all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione (cfr. Cass. 23 novembre 2016, n. 23845; Cass. 22 febbraio 2013, n. 4522).

Tale condizione ricorre quando la disciplina normativa, della cui applicazione si tratti, contenga una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso per equivocità del loro contenuto, derivante da elementi positivi di confusione, il cui onere di allegazione grava sul contribuente (cfr. Cass. 14 gennaio 2015, n. 440; Cass. 14 marzo 2012, n. 4031).

Nel caso in esame, non è ravvisabile una simile incertezza normativa oggettiva, avuto riguardo alla possibilità di individuare con sicurezza ed univocamente la norma giuridica in oggetto e, al tempo stesso, alla mancata allegazione da parte della ricorrente di indici quali, ad esempio, l’esistenza di specifici e rilevanti contrasti giurisprudenziali – sintomatici della ricorrenza di un siffatto stato.

8. Con l’ottavo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omesso esame circa un fatto decisivo e controverso oggetto di discussione tra le parti, per non avere considerato, ai fini della valutazione dell’applicabilità della sanzione e della inesistenza della condizione soggettiva dello stato di buona fede, la condizione di legittimo affidamento nella quale si era trovata l’importatrice.

Il motivo è inammissibile.

Il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, nei limiti in cui detto sindacato è consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo vigente, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 agosto 2017, n. 19547; Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011, n. 27197; Cass. 6 aprile 2011, n. 7921; Cass. 21 settembre 2006, n. 20455; Cass. 4 aprile 2006, n. 7846; Cass. 9 settembre 2004, n. 18134; Cass. 7 febbraio 2004, n. 2357).

Nè il giudice del merito, che attinga il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, è tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (ad es.: Cass. 7 gennaio 2009, n. 42; Cass. 17 luglio 2001, n. 9662).

Oltretutto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base (ex plurimis: Cass. 24 ottobre 2013, n. 24092; Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 21 aprile 2006, n. 9368).

Nella fattispecie, il giudice del gravame ha ritenuto di dovere escludere la condizione di buona fede sulla base di diversi elementi da cui evincere la intenzionalità di violare la norma o, quantomeno, una condizione di negligenza inescusabile.

In particolare, ha valorizzato la circostanza che la contribuente aveva acquisito un parere legale sulla questione ed aveva accantonato un importo di Euro 600.000 in bilancio, oltre che la stessa chiarezza della domanda indicata nella dichiarazione doganale, cui la contribuente aveva risposto in senso negativo, ed è su tali elementi che ha espresso il proprio convincimento.

Nel caso in esame, il motivo in questione, pur prospettando formalmente una censura di vizio motivazionale, si traduce in effetti in una censura di merito, volta a rimettere in discussione l’accertamento di fatto compiuto dalla Corte territoriale.

9. Con il nono motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, per avere erroneamente ritenuto inammissibile l’eccezione relativa alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’istituto della continuazione alle sanzioni contestate.

9.1 Il motivo è infondato.

Il giudice del gravame ha ritenuto che, con riferimento alla questione relativa all’applicabilità, nel caso di specie, dell’istituto della continuazione in caso di plurime sanzioni, la contribuente aveva svolto considerazioni in sede di memoria e che tale attività processuale non era idonea a devolvere la cognizione in sede di giudizio di appello, posto che nè in sede di appello nè in sede di controdeduzioni la stessa parte aveva provveduto a riproporla.

Risulta dalla stessa sentenza che: nel giudizio di primo grado, la contribuente era risultata soccombente relativamente alla questione della legittimità della pretesa relativa al mancato pagamento dei diritti di licenza, mentre era risultata vittoriosa con riferimento alla contestazione delle sanzioni, avendo il giudice di primo grado ritenuto sussistenti condizioni di incertezza sulla portata e l’ambito di applicazione della normativa di riferimento; l’Agenzia delle dogane aveva proposto appello relativamente alla statuizione della pronuncia di primo grado con cui era stato ritenuto illegittimo l’atto di irrogazione della sanzione.

Ciò precisato, va osservato che, secondo questa Corte, la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, non ha l’onere di proporre appello incidentale per richiamare in discussione le proprie domande o eccezioni non accolte nella pronuncia, da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perchè assorbite; in tal caso la parte è soltanto tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di appello o nel giudizio di cassazione in modo tale da manifestare la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinunzia derivante da un comportamento omissivo” (Cass. Sez. U, 25 maggio 2018, n. 13195).

E’ vero, quindi, che la contribuente, parte vittoriosa nel giudizio di primo grado sulla questione della legittimità delle sanzioni, non aveva l’onere di proporre appello incidentale, dovendo esso riguardare unicamente i punti della sentenza di cui una parte è risultata soccombente, ma è altresì vero che la stessa era tenuta comunque a riproporre in via di eccezione la questione non decisa dal giudice di primo grado in quanto assorbita dalla pronuncia di cui la stessa è, comunque, risultata vittoriosa.

La necessità della proposizione della questione in via di eccezione postula che la parte vi provveda in modo espresso e secondo i modi e termini di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 23, richiamato dall’art. 54 per il giudizio di appello.

Ed è proprio il citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 23, che dispone che è con le controdeduzioni che la parte resistente, oltre a esporre le sue difese prendendo posizione sui motivi dedotti dal ricorrente e indicare le prove di cui intende valersi, deve proporre le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio.

In particolare, questa Corte (Cass. civ., 28 settembre 2005, n. 18962) ha precisato che in tema di contenzioso tributario, la costituzione in giudizio della parte resistente deve avvenire, ai sensi del D.Lgs 31 dicembre 1992, n. 546, art. 23, entro sessanta giorni dalla notifica del ricorso, a pena di decadenza dalla facoltà di proporre eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio e di fare istanza per la chiamata di terzi.

La pronuncia censurata, come detto, ha escluso che parte ricorrente avesse prospettato la questione della applicabilità della continuazione in sede di controdeduzioni, essendo stata questa proposta solo in sede di successiva memoria, sicchè correttamente ha ritenuto che non poteva sussistere la cognizione sul punto in sede di giudizio di appello.

In conclusione, il primo, secondo, quarto, settimo e nono motivo sono infondati, il terzo assorbito, l’ottavo inammissibile, il quinto ed il sesto fondati, con conseguente cassazione della sentenza per i motivi accolti e rinvio alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.

PQM

La Corte:

dichiara infondati il primo, secondo, quarto, settimo e nono motivo, assorbito il terzo, inammissibile l’ottavo, fondati il quinto e sesto motivo, cassa la sentenza impugnata per i motivi accolti e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2019.

Depositato in cancelleria il 23 ottobre 2019

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